Il peso dei legami – Seconda parte – Le nozze di Cana

E finalmente il grande giorno è arrivato, dopo un’attesa lunga un anno e mezzo. Quando Toni comunicò a Carlo e agli altri suoi amici più intimi la clamorosa notizia delle nozze, ci fu un generale moto di stupore, seguito presto da un sottile, ma ben robusto velo di mestizia.
– Stiamo invecchiando, – fu questo il pensiero di tutti.
Allora Carlo era ancora uno studente, ora è un dottore. Un riconoscimento in più, ma che non cambia la sostanza delle cose, anzi, semmai la peggiora. All’addio al celibato ad Amsterdam Carlo, con grande dispiacere di tutti, non aveva partecipato. La scusa gli era stata servita dal caso su un piatto d’argento: la prossimità della discussione della tesi di laurea. In realtà per lui era appena iniziato il tempo delle rinunce. Sta tentando persino di fumare meno, per risparmiare qualche euro. Gli ha fatto male sborsarne centocinquanta per il regalo di nozze, la quota per il viaggio di Toni e consorte alle Maldive. Centocinquanta gocce di sangue. Carlo alle Maldive non andrebbe neppure se gli regalassero volo e soggiorno. Del resto il mare è mare ovunque, la trasparenza non fa differenza. E poi, zero cultura.
Un grande evento richiede una preparazione accurata. Dopo almeno un paio d’anni, se non di più, Carlo decide di radersi la barba, e non solo di accorciarla. Soffia sul pennello liberandolo dalle ragnatele, lo bagna e vi spreme la schiuma, che sparge con il dito. Poi si ricopre il volto di uno spesso strato di bianco. Quest’oggi allo specchio non c’è scampo, Carlo è costretto a guardarsi in faccia. Uno spettacolo pietoso. Il rasoio raschia e strappa. Troppo vecchio, forse, ma con una lama nuova di zecca sarebbe stata una mattanza. Una mattanza lo è comunque, ma solo sul collo, dove la pelle è ipersensibile. L’odore forte di mentolo punge le narici ma non distoglie dai tristi pensieri.
Devo avere qualcosa sulla faccia… qualcosa come il marchio di Caino, ma che solo le donne vedono. Un marchio infame. Sulla mia faccia le donne devono vedere riflesse tutte le mie infamie, tutte le mie porcherie, e deve essere ripugnante, uno spettacolo indecente, per questo si ritraggono inorridite, eccetto le donne della famiglia accecate dall’affetto e le professioniste, che per trenta denari andrebbero a letto pure con l’usuraio deformato del Faust morto di fame di Sokurov. Sì, anche con un uomo deformato e al rovescio. Anche Alina? Ma lo farebbe per pietà, è troppo buona. E Lei? Perché ho la convinzione che con Lei sarà diverso? La credo disperata a tal punto? Ma alcune donne sanno essere dignitose e soprattutto orgogliose anche nella disperazione. E lei non potrà mai più essere disperata dopo quello che le è accaduto: entrambi i genitori morti, uno dopo l’altro, in rapida successione. E Lei affidata agli zii, i santi genitori di Toni. Sei stata fortunata. Non gliel’ho mai detto e non glielo dirò mai, ma l’ho sempre pensato. Rico mi ha detto che indosserà un vestito particolarmente sensuale, con un’ampia scollatura sulla schiena. In qualità di testimone dello sposo è ben informato, ma non mi interessa questo, non mi interessa più e soprattutto con Lei. È un altro peso che cerco, per accrescere il fardello. Visto che ho deciso – ma ho forse deciso? alla volontà, in fondo, non ho mai creduto -, visto che ho deciso di sopravvivere sarebbe meglio avere una donna accanto. Un uomo solo è sempre in cattiva compagnia. Chi era questo? Valéry? Sì, doveva essere Valéry.
