Il raglio dell’asino

Lontano un ciuco ragliò. Pioggia. Non tanto asino. Non se ne vede mai uno morto, dicono. Vergogna della morte. Si nascondono.

James Joyce, «Ulisse»

 

O Musa, tu
un verso vivente,
splendente nella penombra
d’una vita arresa.

***

Nel ventre tanto piatto
da sembrare scolpito,
spunta un cesareo antico
aedo d’un’esistenza dolorosa.

***

Specchi della mia mestizia
i tuoi oceanici occhi
protesi verso l’orizzonte
oltre il quale silenzioso
il sole svanisce.

***

T’immagino ed il cuore,
sospeso tra il vuoto e la sciagura,
vacilla.
La tua bellezza riempie i cieli,
ampi spazi altrimenti incolmabili,
gli abissi misteriosi dei mari,
i lontani orizzonti oltre i quali
svaniscono silenziosi i soli,
i deserti vuoti
contraddizioni di se stessi.
Ah, quanto invidio
le anime beate degli uomini
che conobbero il tuo amore.
Io ti conobbi come Musa,
Dea, condanna e Siberia,
mai, ahimè, come amante.

***

Il mio sogno di te,
folle e misero,
si è infranto in un macabro
mattino di primavera
in cui ti ho vista baciare
con malvagio trasporto
le sordide labbra
d’un uomo qualunque.

***

Giunti a destinazione
ti lancio un ultimo,
implorante sguardo
che ti grida di restare.
Ma è troppo tardi
e l’urlo soffocato.
La mia angoscia
non ti raggiunge
e così, magnifica, fuggi via veloce
dissolvendoti nella nebbia
d’un fragile sogno mattutino.

***

Miracolosa visione,
ideale sostanza che colma
il vuoto cosmico d’amore.

***

L’amore è un orrore
dal volto pallido e scarno,
attraversato da un compiaciuto
ghigno di crudeltà.

Il suo sguardo in apparenza lusinghiero
cela il terrore del boia
consacrato al patibolo.

Le sue labbra sottili,
maschere di vitalità,
racchiudono un veleno lercio
in grado persino di uccidere
un cadavere in putrefazione.

***

L’odore acre che esala
dall’asfalto bruciato
dal sole di mezzogiorno
è il lezzo tremebondo
delle città d’estate,
solitarie nelle loro magnificenze,
perdute nei loro amori eterni
che rivivono tutti nella passione
d’una giovane coppia avvinghiata
all’ombra d’un vecchio platano.

***

Effimera pioggia d’estate!
Perché, perché illudere
chi serba rancore
verso l’esuberante stagione?

***

Una rassegnata moltitudine
di corpi senz’anima.
Sembra di sedere
in un’enorme bara
lanciata verso il Nulla,
tanto è asfissiante
l’odore di morte consumata
che esala dentro
le carrozze sovraccariche.

***

Ai cigli delle strade
modesti monumenti funebri
ornati con fiori
di plastica sbiaditi.
E corpi sfatti in vendita
oramai attraenti solo
per allupati cannibali.

***

 

L’abbandono genera mestizia,
il più cupo oblio abitabile.

***

Il silenzio della notte
alimenta il desiderio.
Quel desiderio tanto ardente
da demolire l’uomo
non più schiavo d’una sola esistenza.

***

È notte ed il vento
addensa le nubi.
Dicono: «Domani pioverà».
Domani sarà l’ennesimo giorno
eguale a tutti gli altri.

***

Un violento colpo di tosse.
Poi un altro,
un altro ancora
e ancora e ancora,
in rapida successione.

Crudele estirpare il sonno
all’uomo che non ha altro.

***

Un uomo sbiadito.
Il colore della cenere
sulla pelle e negli occhi.
Cenere
nel cuore e nell’animo.

***

Fu una rupe scoscesa
la mia vana difesa.
Un guado scivoloso
che rese il passo pericoloso.
Sdrucciolò la terra
come nelle trincee in guerra,
ma questo fu un dramma
del tutto privo di fiamma.
Un dramma modesto e silenzioso,
un sospiro mesto e lamentoso.

