Ricordi d’infanzia. Ah, l’infanzia! Ore liete e serene, dense di scoperte e di giochi. Lontano dalle dolorose catene che lo imprigioneranno dall’adolescenza in poi, durante questi anni dorati ed idilliaci l’uomo è completamente libero. Non lo sarà mai più fino alla fine dei suoi frenetici giorni.
Domenica mattina. Le nove circa. Mamma entra nella camera da letto e sveglia me e mia sorella aprendo la finestra, ed alzando la serranda. La luce del sole in un attimo invade la stanza, donandole una brillantezza straordinaria. Gli occhi feriti dai raggi faticano ad aprirsi, ancora appiccicati dal sonno. Dopo qualche minuto trascorso ancora tra le calde, soffici e rassicuranti coperte, io e mia sorella, piccoli, bambini, magnificamente inconsapevoli della vita e dei suoi orribili dolori ci alziamo, contemporaneamente, ed andiamo in cucina per fare colazione. Una tazza di latte addolcito con un poco di cacao in polvere e qualche biscotto. Il torpore del risveglio dura, ed impedisce ad entrambi di parlare.
Poi al bagno. È tardi, la mamma interviene a velocizzare le operazioni di lavaggio. Grazie al suo aiuto in pochissimo tempo non solo siamo puliti e profumati, ma anche vestiti, dunque pronti per uscire. La meta è la chiesa di Sant’Anna, situata a qualche chilometro di distanza dalla nostra casa. Ci muoviamo in macchina, raggiungendo la parrocchia proprio un istante prima dell’inizio della messa. Mia madre e mia sorella si fermano agli ultimi banchi, io procedo fino ai primi, dove mi aspettano i compagni di catechismo, gli stessi di scuola. Un saluto generale, quindi subito in piedi, per accogliere l’arrivo del vecchio prete, Don Angelo, i capelli completamente bianchi.
Ha inizio la santa funzione. Una sequela di gesti e parole imparate a memoria solo perché ci è stato detto di fare così.
Noi bambini durante quell’ora straziante siamo costretti a mantenere un contegno innaturale per l’età. Il momento più buio e noioso però è quello dell’omelia. Il parroco si dilunga in un’arringa misteriosa, dal senso oscuro, indecifrabile. Cosa può saperne un fanciullo di dio, della morte, della resurrezione e di tutto il resto? Nulla, eppure l’uomo dirige ogni parola proprio verso di noi, ammonendoci con largo anticipo su tutti i peccati che commetteremo in futuro. Ci distrae qualche risatina, sparsa qua e là, ben presto soffocata.
Giunge il momento della comunione, e noi che stiamo “studiando” per ottenere tale privilegio, che poi più che mangiare il fantomatico corpo di Cristo rappresenta la possibilità di alzarsi, camminare e dunque sgranchire le gambe, osserviamo quella processione di persone in fila indiana, l’una dietro l’altra, che aspettano di essere imboccate dall’attempato uomo vestito di bianco. Gran parte sono vecchie, e tra di loro c’è mia nonna, donna minuta e devotissima. Mentre attende il suo turno mi sorride. A pochissimi centimetri di distanza la fanciullezza e la vecchiaia, divisi da un muro di fede rappresentato dalla facoltà di poter ingerire oppure no quel pezzetto cereo d’ostia, che i ragazzi più grandi dicono peraltro non essere granché saporita – «Magari ci dessero un goccio di vino rosso…»
«La messa è finita, andate in pace». Eccola, finalmente, la formula preferita dalla puerizia incatenata, assuefatta, repressa dalle abitudini cattoliche della messa. Finalmente liberi! Liberi di scorrazzare e gridare nella piazza antistante la chiesa, tra i pini inseguendo magari un pallone. Dopo sessanta minuti di incomprensibile tortura una mezzora di svago completo, poi tutti di nuovo a casa.
Portiamo con noi la nonna. Mamma si mette subito al lavoro in cucina, mentre mia sorella le gironzola attorno. Papà, appena tornato dalla passeggiata in centro, legge seduto sotto la veranda il quotidiano sportivo. Ed io? Io divengo un dio, un vero dio che decide le sorti di un conflitto universale, combattuto da pupazzi dalle forme mostruose, e da soldatini di plastica, verdi, grigi e gialli, immobili.