Un’ultima occhiata complessiva: sotto la barba in questi anni non è cambiato niente. Carlo trascina il corpo scheletrico sotto la doccia, aziona l’acqua calda, chiude gli occhi e si lascia avvolgere dal vapore. In pochi minuti il bagno è una scatola di fumo.
Da ragazzi, dopo l’allenamento, fumavamo negli spogliatoi. Il vapore e il fumo creavano una nebbia così fitta che non si vedeva a mezzo metro. Allora fumavo di nascosto. Mi scoprirono a causa dell’incidente. Frontale e poi dritto contro il semaforo, la mia prima macchina distrutta. Quel coglione non l’ho proprio visto, andava troppo forte. Trovarono il pacchetto di Marlboro sul cruscotto accartocciato. Per un niente non ci avevo rimesso le penne, figurarsi se si mettevano a discutere per le sigarette.
Carlo indossa lo stesso vestito della discussione, acquistato proprio per i due grandi eventi. Tutto sommato un buon affare con i saldi estivi: fresco lana made in Italy. Rispetto alla discussione due le varianti: la camicia bianca e non celeste, la cravatta blu e non rossa. A vestizione conclusa Carlo indugia qualche secondo dinanzi allo specchio. Vestito così ha la vaga sensazione di sembrare ancora più insignificante, sebbene in fondo si trovi a suo agio. Risuona baldanzoso il clacson dell’auto di Nino, Carlo stringe forte il nodo della cravatta, come fosse un cappio, e si strappa dallo specchio.
Una visita rapida a casa dello sposo, giusto in tempo per vederlo uscire a braccetto con la madre. Carlo vede Lei, ma non ha il coraggio di avvicinarsi e rivolgerle la parola, non ancora. I genitori dello sposo sono in incontenibile trepidazione, e così tutti i parenti. Meno i vicini, comunque affacciati alle finestre. I fotografi chiedono l’aiuto di Carlo e Nino per fermare il traffico e immortalare l’istante dell’uscita di casa di Toni e genitrice. Poi tutti insieme a Piperno, il paese della sposa. Il mare incontra la montagna. È gremita la vecchia chiesa di pietra, alle pareti affreschi sbiaditi di santi, forse. Carlo e i suoi sono stipati in fondo, in piedi. Ci sono tutti. Riecheggiano le note della marcia nuziale eccetera eccetera. Per quanto riguarda l’omelia, l’attempato parroco va sul sicuro: le nozze di Cana.
– Dal Vangelo secondo Giovanni, – scandisce dal pulpito la voce melliflua del parroco.
– Gloria a te o Signore, – rispondono in coro i presenti, segnandosi fronte, labbra e cuore. Carlo resta muto e fermo, le mani nelle tasche, gli occhi bassi. Non un solo muscolo reagisce al liturgico invito.
– Tre giorni dopo, ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno più vino». E Gesù rispose: «Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora». La madre dice ai servi: «Fate quello che vi dirà». Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei Giudei, contenenti ciascuna due o tre barili. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le giare»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora attingete e portatene al maestro di tavola». Ed essi gliene portarono. E come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove venisse (ma lo sapevano i servi che avevano attinto l’acqua), chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono». Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.
Dopo aver terminato la lettura il parroco, sempre arroccato sul pulpito, inizia la sua lunga tiritera, ma Carlo non lo ascolta. La schiena e la testa appoggiati alla parete di pietra, ha altro per la testa. La sua omelia se la fa da sé. Del resto, il materiale non manca quando si considera Dostoevskij un padre e Aleksej Karamazov un fratello.