***

Sguardi sparsi sulla strada
implorano aiuto;
sguardi tanto languidi che
se avessero un corpo
starebbero in ginocchio.
Ma inespugnabile è l’indifferenza
delle donnette in marcia
ridenti come fiori di plastica.

***

Il cielo,
di un giallo sporco,
è ricoperto di nubi
cariche di terra.
È un deserto al rovescio
dal quale piove sabbia.

***

Alla povera bestia
smagrita e cieca
non è concesso neppure
il sollievo del ricordo.

***

Zitta sgobba
da mane a sera
come una serva.
Quando si piega scricchiola
e a volte zoppica.
Non è ancora vecchia,
eppure dai movimenti
stentati lo sembra.
La casa è un lager:
sfascia le ossa.

***

Momenti d’affetto
sempre più rari.
L’insofferenza reciproca,
le spalle voltate,
le fughe ed i ritorni mancati
(quotidiane odissee
in alcolici mari).
Del grande progetto non restano
che squallide rovine.
Figlio suo malgrado
vorrebbe scomparire.

***

Presto s’inizia a velare
d’ombra funesta il mare.

***

 

M’hanno torto a questa vita
con l’inganno.
Se l’avessi saputo
non sarei mai nato.

***

Mi ero illuso
che potesse bastare.
Ma una chimera
la si vuole intera.
Fino ad odiarla.
Fino ad ammazzarla.

***

 

Il grinzoso relitto sassifica
con la sua voce consumata,
e ancor più con la sua illustre fama,
la turba nella quale spicca,
proprio in prima fila,
una giovane donna
leopardianamente storpia.
Non sta seduta;
è piuttosto abbandonata
come una marionetta che riposa.
Il suo esile bastone
giace a terra,
supino totem di morte.

***

Io non ho mai chiesto
niente a nessuno.
Io non chiederò mai
niente a nessuno.
Preferisco morire
piuttosto che insozzarmi
dovendo ringraziare qualcuno.

***

«Attenzione.
Si rammenta
che è severamente vietato
attraversare i binari.
Per accedere ai binari 2 e 3
utilizzare esclusivamente
la passerella posta
a destra del binario 1»,
scandisce la patriottica
voce metallica.
Ma a causa di un guasto,
si narra alla stazione di Marechiaro,
il treno è cancellato
ed i binari,
imposti destini desertificati,
non ospitano alcun locomotore.

***

Una moderna Kunigunde,
i lunghi capelli color
biondo platino,
incede tra la moltitudine
di gente in attesa
ostentando gli enormi
seni di plastica.

***

La tarchettiana prostituta –
magra, troppo magra,
due occhiaie nere
profonde come solchi –
di bello ha solo i piedi –
le unghie curate,
dipinte di blu -,
ma non li ha lavati.

***

L’indigestione mattutina
di soffici madeleine
non meno pesanti
perché prive di ricordi.
L’odio furioso concentrato
in una fragorosa bestemmia
disperata dinanzi le tele
olezzanti di Soutine.
La commozione vibrante –
un’apnea – al cospetto
della tomba del Maestro
ed il furto impunito
d’una reliquia inestimabile.
Il corpo distrutto
da una città che prosciuga
le energie del viandante
che la attraversa,
deluso.

***

I canali… Ah, quei canali…
placidi, che infondono calma.
Quelle acque silenziose,
educate come i cigni
che vi si bagnano.
Quelle casette storte,
soutiniane ma solo nella loro
singolare obliquità.
E le donne! Le donne!
Le divine donne esposte
alle finestre di quelle alcove
sanguigne e calde come
il grembo materno.
Ci si avvicina col cuore in gola
e la porta si apre;
si domanda how much
solo per rompere il ghiaccio –
pura formalità -.
E poi un groviglio di sensi
in cui si perde se stessi
ed il piacere schizza ovunque
felice d’esistere.

