Ogni uomo, in fondo, è solo, disperatamente solo, abbandonato a se stesso, al proprio dolore, al proprio dramma. Chi dice di capirti, chi ti promette aiuto finge, oppure risponde a un egoistico bisogno di soccorso. È una regola generale, che, come tutte le regole generali, ammette delle eccezioni, certo, le quali però non fanno altro che confermare la regola. Un uomo può sgolarsi, può gridare al mondo intero, con tutta la forza che ha, la sincerità della propria sofferenza, ma nessuno gli crederà mai fino in fondo. Delle sue grida disperate si stancheranno presto e gli chiederanno, più o meno gentilmente, di tacere, di farsi da parte, di non turbare la tranquillità generale con le sue scandalose urla.
La scrittura è sempre stato il mio grido disperato, precipitato nel vuoto, risucchiato da quel silenzio spaventoso che, come un sudario, avvolge il nostro mondo.
Siamo soli, lo siamo sempre stati, possiamo contare soltanto su noi stessi, ma quanti di noi sono all’altezza del nostro dolore e del nostro dramma? Pochi, anzi, pochissimi. Pochissimi hanno il coraggio e la forza di sostenere le proprie sofferenze, le proprie devastazioni. Quasi tutti alla fine si lasciano anestetizzare da ciò che offre, o meglio, impone loro il mondo (pregiudizi, luoghi comuni, convenzioni sociali ecc.), scivolando in uno stato di incoscienza che gli permette di tirare avanti («el se tira avanti», come scrive Michelstaedter), e talvolta persino fino a cent’anni. Che bella soddisfazione…