Il primo miracolo di Cristo, il passo che Alëša ama tanto. Nel suo primo miracolo Cristo non aveva davanti agli occhi il dolore, ma la gioia dell’uomo. Egli servì alla gioia degli uomini… e quegli stessi uomini lo ringraziarono inchiodandolo a un palo. Ma che ci sto a fare qui? Che c’entro con tutti loro? La vedo, è là, la sola di rosso vestita. E ancora non ho trovato il coraggio di salutarla. Mi comporto come se non ci fosse. Bei tempi quando bastava un saluto, quando di un semplice saluto ci si accontentava, e grazie a questo gesto elementare si provava una gioia insostenibile. Quando Beatrice apparve per la prima volta a Dante era vestita di rosso. Ma non sono mai stato capace di accontentarmi. Perché sono un carattere esasperante, o tutto o niente. La donna, Eva, Maria, la madre. Amor matris: la sola vera forza. Lei, lei sapeva che suo figlio non era venuto al mondo solo per la sua missione altissima, ma anche per assecondare l’allegria. Com’è? L’allegria semplice e… ingenua, sì, ingenua degli uomini ignoranti, e mai nessuna parola fu così giusta! Degli uomini ignoranti e senza malizia, che lo avevano invitato in segno d’amicizia alle loro povere nozze. Queste di nozze sono tutt’altro che povere, il vino non mancherà di certo – grazie al cielo – e di miracoli non ci sarà bisogno. Trecento invitati. Un popolo, direbbe mia nonna, nella villa più esclusiva di tutto l’agro pontino. Ma lei sapeva anche che lo attendeva una morte atroce, nella sua sensibilità materna sapeva e presagiva tutto. Per questo le Madonne di Raffaello sono così tristi. Tristi perché consapevoli. Lei intanto è là, la intravedo. Spicca nel suo vestito rosso, i lunghi capelli neri raccolti da una parte. Quel collo scoperto lo conosco bene. Io ho bisogno di non pensare, ne ho abbastanza, e Lei ogni volta mi riporta sulla terra. È la sola che riesce a fare ciò. Questa estate sulla riviera di ponente di Anzio mi sedeva accanto e mi parlava di frivolezze. Affondavo la faccia nei suoi capelli e ne aspiravo il profumo, con la stessa avidità ed eccitazione con le quali si aspira il fumo delle prime sigarette. Sono stato uno sciocco, me la sono fatta scappare, proprio quand’era diventata mia. Ho voluto che scappasse, e ora a ricucire, a riavvolgere il nastro, ricominciando tutto daccapo. Del suo perdono sono certo, ed è innegabile che si sia riavvicinata in quest’ultimo periodo. Un fascio di luce la illumina. Non mi è mai apparsa così bella.
E giunge l’attesissimo momento dello scambio delle promesse. Carlo si aggrappa alle spalle di Lele e Nino, in punta di piedi, per vedere. Tra tante macerie la curiosità è ancora in piedi, come il campanile di Amatrice. Alla prossima scossa, probabilmente. Dopodiché sen va, esce dalla chiesa. Si accomoda su una panchina, fuma, e tra un tiro e l’altro si guarda attorno. Per tutti è un sabato pomeriggio come un altro, ma non per Carlo e per altri duecentonovantanove bipedi.
Finalmente la cerimonia termina. Gli sposi, fuori del tempio, vengono sommersi dal riso, gettato su di loro a poderose manciate. Terminato il bombardamento Toni e consorte liberano palloncini bianchi nell’aria. Carlo è lì, a due passi da loro, e finalmente saluta Lei, che si congratula con lui per la laurea. La bassezza talvolta ha i suoi vantaggi, e a ogni proposta idiota di autoscatto – fottetevi, quella parola non la scriverò mai – Carlo scivola alle spalle degli amici divenendo invisibile.
La folla a poco a poco si disperde, puntando alla nuova, ultima e senza dubbio più attesa tappa della festa, Villa Magnifica, in quel di Borgo Grappa, feudo veneto, provincia di Latina solo formalmente, provincia di Treviso nel cuore e nell’anima. Da queste parti la Lega Nord deve sfiorare il cento per cento, eppure ad accogliere l’orda di invitati è una donna dell’Est e i parcheggiatori sono bengalesi. Del resto, come dice Herdhitze in Porcile: «La mia vecchia esperienza costruttiva mi dice che le contraddizioni sono assolutamente necessarie».
