Crisalidi – Capitolo XII

Tornati dalla Sardegna, portai Marta in due luoghi dove non era ancora mai stata. Innanzitutto lo stadio Olimpico di Roma, a vedere una partita della Lazio, la prima giornata di campionato. Mi presentai a casa sua con i biglietti, con una maglia e una sciarpa della Lazio, come quella domenica di giugno lei si era presentata a casa mia con un costume e un paio di infradito, per trascinarmi al mare.
– Oh, finalmente… in quarantacinque anni non c’ero mai riuscito, – esclamò il padre di Marta, Pietro, anch’egli grande tifoso della Lazio, vedendo la figlia indossare la maglia e la sciarpa della sua squadra del cuore.
Vidi gli occhi di Pietro, questo vecchio lupo di mare simpatico e corpulento che, purtroppo, non ebbi il tempo di conoscere a fondo, come di certo meritava, illuminarsi di gratitudine. Ne fui contento ed egli, in quel momento, dovette convincersi di avere davanti a sé l’uomo davvero giusto per sua figlia e per sua nipote. Per noi tifosi della Lazio la lazialità è una qualità importante in un uomo, per questo motivo, pur senza averli mai letti, ai libri di Piperno consigliatimi da Luca ho risparmiato l’umiliazione del pavimento, sistemandoli nel ripiano della mia libreria riservato agli autori il cui cognome inizia con la lettera P. Anche per questo motivo Pietro non aveva mai visto di buon occhio Marco, il padre di Marina, tifoso della Roma, nonostante gli avesse donato quella nipotina che tanto adorava e che viziava come non aveva viziato neppure la figlia. Anche Marco aveva provato più volte a portare Marta allo stadio, ma lei, per rispetto del padre, aveva sempre rifiutato. Del resto, del calcio non gliene importava molto, ma a me non poteva dire di no, come io non potevo dire no a lei. Era una resa reciproca la nostra, ognuno si adeguava alle voglie dell’altro senza fiatare. Perché i desideri dell’uno, non appena venivano espressi, diventavano di colpo i desideri dell’altro, sebbene fino a quel momento ad essi non ci avessimo neppure mai pensato.
– Ora, Leonardo, ti affido la missione di rendere biancoceleste anche Marina, – aggiunse Pietro.
Dietro quella frase pronunciata con un sorriso, dandomi una pacca sulla spalla, si nascondeva molto più del semplice ordine di fare proselitismo calcistico, diciamo così, con la nipote. Con quelle parole Pietro mi affidava ufficialmente Marina, approvava la mia presenza nella sua vita, mi benediceva e investiva. Lo compresi subito, ne fui onorato e gli promisi che avrei fatto del mio meglio, pur manifestando delle riserve sul reale interesse di Marina per un gioco triviale come il calcio. La reputavo troppo intelligente per appassionarsi a uno sport in cui ventidue uomini prendono a calci un pallone. La immaginavo più incline, che so, al tennis, tifosa di un Federer, maestro d’ingegno ed eleganza.
– Non sottovalutare la forza del calcio. Il calcio è come la superstizione, per quanto una persona possa essere istruita, come te, finisce sempre per esserne attratta, per subirne il fascino, – rispose Pietro, rivelando un’acutezza intellettuale che, a prima vista, non credevo possedesse.
Superati i tornelli dello stadio Olimpico, prima di salire le scale che ci avrebbero condotto all’interno di esso, nel settore dei distinti nord, quelli ai lati della curva nord, fermai Marta e le dissi di gustare appieno, con trasporto, questo momento catartico che non avrebbe più dimenticato.
– Al termine di quelle scale ti ritroverai dentro lo stadio, avrai davanti ai tuoi occhi il prato dell’Olimpico e proverai un’emozione forte, che io ho provato solamente in un’altra occasione, mettendo piede per la prima volta all’interno della Cappella Sistina. Ma aspettiamo che dalla curva s’alzi un coro, così sarà tutto ancora più magico.
Riecheggiò il coro e noi ci incamminammo, ma lasciai che Marta mi precedesse di qualche passo. Entrata nello stadio, la vidi guardarsi attorno con un’aria stupita e al tempo stesso smarrita. Era proprio quello che intendevo e che ero certo avrebbe provato, perché ormai di lei sapevo tutto quello che mi era concesso sapere.
Dopo la partita riuscii finalmente ad esaudire un desiderio che mi trascinavo dietro dall’adolescenza: portare una donna a parco Savello, meglio noto come il giardino degli aranci, sull’Aventino, e passare lì con lei tutta la notte.
Marta conosceva questo luogo incantevole, c’era già stata, ma non aveva mai notato il curioso gioco prospettico che offre il parco, con il panorama che, avvicinandosi alla terrazza, invece di approssimarsi si allontana, gli edifici rimpiccioliti rispetto a quando li si osserva dall’ingresso. Glielo mostrai e rimase a bocca aperta, meravigliata ed eccitata come una bambina, facendo avanti e indietro per almeno mezzora e stupendosi di più ogni volta.
