Tutti i personaggi di Dostoevskij trovano una ragione. Magari nel male, ma la trovano. Soltanto Stavrogin non ha una ragione, non ha uno scopo, è completamente insensato, vuoto, senza più un’idea, un pensiero, una speranza, e infatti si uccide. Possibile che nella completa insensatezza non ci sia alternativa al suicidio? Per Camus l’uomo assurdo deve trovare la ragione nella vita stessa, ricondotta alla sua dimensione più pura e autentica, ma come può bastare la vita stessa? Come può la quantità riscattare la tragedia della nascita, resa ancor più drammatica dalla consapevolezza dell’assurdità della vita?
La verità è che la disperazione in sé non è sostenibile. Persino Stavrogin, che vive, o meglio, esiste al di là del bene e del male e ha già varcato in vita la soglie del non-essere, viene infine schiacciato dal peso della disperazione. Il solo modo di resistere è trascenderla, ma non so se sia nelle possibilità umane. Alla fine, dietro ogni esistenza si cela una ragione, più o meno illusoria. E cosa determina la ragione? Cosa la costituisce e rende tale? La gratificazione. Senza gratificazione la ragione si sgretola, l’uomo naufraga nell’insensatezza e allora, se non riesce a trascendere la disperazione, non gli resta altro da fare che sparire.
Un uomo sente la vocazione. Animato da una fede così grande, profonda e ardente da rifare il mondo intero, abbandona tutto e tutti, disobbedisce all’autorità familiare, sociale e decide di entrare in monastero. Ma in monastero non lo vogliono, lo rifiutano, lo cacciano. Tornare indietro non è possibile, la sua natura estrema glielo impedisce. Davanti a sé ha due possibilità: trascendere la disperazione e vivere la propria fede in perfetta solitudine, sopportando le pene più atroci, oppure togliersi la vita. Tertium non datur.