Il peso dei legami – Seconda parte – Spara!

Carlo Ottaviani è ridotto a uno straccio. La sopravvivenza lo sta sfinendo, pian piano, giorno dopo giorno. Lo sta usurando, logorando, nel corpo e nello spirito. Mai prima d’ora era sceso sotto i cinquanta chili di peso – mangia, ma il suo corpo sembra non assimilare più niente -. Mai le sue occhiaie erano state così profonde e nere, da sembrare tatuate. Anche il sonno, a poco a poco, lo sta abbandonando. Ogni notte dorme un minuto di meno. L’insonnia è ciò che più lo spaventa, ma sa perfettamente che, di questo passo, tra non molto arriverà la sua prima notte in bianco. La prima di una lunga serie. Così si sforza di familiarizzare con questa evidenza, per non farsi prendere dal panico quando verrà il momento. Ha un colorito pessimo, grigiastro. Un omino del colore e della consistenza della cenere. Ogni volta che si vedono, Rico gli consiglia di farsi le analisi.
– Tanto, a che serve? – replica Carlo, alzando le spalle e sbuffando fumo.
Si trova continuamente in una sorta di stato confusionale, e qualunque cosa faccia, anche la più insignificante ed elementare, gli costa una gran fatica. Allora un’infida vocina lo esorta a fermarsi.
– Tanto, Carletto, che senso ha? – conclude la vocina, sogghignante.
Senza una donna, anche Alina infatti, dopo il loro ultimo incontro, è svanita, finendo in chissà quale strada del belpaese, Carlo si è fabbricato da sé una partner, di cui ha persino provato ad abbozzare un ritratto. L’ha chiamata Mestizia. Poco più alta di Carlo, è magra, anzi, magrissima, rasenta l’anoressia. Ha lunghi capelli neri, crespi, della consistenza del fildiferro. Neri ha anche gli occhi, conficcati come pietre laviche in mezzo al volto pallido e scavato. Le labbra sono sottili ed esangui. Carlo la immagina sempre accanto a sé. La vede, la può toccare, ma non la sente. Mestizia parla assai di rado, perlopiù sospira. Carlo le ha affibbiato l’aggettivo fildiferriana. Un neologismo, perché anche la lingua italiana inizia a sfuggirgli di mano. Sempre più spesso, parlando o scrivendo, si ferma, interdetto. Non gli sovviene una parola e allora passa interi minuti a rovistare nella sua mente ridotta a brandelli. Quando la ricerca non dà frutti, e accade di frequente, o sprofonda nel silenzio o inventa una parola nuova, sul genere di fildiferriana. Certo, pensare di scrivere un libro in queste condizioni è un’utopia. Carlo lo sa, ma non demorde. Spera di ricavarne comunque qualcosa di buono. Allora scivola nel nonsense, in attesa di giorni migliori. Il mar che non è mare s’anche è mare. Perché, come se non bastasse, è tornato a tormentarlo un demone che credeva di aver definitivamente abbattuto: il demone dell’ambizione. E invece si è ripresentato, redivivo, e più agguerrito e infido che mai. Sono diventati questi i suoi compagni più fedeli: Mestizia e il demone.
Nonostante l’inverno, le temperature rigide, il cielo incerto, Carlo ha preso l’abitudine di uscire tutte le sere. Ora i suoi vagabondaggi notturni sono sistematici. Parcheggia l’auto dietro il Santuario e cammina, cammina, o meglio si trascina, strascicando i piedi come se portasse legati alle caviglie i ferri del prigioniero. Fatica, sì, ma di quelle ore d’aria sente un gran bisogno. Attraversa tutta Nettuno, talvolta spingendosi fino ad Anzio. Rasenta sempre il mare. Sì, il mare è il suo muro. Si trascina e fuma. Si trascina, fuma e vagheggia. La sua mente elabora perlopiù immaginifiche possibilità di esistenza futura. Carlo non protesta, si lascia illudere. Una piccola casa prefabbricata in legno, tutt’intorno un orto rigoglioso. Il trionfo a un prestigioso premio letterario, finalmente il tanto agognato riconoscimento. Il ritorno di Marta, improvviso, miracoloso: ho impiegato dodici anni a capirlo, ma sei tu, tu e nessun altro l’uomo della mia vita. Un messaggio da parte di Letizia: sono stata una sciocca, perdonami; sei libero questa sera? E via di questo passo. L’immaginazione galoppante dipinge i quadri più lieti, e dunque più assurdi, fin quando qualcosa dall’esterno ricorda brutalmente a Carlo la sua condizione miserevole: il grido di un ubriaco, il rombo di un’auto lanciata a folle velocità, la vista di una giovane coppia avvinghiata. Allora le illusioni svaniscono di colpo, come vampiri sorpresi dall’alba, e Carlo sprofonda in uno stato di depressione cupa che non lo abbandona fino al sonno.
