Operette tumorali – Dialogo di Dio e di Giona

Giona, rigettato dal ventre della balena che lo ha inghiottito, giace sulla rena. Dio gli rivolge la parola.

DIO Giona, credevi davvero di potermi sfuggire?
GIONA Sono stato uno sciocco, Signore. Non so che mi è preso.
DIO Beh, ne hai di buoni motivi per definirti sciocco. Che questa disavventura ti serva da lezione. Nessun uomo, nessuno, neppure un profeta come te, può nascondersi agli occhi di Dio.
GIONA Lo so, Signore, lo so. Ma ho provato una tale paura…
DIO Paura, Giona, paura? Io la chiamerei piuttosto viltà.
GIONA Ma la viltà è figlia della paura.
DIO La viltà non ha genitori. L’uomo vile lo è sin dalla nascita, la paura non c’entra. Avresti potuto parlare di paura se, giunto a Ninive, tu fossi poi scappato. Ma a Ninive non ti sei neppure avvicinato di un passo.
GIONA Hai ragione, sono un vigliacco.
DIO E non hai neppure avuto paura di me, altrimenti non avresti tentato di sfuggirmi.
GIONA Perdonami, Signore.
DIO L’ho già fatto, altrimenti non ti avrei salvato dal mare in tempesta deponendoti nel ventre della balena.
GIONA Offrirò a Te un grande sacrificio.
DIO Sta bene. Prima però devi eseguire il mio ordine.
GIONA Signore, io… sono un uomo vecchio, malato, alla fine dei suoi giorni. Come posso farmi carico di una tale impresa?

Dio si spazientisce ed alza il tono della voce.

DIO Giona! Ora tu ti alzerai, andrai a Ninive e annuncerai loro quanto ti dirò.
GIONA Ma, Signore, io sono un uomo vile, lo hai detto tu stesso…
DIO Giona, smettila! Non hai alternative. Oramai è per me una questione di principio. È vero, potrei affidare questa missione a innumerevoli altri uomini, ben più coraggiosi di te, ma non posso dartela vinta. La mia volontà deve piegare qualunque sentimento, dunque anche la viltà. So bene che la viltà distrugge nell’uomo l’orgoglio, lo priva della dignità, lo rende un parassita…
GIONA Sì, io sono un parassita.
DIO Non interrompermi! Sappi, Giona, che quando decido una cosa deve essere quella, non ci sono alternative. E sono disposto a perdere l’intera eternità qui, su questa spiaggia, convincendoti di questo. Forza, in piedi!

Giona sa di non avere scampo. Si alza con indolenza, borbottando qualcosa.

GIONA Io sarò pure un vigliacco, ma tu sei un testardo che non finisce mai. Tra tanti uomini, tra tanti profeti proprio a me doveva toccare questa disgrazia? Che cosa ho fatto di male?
DIO Cos’hai da bofonchiare, eh?
GIONA Niente, Signore, niente.
DIO Bene. Tu ora andrai a Ninive, ci vogliono tre giorni di cammino…
GIONA Signore, le mie povere, vecchie e malate gambe come possono colmare una tale distanza?
DIO Tu andrai a Ninive, a piedi, e in essa proclamerai che la loro depravazione è salita fino alle mie orecchie, e che la città verrà distrutta tra quaranta giorni.
GIONA Signore, se tu hai già deciso di distruggere Ninive, che bisogno c’è che io vada fin laggiù ad annunciarlo? A che serve mettere a repentaglio la vita di un povero vecchio?
DIO Se serve oppure no, me ne frego, io ho deciso così e tu non puoi sottrarti al volere del tuo Dio. Forza Giona, in marcia!
GIONA Ah… quanto è faticoso essere profeti…
DIO Ti assicuro che è molto più faticoso spezzarsi la schiena tutti i santi giorni in una miniera.
GIONA Certo, come no. Signore, io…
DIO Smettila di parlare e inizia a camminare!

Durante i tre giorni di cammino, Giona prova più volte a sfuggire a Dio, ma non ci riesce. Giunto a Ninive, prova a corrompere più di un uomo affinché annunci la distruzione della città al posto suo, ma nessuno accetta. Alla fine si trova costretto ad assolvere in prima persona il compito affidatogli da Dio. Le parole di Giona non restano inascoltate, anzi, il re di Ninive ordina un grande digiuno con lo scopo di impietosire il Signore e placarne l’ira. Così avviene. La città al quarantunesimo giorno è ancora in piedi e gli abitanti, redenti, esultano. Chi non esulta è Giona, contrariato dalla misericordia di Dio.

DIO Giona, dimmi, cosa ti affligge?
GIONA Io non capisco.
DIO Cosa?
GIONA Il tuo comportamento.
DIO Spiegati meglio.
GIONA Voglio dire, scoppi d’ira, mi ordini di andare a Ninive e annunciare la distruzione della città. Io eseguo l’ordine, con una prontezza ed un coraggio sconosciuti ad ogni uomo, rischiando la vita, e tu perdoni la città e i suoi abitanti. Mah.
DIO Beh, sulla prontezza e il coraggio ci sarebbe da discutere, ma è meglio lasciar perdere. Giona, poniamo che io faccia crescere sul tuo giaciglio una pianta di ricino affinché tu ti rinfreschi con la sua ombra e poi la distruggessi, come reagiresti? Ti rammaricheresti per quella pianta di ricino?
GIONA Certo.
DIO Bene. Tu ti dai pena per quella pianta per cui non hai fatto nessuna fatica, per cui non hai alzato un solo dito, e io non dovrei impietosirmi per una grande città come Ninive?

