Non ho mai sentito così tanto freddo come in quella notte. Eppure era l’inizio di giugno. La notte tra il 5 e il 6 giugno, per l’esattezza. La grappa, trangugiata con disperata foga, in un unico sorso, m’infuse un improvviso e bruciante calore che durò soltanto pochi attimi. Un fuoco di paglia. Avrei dovuto berne ancora per riscaldarmi, ma ciò avrebbe significato perdere la lucidità e in quel momento la lucidità mi era necessaria come l’aria. Attendevo la gioia più grande della mia vita e volevo goderla appieno, coglierne ogni singola sfumatura, assaporarne ogni singola nota, imprimerla per sempre nella mia mente e nel mio cuore, per poi poterla rivivere in futuro ogni volta che ne avrei sentito il bisogno.
Camminavo lentamente, come un forzato, avanti e indietro, ripercorrendo senza sosta lo stesso percorso, per non perderla di vista. Lei, la mia gioia, era lì, a pochi passi da me, ancor più bella, attraente, miracolosa di quanto l’avessi immaginata, ma non mi raggiungeva. Non si curava di me. Invano la pregavo, la invocavo con lo sguardo e l’intero mio essere, proteso completamente verso di Lei, concentrato tutto in Lei. Invano la imploravo di avvicinarsi, di raggiungermi, di concedermi quell’attenzione che sola avrebbe potuto riportarmi alla vita, che sola avrebbe potuto infondermi quel calore di cui avevo un disperato bisogno.
Il tempo si era fermato. La notte permaneva, eterna, ed io mi trascinavo roso dall’impotenza e dalla rabbia, irretito dal freddo che mi spolpava ed esasperava. La attendevo e Lei, la mia gioia, non veniva. Era ben altra la meta dei suoi pensieri e del suo cuore. La osservavo come un’isola osserva la terraferma, divorata dal desiderio impossibile di ricongiungersi a lei, di porre fine, finalmente, al suo isolamento e alla sua solitudine. Non mi sono mai sentito così solo e disperato come in quel momento.
Da quella notte sono passati due anni, e soltanto ora riesco a scriverne. Ciò vuol dire che ho superato il lutto. O, forse, più probabilmente, che il lutto è entrato in una nuova fase, di cupa rassegnazione. Ma non è questo che importa. Ciò che importa è che io quella notte la mia gioia l’ho perduta per sempre, quando a lei, per sempre, avrei dovuto legarmi. Dovuto? Voluto piuttosto. Sognato. Ecco, sognato. E la realtà non è mai all’altezza del sogno. Mi ero illuso di essere riuscito a sovvertire questa spietata, terribile legge dell’esistenza umana.
Quella notte mi ha cambiato. Quella notte mi ha svuotato. È stata un doloroso, ma, al tempo stesso, prezioso insegnamento. So cosa non devo fare. So cosa non devo essere.