Alla ricerca del senso perduto. Sull’«Uomo senza qualità» – Capitoli 6-10

6. Merito di Walter

È Walter, il suo amico d’infanzia, a definire Ulrich, senza ironia, un «uomo senza qualità» [1]. In realtà di qualità Ulrich, come riconosce lo stesso Walter, ne ha molte: «sa sempre quello che deve fare; sa guardare una donna negli occhi; in qualsiasi momento è capace di riflettere a dovere su qualsiasi cosa; sa fare a pugni»; è «talentuoso, dotato di forza di volontà, privo di pregiudizi, coraggioso, tenace, impetuoso, avveduto» (94), bello. Ha tutte queste qualità, Ulrich, ma è come se non le avesse. Lo hanno reso ciò che è, queste qualità, hanno determinato la sua vita, scritto la sua storia, ma è come se non gli appartenessero:

Quando è arrabbiato, qualcosa in lui ride. Quando è triste, si prepara a fare qualcosa. Quando qualcosa lo commuove, la rifiuta. Ci sarà sempre un punto di vista per il quale qualsiasi cattiva azione gli sembrerà buona. Per dare la sua opinione su una cosa dovrà sempre riferirla a un possibile contesto. Per lui niente è stabile. Ogni cosa è suscettibile di trasformazione, è parte di una totalità, di innumerevoli totalità, che probabilmente appartengono a una supertotalità, che però lui non conosce affatto. Così ognuna delle sue risposte è una risposta parziale, ogni suo sentimento è solo un punto di vista e, di una cosa, non conta per lui che cos’è, ma sempre e soltanto un secondario “com’è”, un accessorio qualsiasi (ibidem).

Insomma, nell’amico d’infanzia l’invidioso e geloso Walter vede l’espressione di «quel disfacimento dell’essere che oggi è proprio di ogni fenomeno» (ibidem). Del tutto privo d’amor proprio, Ulrich sarebbe d’accordo con lui. Si ritiene senza imbarazzo, senza ipocrisia un figlio del proprio tempo, Ulrich, e questo, secondo me, è sempre un sintomo di grande intelligenza e onestà. Al contrario di Walter, che si scaglia contro la propria epoca per giustificare la propria inguaribile mediocrità.

7. Tutto è ciò che è, soltanto ciò che è

Durante una delle loro tante conversazioni, Ulrich spiega a Clarisse, fanatica nicciana, e fanatica a tal punto da accusare il suo maestro di non essere andato fino in fondo [2], quando invece Nietzsche, come scrive Camus, è «il solo artista che abbia tratto le estreme conseguenze da un’estetica dell’Assurdo» [3], che se scomponessimo «l’essenza di mille persone» troveremmo «al massimo una ventina di qualità, di sentimenti, comportamenti, forme costitutive eccetera, di cui tutte sono fatte»; che se scomponessimo il nostro corpo troveremmo soltanto «acqua e qualche decina di sostanze che vi nuotano dentro», e che l’«acqua sale in noi proprio come sale nelle piante e forma i corpi degli sseri viventi, così come forma le nuvole» (95).

Le spiega anche che così «come nuotiamo nell’acqua, nuotiamo anche in un mare di fuoco, in una tempesta di elettricità, in un cielo di magnetismo, in una palude di calore», ma che è «tutto impercettibile» (ibidem). E conclude, Ulrich, che alla fine «restano soltanto delle formule», ma «cosa esse significhino per l’umanità, non lo si può di fatto esprimere», e che ciò «è tutto» (ibidem).

Per Ulrich, uomo dell’«intelligenza funzionale», fanatico della scienza, tutto è ciò che è, soltanto ciò che è. Per lui il mondo è completamente nudo, spogliato di quel velo d’idealità che lo ha ricoperto, ornato, impreziosito, spesso in modo falso e illusorio, per secoli. Tutto ciò che è si riduce a una relazione chimica, biologica, matematica, psichiatrica, a una formula. Due per due quattro, citando l’uomo del sottosuolo, e nient’altro.