***

Incede con autorità
brandendo minacciosa
la frusta gorgonea.
La lucida tuta in latex,
ermetica come la sera
di Quasimodo, ne esalta
le curve generose.
Lo schiavo nudo, in ginocchio,
protende la mano tremante
per afferrare un lembo –
almeno un lembo! –
di cotanto ben di Dio,
ma un colpo violento
gli ustiona le dita.
Implacabile la mistress,
senza cuore,
minaccia a denti stretti:
«Non provarci mai più,
mai più a toccarmi,
verme schifoso!
E adesso baciami i piedi
prima che ti schiaccino».
Lo schiavo obbediente
esegue l’ordine benedicendo
quella donna nera
cui per un’ora ha consacrato
la sua inutile esistenza.

***

È un ordigno rudimentale
il tuo corpicino nervoso,
non ancora formato eppure
già così attraente.
La legge non mi permette
di tenerti la mano,
snella figurina,
e allora me ne vado
sconsolato come un cane bastonato.

***

Del teschiato cartello
«Attenzione
Pericolo di morte»
Ella è la personificazione.

***

 

L’eco d’un pallone calciato
riporta alla memoria un selciato
macchiato del sangue rosso
di ginocchia ridotte all’osso.
Mentre curvo sulla scrivania
godo della mia prigionia
criminale come la decisione
di procreare l’ennesimo gibbone.

***

Ora dovrei andare,
dovrei salutare – eh,
la buona educazione! –
e lasciare questo posto,
diretto altrove, là dove
niente muore perché
tutto è già morto.

***

La bellezza d’un seno
che sussulta sincero
perché privo di reggiseno.

***

Mi sentirei in colpa
se gettassi ciò che resta
della sigaretta a terra.
Ma chiusa è la via
che porta al posacenere
dalla muraglia di gente.

S’apre un varco.
M’insinuo.
Resto intrappolato.

***

Volano bassi i gabbiani
schiacciati dalle nubi pesanti.
Rasentano gli alberi-siepe
potati di recente.
Potato ho il mio cervello
di tutte le illusioni.

***

Un bouquet abbandonato
alla stazione di Campo di carne.
Giace solo, sul marciapiede,
macchia rosa tra il fogliame.

***

Ti vorrei scartavetrare,
ma non lo faccio,
perché so che anche tu
come tutte le altre
dentro non porti altro.

Siete quello che vedo;
ed è finito il tempo
in cui m’illudevo.

***

Ogni mattina
mi risveglio in trincea.
I nemici –
i più sanguinari mai letti
sui libri di storia –
sono i miei stessi pensieri.

***

Stringevo la giovinezza in un pugno
che un giorno ho aperto
trovandovi solo un cumulo di cenere
cosparso chissà dove
da un’improvvisa folata di vento.
Addio, mia bella giovinezza, addio!
Vittima d’un precoce invecchiamento
mi ritiro tremante in un ospizio di sabbia
in attesa del suo crollo,
della mia sepoltura.

***

Di amori ideali, ancestrali
mai corrisposti come se la Crudeltà
in persona ne muovesse i fili
restano ricordi vaghi, ricoperti
da una spessa coltre di nebbia.
Nomi senza più corpi né volti
in fila in attesa di un’esecuzione
che non serve perché già cadaveri
sterminati dalla furia cieca
del Tempo divoratore che tutto
insaziabile trangugia, maciulla
e poi risputa con disgusto
per far posto ad altro
nella sua bocca immensa.
Resta l’indistinto sfrigolio
delle sue fauci in perpetuo movimento,
nient’altro di ciò che allora
credevo necessario, primario
per la mia sopravvivenza.