– Ma che posto sciccoso…
– Che bello…
– Serviranno gli aperitivi e gli antipasti a bordo piscina.
– Wow…
Si susseguono, si accavallano, si calpestano esclamazioni di stupore e meraviglia. A detta di tutti Villa Magnifica è un incanto. Carlo se ne frega. Si dirige a spron battuto verso il bar, per annegare nell’alcol quel suo solito, puntuale, maledetto senso di inadeguatezza che, minuto dopo minuto, si rafforza. Ma ecco subito una doccia fredda: non si servono alcolici, non prima dell’arrivo degli sposi, impegnati nel canonico servizio fotografico, all’abbazia di Fossanova. Carlo e i suoi provano persino a corrompere i camerieri, ma non c’è niente da fare, sono inflessibili. Così la giovine brigata si ritrova seduta attorno allo stesso tavolo circolare, sprofondata nella tristezza. Di tanto in tanto si leva una voce di protesta, riecheggia una bestemmia. I disperati si attaccano al succo di frutta, che almeno è colorato e facilita l’immaginazione. L’acqua richiede una dose di inventiva rara di questi tempi. Carlo non beve niente, ma fuma una sigaretta dopo l’altra, senza sosta, accantonando per una sera i propositi di austerità. Vuole che la gola gli bruci per potersi godere ancora meglio il primo bicchiere di prosecco. Sopraffino masochismo. Nel frattempo scambia qualche parola con Lele. I due vecchi amici non si vedono da sei mesi, perché Lele si è trasferito a Torino, dove ha trovato uno studio di architettura disposto ad assumerlo.
– Mi dispiace davvero tanto di non aver assistito alla discussione, – gli dice Lele, sinceramente rammaricato.
– Tranquillo, in fin dei conti era solo una formalità, – lo rassicura Carlo, sbuffando fumo dal naso con una certa alterigia, come una lucertola che gioca a fare il drago.
– Ripetigli la prima frase, solo la prima, – interviene Nino, che alla discussione ha assistito commentando con un laconico «poi mi spieghi che vi siete detti».
Carlo si schiarisce la voce e recita tutto d’un fiato:
– All’interno del pensiero di Carlo Michelstaedter i termini persuasione e rettorica hanno una valenza eminentemente ontologica, nel senso parmenideo del termine.
– Sembra una supercazzola? – domanda divertito Nino a Lele colpendolo con il gomito, e suscitandone l’ilarità.
Anche Carlo ride, e di gusto peraltro. Del resto, tutto a questo mondo si riduce a una supercazzola, ed esserne consapevoli è un bel passo in avanti. Me lo ha detto una volta un mio conoscente che voleva diventare epistemologo. Ed è singolare, o forse neanche tanto, fate voi, che le stesse identiche parole me le abbia riferite un altro mio conoscente, che però nella vita fa il palombaro.
– Mi hanno detto che è morto Lazzaro, – cambia discorso Lele, rivolgendosi questa volta all’intera brigata.
– Sì, – conferma Rico, – è morto annegato.
– È stato un incidente, – puntualizza Nino, – si è avvicinato troppo al mare grosso ed è stato inghiottito.
– Non è stato un incidente, – interviene Carlo con aria solenne.
– No? – gli domanda Lele voltandosi verso di lui.
– No, – risponde Carlo con lo sguardo puntato a terra.
– E tu che ne sai? – si informa Nino, sempre sospettoso e velatamente aggressivo nei confronti di chi osi contraddirlo.
– Sono stato l’ultimo a vederlo, sulla terrazza del Belvedere. Lazzaro si è ammazzato, finalmente ce l’ha fatta, – spiega Carlo senza staccare gli occhi da terra.
Nessuno ha il coraggio di replicare. Il tono di voce di Carlo non induce a sospettare della sua sincerità, e poi da Lazzaro ci si poteva attendere un simile gesto.