Ce ne andammo solo dopo aver assistito allo spettacolo dell’alba, condividendo ore e ore di silenzio al cospetto di quella vista mozzafiato, tra le più belle di Roma, stretti l’uno all’altro, immobili come gli aranci che ci circondavano.
Ci fu un istante in cui mi illusi davvero che tutto si fermasse, il tempo e noi stessi. Tutte le volte precedenti che avevo visitato il giardino, in compagnia dei miei amici perduti, ultima tappa obbligata delle nostre sortite a Roma, quei sabato sera in cui la provincia ci stava troppo stretta e sentivamo il bisogno di spazi più ampi e movimentati, tutte le volte precedenti a quella con Marta, dicevo, affacciandomi alla terrazza di parco Savello, avevo preso in considerazione la possibilità di buttarmi giù, trovandolo un luogo particolarmente adatto, perché poetico, per uccidersi. Ma quella notte in compagnia di Marta quell’antico pensiero non mi sfiorò neppure una volta. Sentivo di nuovo differenza tra la vita e la morte: morire significava dover rinunciare a lei, o meglio, a loro, a Marta e Marina e non ne avevo nessuna intenzione.
Prima di entrare all’interno dello stadio Olimpico, avevo accennato a Marta delle sensazioni provate durante la mia prima visita alla Cappella Sistina, in un parallelismo tra sacro e profano che solo un vero tifoso può comprendere, e la domenica successiva ci recammo proprio ai Musei Vaticani, portando con noi anche Marina. Né lei né sua madre li avevano mai visitati.
Per prima cosa visitammo la Pinacoteca, sostando a lungo all’interno della sala dedicata a Raffaello. Presi Marina per mano e la condussi davanti alla Trasfigurazione. Mi inginocchiai affianco a lei e le sussurrai all’orecchio quel poco che ricordavo su Raffaello, riguardante soprattutto la sua morte prematura.
– Questo è l’ultimo dipinto di Raffaello, incompiuto e terminato da un suo carissimo amico, Giulio Romano. Si racconta che alla sua morte, avvenuta il Venerdì santo, il cielo si sia oscurato e persino un piccolo terremoto abbia scosso il Vaticano. L’artista è sepolto qui, a Roma, al Pantheon, e ho sempre trovato bellissimo l’epitaffio inciso sulla sua tomba: «Qui sta quel Raffaello, mentre era vivo il quale, la gran madre delle cose temette d’esser vinta e, mentre moriva, di morire con lui».
– Chi è la grande madre? – domandò Marina senza staccare lo sguardo dalla Trasfigurazione.
– La natura, – risposi con soddisfazione. Perché quel poeta dall’identità incerta ebbe l’intuizione di restare attaccato alla terra, fedele ad essa, nella celebrazione del grande artista. In pochi lo avrebbero fatto, in pochi avrebbero resistito alla tentazione della trascendenza, e anche se fosse il peggior poeta dell’intera storia della letteratura italiana, lo terrei comunque in grande considerazione per questa intuizione che ho sempre ritenuto geniale nella sua umana onestà.
– Perché mi parli della sua morte e non della sua vita? – chiese poi Marina spostando lo sguardo su di me, quasi con sospetto.
Non fu una risposta onesta la mia. Non le confessai che ciò che le avevo detto era tutto quello che ricordavo della vita di Raffaello, tentai piuttosto di essere all’altezza del poeta che ne aveva composto l’epitaffio.
– Perché della vita di Raffaello parlano i suoi capolavori, grazie ai quali non morirà mai, – risposi con un tono solenne, da quel professore che, con grande rammarico di mia madre, non ero voluto diventare per non rendermi complice della deriva culturale in atto in questo paese, alzando il braccio e indicando con il palmo della mano, oltre alla Trasfigurazione, anche la Madonna di Foligno e la Pala degli Oddi, collocate ai suoi lati.
Come di Marta avevo conquistato l’amore, di Marina volevo conquistare l’ammirazione, e credo di esserci riuscito in quell’occasione. In generale, non la trattavo mai come una bambina di dieci anni, ma come una donna adulta e lei lo apprezzava. Come tutti i bambini del resto, che, raggiunta una certa età, di essere trattati da bambini non hanno più voglia, a meno che non gli convenga ovviamente.
Marina non disse nulla, ma tornò a volgere lo sguardo verso il dipinto, con maggiore consapevolezza e attenzione. Quando poi ci spostammo in un’altra sala disse, con una spontaneità, con una naturalezza che disarmò me e Marta, alla quale intanto avevo riportato la nostra conversazione precedente: – Prima mi hai detto che grazie ai suoi quadri Raffaello non morirà mai. Forse è proprio per questo che i pittori dipingono, per non morire mai, per restare vivi per sempre.
– Elimina il forse, mia cara Marina. Tu sei arrivata alla ragione prima e ultima dell’arte, e in ogni sua forma, pittorica, scultorea, letteraria, musicale, – risposi dopo aver superato un primo momento di stupore.
– Tu guarda se non ho messo al mondo un’intellettuale, – mi sussurrò Marta all’orecchio, per non farsi sentire dalla figlia, con un tono ironico, certo, ma anche orgoglioso.