***

Leggo rileggo eppure stupito non comprendo.
Del cervello che ha divorato se stesso
sopravvive una briciola sciocca
che ride e ride, sguaiatamente,
della sua stessa sorte buffa.
E queste risate che rimbombano
perdendosi in un’eco senza fine
tra le pareti vuote del mio cranio
crepato e ricoperto di muschio
come vecchie lapidi dimenticate, abbandonate
ascolto con stupore
senza chiedere più nulla
né ragioni né spiegazioni
solo attendendo il momento
in cui anche l’ultima briciola cerebrale
inghiottirà se stessa.
Verrà allora la calma delle tenebre
e neppure un addio mi sarà uscito dalla bocca.
Si vive in solitaria qualunque dramma;
orizzonte di se stesso l’uomo
non può avere altro.
Misero a tal punto è il suo possesso.

***

Dall’asfalto bruciato
dal volgare sole estivo –
l’afa afferra alla gola
con la sua mano possente
rendendo affannoso il respiro –
esalano miasmi nauseabondi.
Come se dalle cloache tutte
le immonde lordure dei secoli
ribollendo traboccassero
dai vecchi tombini fascisti –
ironia della storia! –
erompendo in superficie,
inondando le strade.
Ma un profumo improvviso
interrompe l’insopportabile lezzo;
ed è una fresca passante
la ragione di questa tregua miracolosa.
Dura appena qualche secondo,
eppure tanto basta a ricordarmi
(lo avevo dimenticato, completamente)
che a questo mondo non tutto è tanfo.

***

Immaginavamo ben altre vite,
vecchia amica mia!
Nei nostri cervelli febbrili
eccitati fino al parossismo
sognavamo un avvenire luminoso
cavalcando con ebbro entusiasmo
l’ossesso destriero del nostro destino.
Ripenso a quei giorni infantili,
vecchia amica mia,
ed un brivido mi gela
irrigidendomi come un cadavere
tale è la differenza tra la realtà
e le nostre antiche fantasie,
archeologici reperti che oggi estirpo
dal sottosuolo fangoso del mio cervello
e vendo – svendo – ad un mercante di cianfrusaglie
senza nessun valore storico.
Elimino da me ogni traccia del passato
nello sciocco tentativo di rendere
il presente meno misero.

***

Con il suo corpo magro, magrissimo,
al limite dell’anoressia;
con la sua pelle bianca, bianchissima,
quasi trasparente, solcata da
innumerevoli piccole vene ornamentali
verdognole come i tatuaggi
sbiaditi d’un vecchio marinaio:
con i suoi capelli neri, nerissimi,
ispidi come il fil di ferro,
che si ha quasi timore di toccarli,
Mestizia se ne sta seduta in poltrona
osservandomi con quel suo sguardo arreso,
sorridendo appena di tanto in tanto.
Passiamo così intere giornate,
senza scambiarci neppure una parola
naufraghi dello stesso stagno,
prigionieri della stessa cella.

La conobbi una notte – sì,
doveva essere immancabilmente una notte –
di molti e molti anni fa,
facendone subito la mia compagna.
E con lei mi sembra
d’aver attraversato l’intera
storia del genere umano,
tale è la nostra indolenza,
la nostra spossatezza.
Da allora non se n’è più andata,
fedele come un cane col proprio padrone.
Scrivo e la guardo. Lei sa
d’esser l’oggetto di queste parole
e arrossisce vergognosa scaraventando
gli occhi scuri, scavati come tumuli,
a terra. Fuse in una le nostre vite
mai troppo brevi…

***

Ancora aggrappato
all’enorme seno smagliato
d’una prostituta – Rebecca –
ispano-romena,
egli è già roso
dal verme del rimorso
che rimpingua le proprie
viscide membra
fino all’indigestione.
Ah, povera Rebecca!,
se tu lo sapessi regaleresti
una carezza a questo
diavolo innocuo
privato persino
del conforto del piacere.

***

Infradiciscono i fiori
per abbondanza d’acqua.

***

Triste è il destino d’ogni uomo.
Ma ancor più triste è il destino
dell’uomo che del proprio tempo
vede il marcio e ad esso si ribella.

(Io questo rischio
non l’ho mai corso.)