Come se non bastasse l’assenza di alcol, ci si mettono pure le zanzare. Carlo si gratta con ferocia il dorso della mano destra, dove è stato punto. Si espande l’alone rossastro, ma è piacevole grattarsi fino a farsi venire le piaghe. La zanzara ubriaca di sangue gli svolazza baldanzosamente vicino all’orecchio, e il ronzio ferisce il cervello brullo di Carlo ancor più della pessima musica. Dopo diversi tentativi andati a vuoto, riesce ad afferrarla. La stringe nel pugno, la stritola, la schiaccia. Riapre la mano e il cadavere dell’insetto giace in una piccola pozza di sangue, quello stesso sangue che pochi istanti prima aveva succhiato con tanto gusto. Carlo si ripulisce la mano sull’orlo della lunga tovaglia bianca.
Ti ho reso un servigio, avresti dovuto ringraziarmi. Ma anche se tu mi avessi ringraziato ti avrei forse sentito? E chi mi dice che tu non l’abbia fatto? Chi mi dice che tu non abbia cercato la morte?
Finalmente una sensuale voce femminile annuncia l’arrivo degli sposi.
– Un grande applauso ai nostri sposi magnifici! – grida, pronunciando con una particolare enfasi l’ultima parola.
Il sole è ormai tramontato del tutto, e come per magia… ecce alcol! Tutta la giovine brigata trangugia un bicchiere di prosecco dopo l’altro. Va meglio, e si torna a ridere. Inoltre si apre il ricchissimo buffet suddiviso in isole: mare, montagna, formaggi, fritti. L’orda di invitati si avventa come se non ci fosse un domani. Come se fosse la loro ultima cena, e chissà, per qualcuno potrebbe essere davvero così, un colpo di dadi non abolirà mai il caso. Duecentonovantotto profughi denutriti originari dell’Africa subsahariana avrebbero maggiore ritegno. Duecentonovantotto perché Carlo e Lele attendono. Non è loro intenzione mischiarsi alla turba d’affamati che afferra la prima cosa che capita e sbrana con veemenza ferina.
– Non lo sopporto il buffet, tira fuori il peggio dall’essere umano, – sussurra Carlo a Lele, che annuisce.
L’orda barbarica dopo i primi minuti di fuoco si ritira, cosicché anche i due vecchi amici si avvicinano alle cosiddette isole. Qualcuno vi è rimasto spiaggiato. Entrambi optano per il pesce crudo: gamberi, scampi, ostriche, fasolari. La qualità è discreta, non ci si può lamentare. Seguono innumerevoli altri bicchieri di prosecco e altrettante sigarette, fin quando i camerieri esortano gli invitati a prendere posto nella grande sala circolare per la cena. Agli amici di Toni è assegnato il tavolo da Vinci, posto proprio accanto a quello degli sposi. Un grande onore e al contempo una grande responsabilità. La scelta del posto da parte di Carlo è strategica: deve poter vedere Lei, la sola di rosso vestita.
Il tavolo da Vinci, alticcio come nessun altro, si lancia in plurimi brindisi: agli sposi, al padre dello sposo, alla madre dello sposo, al fratello dello sposo, alla bella cameriera moldava che sostituisce le bottiglie di vino vuote con nuove bottiglie piene senza che nessuno gli dica niente e così via. I parenti della sposa storcono la bocca, sono infastiditi e lo fanno sapere. La montagna è sempre così austera e suscettibile… e si tratta sempre di invidia nei confronti degli spazi ampi del mare. La vicinanza al cielo finisce per pesare, per opprimere, e si finisce per prendersela con chi sta meglio piuttosto che con se stessi. Ah, al diavolo. Il tavolo da Vinci non sente ragioni e il momento culminante è quando nella sala risuonano le immortali note del Califfo. La giovine brigata canta a squarciagola.
– Tutto il resto è noiaaaaa! No, non ho detto gioia, ma noia, noia, noiaaaaa! Maledetta noiaaaaa! – e giù l’ennesimo bicchiere di vino bianco.