– Tranquilla, se fosse davvero così, mi assumerei tutte le responsabilità di una simile disgrazia, – risposi ridendo.
Visitammo poi il Museo Pio-Clementino, indugiando qualche minuto dinanzi all’Apollo del Belvedere e al gruppo scultoreo del Laocoonte, attraversammo con il naso all’insù le stanze di Raffaello, rispetto a tutti gli altri visitatori osservammo con grande attenzione la Collezione d’arte religiosa moderna, che contiene gioielli eccezionali troppo spesso sottovalutati e neppure degnati di uno sguardo, e approdammo infine alla Cappella Sistina. Con l’aiuto di Marta presi Marina sulle spalle e ci piazzammo davanti al Giudizio universale.
– Marina, ti presento Michelangelo, – dissi prendendo per mano Marta e avvicinandola a noi.
– Wow… – sussurrarono madre e figlia, insieme.
– Il Giudizio universale di Michelangelo incombe inesorabilmente su tutte, ma proprio tutte le più grandi opere d’arte successive, e talvolta persino su quelle precedenti, come la Divina commedia. Volente o nolente, esse sono imparentate con questo capolavoro impressionante, meraviglioso e al tempo stesso inquietante, il capolavoro per eccellenza dell’arte umana, – dissi dopo qualche minuto di ammirazione silenziosa, dando voce per la prima volta a un pensiero che mi trascinavo dentro da anni, dalla mia prima visita alla Cappella Sistina. Sentii su di me lo sguardo meravigliato di Marta, che poi si rivolse a Marina esortandola a conservare nella memoria quelle mie parole.
Dopo aver passato un’ora circa all’interno della Cappella Sistina, prima di lasciare i Musei Vaticani, ci riposammo per qualche momento nel cortile della Pigna, e spiegai alle mie donne come Dante avesse utilizzato l’enorme scultura bronzea come unità di misura per i suoi giganti infernali.
– Anche loro sono tatuati sulla tua schiena? – domandò Marta.
– Sì, ci sono anche loro, intrappolati nel pozzo, – risposi indicando il punto esatto.
Marina espresse il desiderio di iniziare anche lei a dipingere, come Raffaello e Michelangelo.
– Anch’io voglio vivere per sempre, – motivò quel suo nuovo desiderio, che io e Marta accogliemmo con entusiasmo.
– Domani avrai tele, pennelli e colori, – le promisi.
Mentre discutevamo di ciò che Marina avrebbe dovuto dipingere per prima cosa, se un paesaggio o un ritratto, magari di sua madre, ricevetti un messaggio di Liza, che mi scriveva queste parole: «Ho cambiato vita. Non bevo da quattro settimane e tu sai cosa significhi per un’alcolizzata come me. Stamattina ho chiamato Mauro, abbiamo passato tutta la giornata insieme e lui ha rinnovato la sua proposta di matrimonio. Non vedo l’ora di legarmi a lui per sempre. Grazie».
Mostrai il messaggio a Marta, che commentò così: – Sapevo che ce l’avrebbe fatta. Una donna può sempre farcela, soprattutto quando ha la fortuna di incontrare un uomo come te. Perché se si è sentita in dovere di avvisarti, tu devi aver svolto un ruolo determinante in questa storia, anche se in modo inconsapevole.
Le parole di Marta, alla quale non avevo mai detto niente del mio ultimo incontro con Liza, mi resero felice, come se in quel giorno magico non lo fossi già abbastanza (ma si è mai abbastanza felici?). Le parole di Liza un po’ meno, perché non ero avvezzo a scrivere storie a lieto fine. Sì, io volevo e dovevo tornare a impugnare la penna, anche se la scrittura mi avesse riservato ancora delusioni, dopo le parole di Marina sul senso primo e ultimo dell’arte non avevo più dubbi.
Prima di lasciare i Musei Vaticani acquistai due riproduzioni: una della Trasfigurazione di Raffaello e una del Giudizio universale di Michelangelo, e le regalai a Marina, pregandola però di non appenderle nella sua attuale cameretta, perché presto ne avrebbe avuta una nuova.
– Cosa mi nascondete? – ci domandò Marina con un sorrisino malizioso e insinuante.
– È una sorpresa, tesoro, – rispose la madre, rivolgendosi poi a me e sussurrandomi all’orecchio: – Sei un bravo padre. Se dieci anni fa avessi conosciuto te, oggi non avrei solo una figlia.
Io sorrisi e non le ricordai ciò che le avevo detto qualche tempo prima, ma di cui ormai non ero più del tutto sicuro. Forse, se avessi davvero conosciuto Marta dieci anni prima, venendo a conoscenza della sua volontà di essere madre, non mi sarei allontanato da lei come avevo sempre pensato e creduto nella mia solitudine, non mi sarei voltato come Orfeo, il mito al quale facevo sempre riferimento parlando di questo delicato argomento, lasciando precipitare per sempre Euridice nel regno dei morti. E forse tutti quei sogni in cui compariva mio figlio erano manifestazioni di un desiderio di paternità ignoto persino a me stesso, ma che ora, grazie a Marta e Marina, vedevo esaudirsi.

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