Un paio di giorni dopo andammo a prendere Marina a scuola, io e Marta, insieme, e la portammo al mare. Naturalmente le regalai un libro, una recente edizione illustrata di Pinocchio.
– Se siamo arrivati a questo punto, allora vuol dire che con la mamma va alla grande, – commentò Luca vedendomi acquistare il libro. Non gli avevo mai parlato della mia relazione con Marta, se non per rapidi accenni. Quando voleva approfondire il discorso, entrare nei particolari, mi difendevo dicendogli che non ne valeva la pena e gli voltavo le spalle. Di Marta avrei certo parlato a un amico, condividendo con lui tutto il mio entusiasmo, non a uno che credeva di esserlo ma non lo era, né lo sarebbe mai diventato. Fortunatamente era troppo interessato a ciò che accadeva intorno a lui, troppo contemporaneo, per rendersene conto. In ogni caso, a quel suo commento neppure risposi, mi limitai a un’alzata di spalle.
Marina andava a scuola a Nettuno, in via Ennio Visca, a pochi passi dalla stazione, ma ci spostammo ad Anzio, in quell’ampio tratto di spiaggia che, d’estate, si trasforma nello stabilimento Tirrena. Ci accomodammo sulla sabbia.
C’era tanta gente attorno a noi, la giornata era ideale, una di quelle giornate primaverili del tutto prive di vento che sono il vero preludio dell’estate. C’era qualcuno che già prendeva il sole, a torso nudo, qualcun altro che, scalzo, passeggiava nell’acqua. Il mare era perfettamente calmo, piatto come il seno di Marta, e non c’era neppure un filo di foschia. Il profilo del Circeo si distingueva così bene che sembrava di poterlo toccare allungando il braccio nella sua direzione. Le paranze andavano e venivano, con calma, incuranti dell’assedio dei gabbiani affamati.
Marina era davvero un bel tipetto. Simpatica ed espansiva, mi raccontò molte delle sue avventure marine, appunto, e senza che fosse la madre a esortarla, ma di sua spontanea volontà. Per esempio quando, su quella stessa spiaggia, aveva visto un’enorme tartaruga morta e avrebbe voluto portarsela a casa, farla imbalsamare e tenerla in camera. Oppure quando, sul traghetto per l’isola di Ponza, aveva visto i delfini saltellare accanto alla nave come se la scortassero a destinazione.
– Anch’io da bambino, una volta, ho visto i delfini, – dissi a Marina dopo aver ascoltato con grande attenzione e interesse i suoi racconti.
– Dove? – domandò la bambina, con quella tracotante curiosità tipica della sua età, o almeno credo.
– Anch’io ero su un traghetto, ma diretto in Sicilia e non a Ponza. Stavamo attraversando lo stretto di Messina, lo ricordo ancora come se fosse ieri, – risposi sorridendo, stupito dalla vividezza di quell’infantile reminiscenza ridestatasi all’improvviso.
– È proprio vero, anch’io quando ho visto i delfini ho avuto subito la sensazione che non li avrei dimenticati mai più. Anche perché, da quella volta, sono diventati i miei animali preferiti. Mamma ha giurato che tra qualche anno mi darà il permesso di tatuarmene uno sul collo, dove lei ha la crisalide. Lo sai che i delfini sono mammiferi come noi? E tu ce li hai i tatuaggi?
– Marina, – intervenne Marta a frenare l’irruenza della figlia, – certo che lo sa Leonardo che i delfini sono mammiferi, e se tu vedessi il suo tatuaggio rimarresti a bocca aperta, ma non mi piace che parliamo di queste cose, lo sai, sei ancora troppo piccola.
– Certo che lo sa… che ne potevo sapere io che lui lo sapeva? Mica possiamo sapere solo guardandolo se un uomo sa o non sa che i delfini sono mammiferi e non pesci, – si difese Marina.
– Hai ragione, non dobbiamo mai dare niente per scontato, – ammise Marta, rivolgendosi poi a me. – Di solito i bambini passano troppo tempo in acqua e i genitori ordinano loro di uscire e di non entrarci più per qualche ora, ma con me e con Marina è diverso: quando l’estate andiamo al mare la maggior parte del tempo la passiamo in acqua, ci piace troppo, e quando ci vediamo abbronzate ne restiamo quasi sorprese, non è vero? – chiese conferma alla figlia.
– Sì, al mare non siamo una bambina e un’adulta, ma due bambine, – approvò Marina, che incontrò una sua compagna di scuola a spasso con il cane e andò a giocare con lei, sotto gli occhi vigili della madre dell’amichetta, naturalmente.
Restammo soli e Marta si strinse subito a me, baciandomi con ardore. Poi mi domandò cosa ne pensavo di Marina.
– Chissà perché, ma tra qualche anno me la immagino sui banchi della facoltà di Giurisprudenza. Ha una bella parlantina, – risposi con ironia.
– Magari lo volesse, non come la madre, che era ed è rimasta una somara, – sospirò Marta, seria.
– Non commettere l’errore che commettono tutti i genitori, – la redarguii.
– Quale errore?
– Riversare sui figli le proprie delusioni, le proprie insoddisfazioni, le proprie frustrazioni. Marina è una bambina sveglia e troverà presto la sua strada.
– Ma li mettiamo al mondo forse per un’altra ragione?
– Probabilmente no, ma dovremmo sforzarci di cambiare il motivo se volessimo davvero migliorare il mondo, – risposi senza troppa convinzione, ben consapevole dell’assurdità delle mie parole, della loro irriducibile inattuabilità.