Tra i primi e i secondi via agli immancabili balli di gruppo latinoamericani. Nel mezzo della sala danza anche Lei. Carlo la osserva, perdendosi nelle consuete fantasie. Quando risuona squillante la voce della Raffaella nazionale e parte il primo trenino diretto verso il Nulla, Carlo si alza dal tavolo e se ne va fuori, a fumare, e non perché disdegni la meta del fluttuante convoglio, ma perché da sempre ama viaggiare da solo. Inoltre di mangiare e bere non ha più voglia. Ha raggiunto l’ideale stato di ebbrezza, e un solo bicchiere in più lo condurrebbe alla rovina. Dopo ventotto anni Carlo conosce i propri limiti. Si accomoda su un divanetto, il più lontano dalla sala, in giardino. In testa ha un solo, ossessivo pensiero: Lei.
Le guance le si sono ricoperte di un tenue velo di rossore, un rossore serotino, a causa della danza. Lei è Aglaja. Sarebbe bello poterle parlare già questa sera, implorarne l’amore, ma ho perduto la lucidità necessaria e tutto mi sembra così distante ora… La mia stessa mano sembra allungarsi. È come se tutto fosse ricoperto da uno spesso strato di nebbia, ma va bene così. Il vino sistema le cose, e quando l’ho proclamato a tavola tutti mi hanno acclamato. Hanno levato i calici e brindato nel mio nome. Qualcuno mi ha definito filosofo, qualcun altro poeta. Ho sentito pronunciare il nome di Michelstaedter storpiato. Rico mi ha rimproverato per l’ennesima volta di aver scelto un autore ebreo. Poi mi ha domandato se scopasse. Certo che scopava altrimenti non si sarebbe mai ammazzato. Non era affatto uno scemo. L’assenza alimenta la speranza, la presenza la annienta. Due colpi di pistola in testa, ma come diavolo ha fatto? A Lele ho parlato di Nadia Baraden. Anch’io ho avuto la mia amante russa, ma cara mi è costata. Io da Lei voglio la vita e non la morte, anzi con lei non voglio pensare più né alla vita né alla morte. Ne ho abbastanza. Verrà la spensieratezza e avrà i tuoi occhi. Sarà la mia Aglaja e io saprò non essere sciocco come Myškin. Del resto ho il vantaggio di non doverla preferire a nessuna Nastasja Filippovna.
Lele raggiunge Carlo e si siede di fronte a lui.
– Certo che un ballo te lo potevi pure fare, – provoca Lele.
– Non sono abbastanza ubriaco, – risponde Carlo biascicando lievemente.
– Come va la vita da…
– Ora sono un vero e proprio disoccupato, – Carlo interrompe l’amico, – durante la scrittura della tesi di laurea ero in cassa integrazione.
– Ma quale disoccupato, sei solo diversamente occupato, – tenta di rincuorarlo Lele.
– Come gli handicappati sono diversamente abili, – ridacchia Carlo.
– Be’, lavori al tuo libro.
– Ho inviato una grande quantità di curriculum, a case editrici, uffici stampa, ma nessuno finora ha risposto, – spiega Carlo gettando nel posacenere la sigaretta e accendendone subito un’altra.
– Ma tu non devi trovare lavoro, devi prepararti per il dottorato. Hai un anno a disposizione per prepararti come Cristo comanda e raggiungere questo importante obiettivo. È questa la tua strada, Carlo. E nel frattempo vedi di scrivere questo cazzo di best seller, che renderà tutto più semplice.
– Sono d’accordo con te, ma vallo a dire ai miei. Del resto, hanno ragione, non sono più un ragazzino. Ora mamma mi rompe le palle tutti i sacrosanti giorni per prendere l’abilitazione all’insegnamento, ma a me non interessa, non voglio essere complice o, ancor peggio, responsabile dello sfacelo socio-culturale di questo fottuto paese. Riguardo al mio piccolo libro inutile, be’, se dovesse rivelarsi un best seller mi preoccuperei molto. Il consenso è sempre sinonimo di favoreggiamento, di connivenza, di omologazione, e tu sai bene quanto mi peserebbe tutto questo. Ma, ti dirò, saprei gestire il successo. Confesserei subito la mia insignificanza. Inviterei i lettori a lasciar perdere i miei vaneggiamenti e a leggere Dostoevskij.
