Crisalidi – Capitolo VI

Pioveva, con una certa intensità peraltro, e quando piove non accendo lo stereo perché mi piace godere del suono della pioggia, che picchietta sulle finestre e sui muri, ripulendo le strade, rendendo l’asfalto brillante, ma di una brillantezza modesta e piacevole, che non aggredisce l’occhio, ma lo accarezza, come un elegante abito d’alta moda.
Scorrevano rivoli d’acqua improvvisati ai bordi delle strade, lungo i marciapiedi, precipitando nei tombini, e i lampi interrompevano la notte, seguiti dal grido dei tuoni, le nuvole grancasse battute con forza.
Amo la pioggia, l’ho sempre amata e tante notti è stata la mia amante, ma non quella notte, perché avevo accanto Marta, avvinghiata a me come la vite al ciliegio a casa dei miei genitori.
– Dimmi quando devo andare via, – disse tra il serio e il faceto. Lì per lì non compresi le sue parole, stordito da tanta letizia.
– Perché dovrei dirti quando andare via? – domandai aggrottando l’ampia fronte leopardiana, troppo ampia troppo presto.
– Non è mercoledì oggi?
– Quindi?
– Il mercoledì viene a trovarti Liza, – e nella voce di Marta percepii una punta di risentimento che mi fece sorridere.
– Liza stasera non verrà. Liza non verrà mai più, – dissi baciandole i capelli, lasciandomi intontire dal loro profumo come da una boccata di hashish.
– Cavolo, sono riuscita ad avere la meglio su una prostituta esperta dal seno enorme, – replicò Marta con ironia mista a un’autentica soddisfazione.
– Quella donna si trascina dietro una storia tragica. Ogni storia umana è tragica, per il semplice fatto che si conclude con la morte, ma la sua lo è di più. Il marito è sparito da un giorno all’altro non si sa dove, allora è venuta in Italia, dalla Siberia, e per tanti anni ha fatto le pulizie. Poi, qualche anno fa, il suo unico figlio, Nikolaj, è stato ucciso nella guerra del Donbass e lei si è data alla prostituzione e all’alcol. Beve come se non ci fosse un domani e non ha più speranze.
– Eppure è ancora bella, – disse Marta con un tono in cui vibravano pentimento e rimorso per quella sua battuta precedente.
– Un cliente si è innamorato di lei e lei di lui, le ha proposto un lavoro normale e persino il matrimonio, ma Liza non ha avuto la forza di staccarsi dalla bottiglia e il suo spasimante le ha voltato le spalle, per sempre. Ho provato a convincerla che non tutto è perduto, che può ancora rimettere in sesto se stessa e la propria vita, ma ormai è una parete di granito, ti ci schianti contro senza ottenere nulla.
– Dovresti raccontare a tutti la sua storia. Voglio dire, dovresti scriverla. Tu puoi far sì che tanto dolore non vada del tutto sprecato.
– Cosa ti fa pensare che io scriva? – domandai con stupore, colpito nel profondo dalle parole di Marta, che mi procurarono persino dolore, un dolore acuto, come quello che si prova dopo essere stati punti da una vespa.
– Perché tu parli come se scrivessi, – rispose senza esitazioni.
– È vero, scrivevo, lo confesso. Ma la scrittura è sempre stata per me un vizio, un vizio malsano, nocivo, non meno del fumo, che mi ha procurato solamente problemi. Sono riuscito finalmente a liberarmene, da un paio d’anni, da quando ho iniziato a lavorare, e tu vuoi ricondurmi a lei? Mi hai riportato alla vita, d’accordo, mi hai preso per mano e condotto fuori dal bozzolo, ma non ti illudere di potere tutto con e su di me, – dissi con un tono serio all’inizio, ma concludendo con ironia.
– Oggi è una settimana esatta da quando ci siamo visti per la prima volta, da quando sono entrata in casa tua senza bussare. Eppure, mi sembra che siano passati mesi, cambiò subito discorso Marta, sospirando.
– Lo so, sono un uomo impegnativo, faticoso.
– No, non voglio dire questo. È per l’intensità che questi sette giorni mi sembrano sette mesi. Dici che io ti ho riportato alla vita, che ti ho preso per mano e ti ho fatto uscire dal bozzolo. Tu mi hai fatta ringiovanire di almeno dieci anni. Dentro di me sento di nuovo un’energia, una vitalità che credevo di aver perduto per sempre e inizio a comprendere quanto l’età di una persona sia relativa, almeno fino a quando non si sprofonda nella vecchiaia e il corpo ci impedisce di fare ciò che vorremmo. Persino Marina la sento più vicina a me.
– Sono stato insomma una sorta di chirurgo plastico.
– Scemo.