– Sono sicura che tu hai pensato tante volte a migliorare il mondo, e sono altrettanto sicura che l’impossibilità di farlo deve averti fatto soffrire molto.
– È acqua passata ormai, – rassicurai Marta e me stesso.
Marta aveva ragione, c’era stato un tempo, durante la mia giovinezza, in cui volevo cambiare il mondo, migliorarlo. Indossavo la Lavallière nera, ero un anarchico, e si può essere anarchici solamente nutrendo una fiducia illimitata nei confronti del genere umano, quella fiducia propria di Cristo e che manca, deve mancare, in ogni politico e in ogni funzionario dello stato (lo scrivo volutamente con la lettera minuscola, è il mio modo di scatarrarci sopra, non potendolo fare davvero). Poi però, crescendo, studiando a fondo l’uomo e me stesso, le sue imprese e le mie, la fiducia era venuta meno, fino a scomparire del tutto. All’inizio ne avevo sofferto, ma, con il tempo, alla sofferenza era subentrata l’indifferenza e da anarchico divenni nichilista.
– E alla possibilità di mettere al mondo un figlio, ci hai pensato? – domandò Marta, subito dopo la mia rassicurazione.
– Ho sognato mio figlio tante volte… – sospirai – ancora nel grembo della madre oppure vivo e vegeto. Una volta l’ho visto, ancora piccolo, andare via da me su una carrozza condotta da un cocchiere inquietante, troppo simile al dantesco Caronte, bianco per antico pelo, le gote lanose, gli occhi di bragia. Mi sono svegliato di soprassalto e ho capito che se anche avessi trovato finalmente una donna capace di amarmi, ma animata dal desiderio di essere madre, per quanto affezionato a lei, l’avrei lasciata andare, allontanandola da me con forza, persino con rudezza se necessario. Sorrido sempre al pensiero che, se l’intera umanità fosse problematica come me, si estinguerebbe nel giro di poche generazioni.
– Puoi stare tranquillo, io non voglio più avere figli. Non mi dovrai allontanare da te, o almeno non per questo motivo, – disse Marta sorridendo, fornendomi rassicurazioni di cui già allora vedevo troppo bene la fragilità. Per quanto possiamo sforzarci di costruire ponti solidi sotto e attorno a noi, siamo sempre in bilico su un filo sottilissimo, funamboli inesperti. Basta un colpo di vento più forte del consueto per farci precipitare giù. Chissà quante volte quella povera donna ammazzata dal marito doveva aver rassicurato se stessa e i suoi figli. E ora i suoi figli finiranno per prendersela pure con lei per ciò che è accaduto, proprio a causa di quelle rassicurazioni sulle quali avevano puntato tutto e che si erano rivelate drammaticamente fasulle.
Un uomo passò sul bagnasciuga correndo, le cuffie alle orecchie, scarpe da running appariscenti ai piedi, e mi diede la possibilità di cambiare discorso, di scacciare dalla testa i cattivi pensieri. Cattivi non per me, beninteso, ma per la donna che mi stava accanto e che aveva avuto il coraggio di innamorarsi di me, come non credevo fosse possibile.
– Quando ero giovane e avevo troppi pensieri fastidiosi per la testa, indossavo le scarpe da ginnastica e correvo come un forsennato per chilometri e chilometri, senza mai voltarmi indietro, senza pensare alla strada che avrei dovuto fare al ritorno. Lasciavo la macchina a Cretarossa ed ero capace di arrivare fino a Lavinio, – dissi seguendo con lo sguardo il corridore fin dove mi fu possibile, ovvero fino a quando non prese la salita dei Marinaretti in direzione via Gramsci, la strada che collega Nettuno ad Anzio, costeggiata dal parco di villa Borghese da una parte, da splendide villette a picco sul mare dall’altra. Una delle zone più belle della città insomma.
– E ora?
– Prima che tu sbucassi fuori dal nulla, avevo disimparato a pensare e non avevo più bisogno di correre.
– Questo significa che per causa mia ricomincerai a correre?
– Non posso escluderlo, ma dopo anni e anni di assoluto immobilismo, farei una fatica tremenda.
– Meglio, no? Io invece, quando ho troppi pensieri fastidiosi per la testa, vengo sempre qui, in questa spiaggia. Se è inverno, la desolazione che mi circonda mi aiuta a superare la mia di desolazione, se invece è estate, mi getto in acqua e quando sono in acqua tutto il resto sparisce.
– E se è autunno o primavera, come adesso?
– In autunno penso all’inverno imminente, in primavera all’estate. Ma ho notato, e non scherzo, che i cattivi pensieri mi turbano più in inverno e in estate che in autunno e in primavera.
– Forse perché l’autunno e la primavera, mezze stagioni, corrispondono a questa condizione mezza, mezza vita e mezza morte, che è l’esistenza umana, quindi non ci disturbano. Mentre l’inverno e l’estate sono caratterizzate da condizioni meteorologiche assolute, radicali che non corrispondono al nostro stato. Si viene a creare così una situazione, come dire, discrepante, di dislivello, tra noi e l’ambiente esterno, che alimenta i cattivi pensieri.
– Come fai ad avere sempre una risposta a tutto? – domandò Marta con un’ammirazione nello sguardo che non riuscii a sostenere.
Elusi l’imbarazzante interrogativo facendole notare che Marina era di ritorno. Allora proposi un gelato ed entrambe le bambine accettarono con entusiasmo.