– Qualcuno ti prenderebbe di certo per un paraculo. Tutta pubblicità, direbbero. E già immagino qualche candidato sindaco di Roma appropriarsi della frase che hai messo in bocca a Ponzio Pilato: «Roma è la mia verità». Potrebbero anche utilizzarla come slogan per la candidatura alle prossime olimpiadi. A parte gli scherzi, se il tuo libro è davvero piccolo e inutile sarà di certo un best seller. Lessico famigliare insegna, no?
– Sei sempre stato il mio alunno migliore.
– A casa come va? Tua madre e tuo padre come stanno?
– Va come sempre. Papà sta bene, o forse neanche tanto, ma si comporta come se tutto vada a meraviglia e fingiamo che sia così. Se non si lamenta lui non posso certo farlo io. Mamma invece mi preoccupa. A forza di stare a casa si sta rincoglionendo. Sul volto ha un’espressione sempre così… come dire… spaesata, sì, spaesata, come di chi si è perso e non sa dove andare, non riesce a orientarsi. Tra l’altro mi sembra che stia invecchiando in fretta, troppo in fretta. Quando si muove scricchiola, e fatica a fare tutto. Lei, che era una macchina da guerra capace di rivoltare casa in un paio d’ore.
– Andrà meglio, vedrai.
– Una volta la gigantessa, te la ricordi?, mi disse: «Noi un giorno staremo bene». Accolsi il suo responso con ironica tristezza, generoso come il suo corpo fu l’uso della prima persona plurale.
– Ti ho portato una cosa, – cambia discorso Lele, e dalla tasca interna della costosa giacca tira fuori un’immagine, che porge a Carlo. Carlo la afferra e la espone alla luce per poterla osservare meglio.
– Ma pensa te… – sussurra Carlo, stupito, sorridendo.
– Sono anni che la porto con me, nel portafogli.
– E non mi hai mai detto niente?
– Non si svelano i propri portafortuna, altrimenti perdono efficacia.
– Sono passati diciotto anni e si è mantenuta benissimo.
– L’ho conservata come una reliquia. E dopo diciotto anni è giusto che torni al suo legittimo proprietario. Io non ne ho più bisogno.
Carlo e Lele si alzano e si abbracciano.
– Anche se non ci vediamo e non ci sentiamo per mesi, non dimentico mio fratello. Ricordatelo, Carlo.
– Neanch’io Lele, neanch’io.
– Non ti buttare via, mi raccomando.
– Non c’è niente da buttare, tranquillo. La vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l’uomo, in quanto a se, non dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla né di lasciarla.
Dialogo di Plotino e di Porfirio, giusto?
– Questa sera non ne sbagli una, vecchio mio.
I due amici si rimettono a sedere e accendono l’ennesima sigaretta, entrambi.
– Sai, è un po’ di tempo che penso a Letizia, – confessa Carlo.
– Lo so, Nino e Rico mi hanno accennato qualcosa.
Ma la ragazza di Lele li interrompe. In tavola è arrivato il secondo.
– Non vieni? – domanda Lele a Carlo, avviandosi.
– No, non ho più fame, e ho ancora bisogno di un po’ d’aria, – risponde Carlo.
Carlo non si muoverà di più da lì per molto tempo. Fuma, getta uno sguardo alla reliquia, che altro non è che la figurina di Ronaldo regalata diciotto anni prima a Lele in quel famoso pomeriggio di primavera, e pensa. Pensa, pensa, pensa… e mai che il cervello gli vada in cortocircuito. L’umidità gli penetra nelle ossa, le infracidisce attraversando con facilità, senza colpo ferire, la giacca e la camicia. Carlo rabbrividisce, si stringe nelle spalle e già immagina il raffreddore che lo tormenterà domani, ma non si schioda. Se ne resta lì, seduto sul divanetto, lontano da tutto e da tutti. Esce anche Letizia, in compagnia della sua migliore amica. Scattano fotografie a bordo piscina. Materiale fresco fresco per i social networks.