Ci baciammo, mentre fuori la pioggia feroce infuriava e lavava le strade. Una settimana prima cadeva a terra altra terra ed era difficile respirare, ci si sentiva schiacciati dalle nubi malate addensate dallo scirocco, lo ricordavo bene. In sette giorni, in soli sette giorni, era cambiato tutto. Cadeva ora acqua vera, pura, fresca, che dissetava e purificava, l’aria si era di nuovo rinfrescata e la primavera sembrava ancora lontana, sebbene mancassero pochi giorni alla sua venuta. Si respirava ora con i polmoni spalancati, ripuliti dal catrame che li imbrattava dopo anni e anni di fumo, come gli adolescenti imbrattano i muri con le loro frasi sciocche.
Mi domandai perché il tempo non si fermasse, non si cristallizzasse in un eterno presente. Lo maledissi, perché incapace di arrestarsi, e nella mia testa s’insinuò il pensiero maligno che un giorno, forse neanche troppo lontano, tutto questo sarebbe finito e io avrei maledetto me stesso per essere tornato a vivere ed essere uscito fuori dal mio bozzolo, pur conoscendo l’esito inevitabile della storia. Non condivisi quel pensiero malvagio con Marta, lo tenni per me e tentai di reprimerlo, di soffocarlo, affinché non avvelenasse quell’istante di letizia.
– Ma chi è che grida così? – domandò Marta, allarmata, interrompendo il corso dei miei pensieri.
– Sono quelli che abitano nell’appartamento di fronte alla cucina. Sono marito e moglie, hanno due figli piccoli e si odiano di un odio spietato, assurdo. Quando alzano la voce in questo modo i vicini finiscono sempre per chiamare la polizia e tutto tace. In effetti però non li ho mai sentiti gridare così forte, le loro grida non sono mai giunte fino in camera mia. Devo aver lasciato la finestra della cucina aperta, vado a controllare, – dissi e mi alzai, controvoglia, per chiuderla. Marta indossò la mia felpa e mi seguì.
Ma la finestra era chiusa. I due coniugi si vomitavano addosso insulti come mai avevano fatto prima, con inedito vigore, ed ebbi l’impressione che le mura della casa tremassero a causa dell’intensità delle loro grida. Li osservavamo, io e Marta, come si osservano animali esotici rinchiusi in una gabbia all’interno di uno zoo. Sentii Marta aggrapparsi al mio braccio e stringerlo forte. Aveva paura.
Penso sempre al peggio, fa parte della mia natura, ci sono nato e ci morirò con questo tarlo, e mi accadde anche allora, dinanzi a quello spettacolo ignobile. Avrei voluto chiudere la persiana, afferrare Marta e trascinarla via di lì, al sicuro, ma non riuscii a muovermi. Ero incollato al pavimento, conficcato nell’impiantito come un albero cittadino nell’asfalto.
E all’improvviso quel momento si strappò, si strappò il cielo gravido di pioggia e la strada lucida, come fossero di carta: il marito afferrò la moglie per il collo, la trascinò vicino alla finestra aperta, quella sì, e la buttò giù. Vedemmo la donna precipitare come un manichino con in testa una parrucca bionda. Un grido lancinante sfasciò il silenzio della notte tempestosa, seguito da un tonfo, di quelli di Wile E. Coyote quando si schianta a terra, perforando il suolo con la sua triste figura.
Strinsi Marta, cingendo la sua vita sottile con un braccio, ma lei si strappò da me con forza, con una spinta energica, mugolando qualcosa a denti stretti, un «lasciami», forse, uscì di casa e corse giù per le scale a rotta di collo, seminuda e scalza. Mi infilai il cappotto e la rincorsi, scalzo anch’io. Trovai Marta vicino al cadavere della donna, immerso in una pozza di sangue che andava via via espandendosi. Mi piazzai davanti a lei e la abbracciai, o meglio, la avvolsi, come se tentassi di difenderla da qualcosa che ci precipitava addosso dall’alto, come se le gocce di pioggia avessero di colpo acquistato il peso di pietre, di calcinacci cadenti dai palazzi circostanti sconquassati da un’improvvisa e devastante scossa di terremoto. Perdonate l’approssimazione e l’insensatezza di queste righe, ma non riesco ad essere razionale rievocando quel maledetto momento.
– La pioggia lava il sangue e io ti amo, – sussurrai all’orecchio di Marta sentendomi rimbalzare il cuore in gola, faticando a rimandarlo giù a colpi di saliva, come quando si hanno i linfonodi ingrossati e si deglutisce con difficoltà.
Intanto un altro grido spaventoso e un altro tonfo, ma diverso dal primo, il tonfo di un’anguria gettata a terra e frantumatasi in mille pezzi a contatto con il suolo, mi ferirono le orecchie. L’assassino si era buttato giù di testa, la prima e ultima scelta giusta della sua vita.

Crisalidi ,

Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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