Carlo attraversa viale della Vittoria, senza guardare, con noncuranza. È troppo preso dalle sue fantasie. Un lungo fischio acuto, vagamente minaccioso gli ferisce le orecchie. Le fantasie si dileguano. Pietrificato in mezzo alla strada, Carlo si volta. A pochi, pochissimi centimetri di distanza ha un’auto sportiva bianca. Il lungo fischio acuto vagamente minaccioso era il rumore della frenata brusca, secca. La prontezza dell’automobilista ha evitato una tragedia. E fortunatamente l’asfalto non è umido – caso assai raro in questo periodo -, altrimenti non ci sarebbe stato niente da fare. Carlo impiega qualche secondo a rendersi conto di ciò che è accaduto. Si sposta di un paio di passi verso destra e osserva il segno della frenata sulla strada. Quindi alza le spalle e riprende a camminare, come se niente fosse. L’automobilista si sporge dal finestrino e gli inveisce contro. Carlo lo ignora, è ormai sotto i platani spogli, rachitici, lungo il marciapiede. Allora l’automobilista parcheggia e scende, dirigendosi minaccioso verso Carlo, che raggiunge presto e afferra con veemenza per una spalla. Carlo si volta. Davanti si ritrova un energumeno di un metro e ottanta, obeso, con un tatuaggio sul collo. Tra giubbotto, jeans e scarpe indosserà un migliaio di euro. Al suo cospetto Carlo sembra ancora più piccolo. L’energumeno lo insulta e lo spintona. Carlo lo osserva e lo ascolta con la stessa noncuranza con la quale ha attraversato la strada.
– Se vuoi ammazzarti buttati sotto a un treno, coglione! – grida l’energumeno, spruzzando saliva.
– Hai finito di rompermi il cazzo? – domanda Carlo dopo che l’energumeno ha smesso di insultarlo e spintonarlo.
A quelle parole, che proprio non si aspettava da parte di un tale pezzente, gli occhi dell’energumeno si iniettano di sangue. Ormai è completamente in balia della rabbia. Con una rapidità insospettabile per la sua mole, tira fuori dalla cintura dei pantaloni una pistola e la punta dritto in faccia a Carlo. L’energumeno schiuma rabbia, ringhia come un cane da combattimento aizzato dalla folla. Carlo invece sembra un agnellino. Eppure il cane da combattimento trema, mentre l’agnellino addirittura sorride.
– Vorresti davvero spararmi? Qui, in mezzo alla strada? – domanda l’agnellino.
A una simile sfrontatezza il cane da combattimento non è preparato. Digrigna i denti e stringe forte l’arma, senza sapere cosa rispondere.
– Forza, spara, – lo provoca l’agnellino, spalancando le braccia, immolandosi. Il suo non è coraggio, badate bene, ma solo indifferenza, un’indifferenza elevata all’ennesima potenza, impensabile, forse, per noi tutti.
Il cane da combattimento è irretito, e alla rabbia subentra la paura. L’agnellino gli si avvicina. Se avessero la stessa altezza si troverebbero ora faccia a faccia.
– Forza, spara, – ripete a bassa voce.
Il cane da combattimento non sa che fare. Vorrebbe indietreggiare, ma è come conficcato nel marciapiede. Non può muoversi. Dinanzi a sé ha un concentrato di veleno che lo ha affatturato.
L’agnellino inizia a respirare profondamente. Sembra raccogliere le forze. Per cosa? Un pugno? No, un grido.
– Spara! – grida con quanto fiato ha in gola, e la sua faccia si deforma per lo sforzo. Una grossa vena gli sbuca sulla fronte ampia.
Il cane da combattimento è terrorizzato, come se avesse lui una pistola puntata addosso e non il contrario.
– Ma va-va-vaffanculo… Tu-tu-tu sei matto… No-no-non te lo faccio sto favore, – balbetta con un filo di voce e se ne va, con la coda tra le gambe, roso dalla vergogna, salendo in macchina e sgommando a tutta velocità.
Carlo, sfinito, esausto a causa di quel grido – Cristo, sulla croce, deve aver gridato in quello stesso modo disperato -, si trascina fino a una panchina nel vicino giardino pubblico e vi si lascia cadere. Si accende una sigaretta e ripensa a quanto accaduto.
– Io questa notte mi sono fatto la morte. Io questa notte mi sono fatto la morte. Io questa notte mi sono fatto la morte, – bisbiglia per poi erompere in una risata violenta e convulsa che dura parecchi minuti, e gli provoca un accesso di tosse tale da mozzargli il respiro.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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