Ma io ho bisogno anche di queste sciocchezze, e non dovrò fingere, non dovrò mentire. Dovrò solo obliarmi. Sì, io devo obliarmi.
Carlo ripone la figurina nel portafogli e sposta lo sguardo annacquato su di lei. La osserva di sottecchi, tentando di non farsi notare. Letizia ride, è felice. Non c’è dubbio, il rosso la valorizza, e poi permette a Carlo di distinguerla con facilità tra la massa.
L’orda di invitati si riversa fuori. È giunto il momento della monumentale torta, ma Carlo, ancora una volta, non si muove da lì. Anzi, a maggior ragione ora resta fermo, incollato alla pelle del divanetto, e da quello stesso posto osserva i fuochi d’artificio. Dopodiché si aprono il ricchissimo buffet dei dolci e l’angolo cubano, dove sono disponibili sigari e rum. Più di qualche invitato si lancia con infantile entusiasmo verso lo zucchero filato. Carlo finalmente si muove. Raccatta il suo sigaro, il suo bicchiere di rum e raggiunge gli amici, che non si stupiscono né si offendono più delle sue improvvise sparizioni. Faceva lo stesso alle feste dei diciotto anni, sperando di vedersi raggiungere dall’amata di turno. Lo avessero mai raggiunto una volta.
Carlo ha in bocca il letto di un falò, che lava via con un bicchiere di rum dopo l’altro. A poco a poco gli invitati se ne vanno. Restano solo i più intimi: i genitori degli sposi, i parenti più stretti e gli irreprensibili componenti del tavolo da Vinci.
È notte fonda ormai e Carlo ora è abbastanza ubriaco per ballare. Si muove come un ossesso, esaltato dall’alcol e dalla presenza di Letizia, che le sta vicino e ride dei suoi ridicoli passi di danza.
Obliarmi, obliarmi, obliarmi, sì, io devo obliarmi. Sento il suo profumo, ma anche il vuoto… cos’è, cos’è questo maledetto vuoto…
Un tonfo: Carlo è rovinato a terra. Tutt’intorno riecheggiano sguaiate risate di scherno. Carlo ha la mente troppo annacquata, troppo annebbiata per potersi rendere effettivamente conto della colossale figura di merda. Domani, domani ne avrà tutto il tempo.
La musica cessa. Scorrono i titoli di coda sulle nozze di Cana. Carlo, chissà perché, si scusa con la sposa. Come prevedibile, non si è verificato nessun miracolo, anche se qualcuno, in fondo, lo sperava. Carlo stacca una rosellina rossa da un centrotavola e la porge a Letizia. È il suo compleanno.
– Auguri. Sei splendida, – le sussurra all’orecchio, riuscendo a mantenere una certa compostezza.
Letizia afferra la rosa e ringrazia.
Esausto, vittima di un mal di schiena infernale, neanche avesse passato l’intera giornata a raccogliere pomodori in un campo riarso dal sole violento di agosto, Carlo si getta sul letto, si seppellisce in posizione fetale sotto le coperte. E il mondo prende a girare veloce, sempre più veloce, come se fosse impegnato in una maratona.
Giro, girotondo, casca il mondo, casca la terra, tutti giù per terra! Mi fa male il culo… devo aver fatto proprio un bel volo. Icaro ubriaco. Sembrava felice del mio pensiero. Auguri Letizia… augu… Leti… sei… aug… Letè.

Il peso dei legami , , , , ,

Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

Precedente Il peso dei legami - Intermezzo - Via Crucis Successivo Il peso dei legami - Seconda parte - Un'idea di felicità