***

Io non sono più
una cosa viva
da molto tempo.
Definirmi non so,
e tentare di farlo
sarebbe sciocco.
Ma so – e questo lo so
fin troppo bene –
che in questa condizione grottesca
un fastidioso senso
d’inadeguatezza mi rode
quando sono costretto
in mezzo ai vivi.

***

Un agosto eccezionalmente caldo.
Anche a mezzanotte l’aria è immobile.
Se ne sta seduto in riva al mare,
solo, ferocemente solo fuma
mentre attorno i suoi simili
chiacchierano passeggiano ridono ballano.
Osserva il mare nero
con i suoi occhi spenti,
con i suoi occhi vuoti.
Vede, sì, ma non l’interminabile
massa d’acqua bensì
l’altrettanto interminabile –
e ben più spaventoso –
abisso dell’avvenire.

***

Vivo morto o morto vivo?
Come definire quel che resta d’un uomo
ritto ancora sulle sue gambe
e capace di parlare e mangiare
e ridere – a volte – e amare ecc. ecc.
ma vuoto dentro,
il vuoto dentro?

***

È il fruscio il rumore
d’uno stormo d’uccelli.

***

Sotto la luce fioca dei lampioni
cammina un uomo
piegato dal vento,
schiaffeggiato dalla polvere.

Teme che un ramo
staccandosi dagli alberi sconquassati
possa fracassargli il cranio,
lasciarlo steso sulla strada sporca.

Lo spera.

***

«La parola di nessuno, oggi».
«Sembra un verso di Celan».

***

«Anche noi un giorno
staremo bene»,
mi disse una volta
una bruna gigantessa.
Accolsi il suo responso
con ironica tristezza:
generoso come il suo corpo
fu l’uso della prima persona
plurale.

***

D’una bianca farfalla,
appena sfiorata,
non resta che polvere.

***

Beffarda è la sorte,
scherza persino la morte.
Riesuma sepolte speranze
per poi precipitarti nelle solite mancanze.
Crudele se la ride
col suo ghigno che mai nessuno vide,
ma il cui stridente suono
ogni uomo sa e teme come il tuono.

***

Sei un Everest ed io
non ho mai scalato
se non le basse dune
del mio mare.

***

Di noi profeti
dell’umana miseria
la voce giace
inascoltata, sepolta.

La nostra parola si perde
nel chiacchiericcio sciocco
di chi, ignorandoci,
s’illude di valere qualcosa.

Eppure come brace
sotto la cenere
continua ad ardere
benché invisibile.

Siamo noi i depositari
della verità ultima;
alla fine tutto
si riduce alla nostra parola.

Tutto è inutile,
tutto è insensato:
è il Nulla assoluto
ciò per cui ci affanniamo.

***

Triste è il nostro destino;
relegati al ruolo di prefiche
spargiamo veleni innocui,
le spalle gravate
del peso dei secoli:
tutti uguali, tutti vani,
tutti scioccamente giocondi.

***

Dal Nulla veniamo
e al Nulla torneremo.
Tale è il corso
d’ogni umana esistenza,
che tu sia ricco o povero
non fa alcuna differenza.

***

È per l’attimo benedetto
in cui mi metto a letto
che sopravvivo ogni giorno.
Solo per questo –
non c’è altro -.
E al miscredente
che mi deride
mostro la mia faccia.
La smette di colpo.

***

Alcuni ridono,
altri no.
Tutti comunque
sono inconsapevoli.
Beati loro!
Invidio, sì,
la loro incuranza,
perché almeno è spensierata
per loro la mattanza.

***

Rotolano rotolano
scarabei stercorari
su due zampe,
su questo pugno di letame
che appesta l’universo.

***

Cospargo di parole
fogli su fogli
che poi distruggo.
So che non ci saranno
più sopravvissuti,
so che non verrà elargita
più nessuna grazia.
Verso il regno del silenzio
sono oramai in cammino.

***

Ora il Nulla
sento di portarlo dentro.
E il Nulla non si racconta;
si vive.

Il raglio dell'asino , ,

Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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