Giona accusa il colpo, si zittisce e rimugina tra sé. Dopo qualche minuto di silenzio, Dio riprende la parola.

DIO Tuttavia, non si tratta solo di questo.
GIONA Lo sapevo, ne ero sicuro. Che c’è sotto?

Il tono di voce di Dio si rattrista di colpo.

DIO Tra qualche secolo saranno gli stessi uomini a radere al suolo Ninive.
GIONA Gli stessi uomini? E perché?
DIO Perché la loro barbarie non conosce limiti [1].

NOTE

[1] La vicenda di Giona risale all’VIII secolo a.C. Dio si riferisce alla devastazione, da parte di un gruppo di fanatici dell’Isis, di Mosul, l’odierna Ninive, avvenuta nel 2015. Riporto di seguito una toccante testimonianza di quel drammatico evento. L’articolo, intitolato La barbarie, del mio carissimo amico Moammed Sceab, giornalista iracheno emigrato in Francia, morto suicida pochi giorni fa.

«Nonostante l’imponenza, le statue millenarie soccombono sotto i colpi insensati, immotivatamente violenti di uomini, o meglio, di barbari senza coscienza. Corpi scolpiti nel marmo, che su di essi portano il peso di migliaia di anni, vengono mutilati con orgoglio e noncuranza, devastati, disintegrati a colpi di martello. L’eternità annientata da una furia che inorridisce, che offende, oltraggia, stupra la storia, la civiltà e quello stesso Dio nel nome del quale l’orribile crimine viene compiuto.
Osservare immagini di una tale violenza fa male, addolora più di qualunque gola sgozzata, più di qualunque capo decapitato. L’uomo distrugge la parte più nobile del suo passato, cancella per sempre dalla faccia della terra la sua memoria, le sue radici, tutto quel che resta, e l’animo di chi assiste sbigottito ad una tale barbarie subisce un colpo duro, durissimo. Il cuore si ferma per un istante, poi ricomincia a battere, ma è un battito diverso, affranto, affaticato. Niente sarà più come prima. Il dolore diviene fisico. L’incredulità prima, e la rabbia poi, piegano le gambe. In ginocchio, lo spettatore della disumana devastazione stringe i pugni e, a denti stretti, domanda: “Perché?”. La voce, inizialmente debole, spezzata dal pianto, diviene presto grido. Un grido di indignazione. Non c’è risposta. Perché? Perché? No, non c’è risposta. Non può esserci. La barbarie non ha mai una spiegazione. Mai.
Un’intera, gloriosa civiltà umiliata, annichilita, demolita nel giro di pochi e folli attimi. Non restano che frammenti. Non resta che polvere. L’uomo si rigenera, la storia no. Cedere ad istinti guerrafondai è normale, è naturale. Il pacifismo cede inevitabilmente il passo al risentimento ed allo sdegno. Non può esserci comprensione, no. Non può esserci indulgenza, non può esserci perdono. Quando è la Cultura ad essere colpita, non c’è giustificazione che tenga.
Come può un uomo, un uomo come me, come voi, come noi compiere un tale delitto, un tale assassinio? Un simile gesto apre gli occhi, li spalanca con violenza, recide le palpebre. Se un uomo, anche uno solo, è capace di macchiarsi di un tale reato, l’intera umanità è in pericolo.
La vendetta… Forse, forse lo sterminio di quei barbari è l’unico rimedio. Forse non c’è altra soluzione per arrestare l’emorragia interna di cui siamo vittime dopo aver osservato immagini tanto crudeli, violente, brutali. No, non basterebbe. Sapere che i barbari sono stati annientati non cancellerebbe il dolore, non deprimerebbe l’angoscia che soffoca. No. La colpa, in ogni caso, resterebbe, indelebile, per sempre. La minaccia resterebbe sempre viva, sempre in agguato, accovacciata sordida all’ombra di un ideale distorto, oppure di una fede esasperata e futile. E allora? Allora cosa fare? Piangere. Versare lacrime amare, autentiche, sincere. Io vi odio assassini, io vi odio barbari, io vi odio uomini. Non siete neppure capaci di rispettare quelle poche, quelle rare testimonianze nobili del nostro effimero passaggio su questo povero globo. Voi siete niente. Noi siamo niente.
Ho vissuto e scritto sempre e solo nel nome della Cultura. Nel nome della Cultura, e di tutto ciò che questa meravigliosa parola contiene, ho agito. I barbari mi hanno colpito. I barbari mi hanno umiliato. Quei maledetti barbari, sì, proprio quei barbari, uomini come me. Apparteniamo alla stessa, fottuta razza, e a tutti coloro i quali d’ora in avanti avranno voglia di farmi male, di ferirmi fin nel profondo, di offendermi facendomi vergognare di me stesso… Beh, a tutti loro, consiglio di ricordarmi questo».

Operette tumorali , , , , , , , ,

Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

Precedente Operette tumorali – Dialogo di Salomone e dell’Angelo censore Successivo Operette tumorali – Passione