Eppure, anche ad un uomo simile, per il quale non esistono enigmi, misteri, vuoti può capitare di bloccarsi, di entrare in crisi. Perché le verità positive, scientifiche non bastano, mai. Se anche tutto venisse spiegato una volta per sempre l’uomo non smetterebbe di essere un uomo, ovvero quanto di più complesso, misterioso ed enigmatico esista al mondo. È una «sublime follia metafisica», come scrive Nietzsche, credere «che il pensiero, attraverso il filo conduttore della causalità, raggiunga i più profondi abissi dell’essere, e che il pensiero sia in grado non solo di conoscere l’essere, bensì anche di correggerlo» [4]. La conoscenza positiva, scientifica non è l’unica conoscenza umana. C’è anche una conoscenza filosofica, tragica con la quale l’uomo, prima o poi, deve fare necessariamente i conti. Non ricordo esattamente chi lo disse, forse Wittgenstein, che se anche la scienza avesse risposto a tutte le domande, lui non avrebbe comunque smesso di porsele. Deve trovare una nuova ragione, una nuova idea, Ulrich, per ricominciare a vivere. È come se dovesse recuperare la propria dimensione umana, intendendo per umano anzitutto irrazionale. Perché il raziocinio, come dice l’uomo del sottosuolo, «è soltanto raziocinio, e soddisfa soltanto la capacità raziocinativa del’uomo», mentre la natura umana «agisce tutta intera, con tutto quello che c’è in lei, sia con la sua parte cosciente che con quella non cosciente, e mente magari, ma cionondimeno vive» [5].

È necessario accogliere l’irrazionale, con tutti i rischi che comporta, è necessario accogliere Agathe, per poter vivere.

8. Moosbrugger

All’ex presidente della Corte dei conti, attualmente preposto al Supremo Tribunale Imperiale per gli Affari Particolari presso l’Ufficio del Maresciallo di Corte, Sua Eccellenza il Conte Stallburg, Ulrich chiede di graziare Moosbrugger, il gigantesco carpentiere condannato a morte per il brutale omicidio d’una prostituta. Una condotta «imperdonabile», che stupisce e imbarazza lo stesso Ulrich (ma non, per sua fortuna, il Conte, che ha intenzione di farsi una buona impressione di lui e vede nell’originale richiesta la dimostrazione di un «temperamento risoluto e appassionato»).

Per Ulrich Moosbrugger «non ha colpa». È malato, dunque «non ha colpa». Per questo Ulrich si oppone alla sua condanna a morte, non per rettorico umanitarismo. L’esecuzione capitale è una pena sproporzionata per un malato di mente. Ma c’è dell’altro, di più profondo e misterioso. Una connessione vaga e indefinibile lega Ulrich a Moosbrugger, come se egli trovasse, nel celebre criminale, protagonista assoluto del dibattito pubblico viennese, secondo quel morboso interesse collettivo per l’orrido caratteristico della modernità [6], quella scintilla d’umanità, nel senso, di nuovo, di irrazionalità, che ha smarrito e di cui, forse non del tutto consapevolmente, è alla ricerca.

Nella distorsione dei legami che convenzionalmente compongono la trama della vita, come nel caso della malattia di Moosbrugger (una distorsione è anche il rapporto con Agathe, così ambiguo), brilla l’umanità. In un mondo che viaggia a folle velocità verso la reificazione – crediamo di averla in pugno, «la cosa», ma è «la cosa» ad avere in pugno noi; in essa viaggiamo giorno e notte e svolgiamo ogni attività (58-59) -, nel quale tutto è formula, soltanto la malattia appare, almeno per ora, come umanità. È come se il caso di Moosbrugger, la sua malattia, rappresentasse per Ulrich una frattura, una crepa dalla quale penetra la luce dell’umanità, dell’irrazionalità. È una rottura della formula, il delitto di Moosbrugger, la sua malattia, la sua follia, e definirla malattia, definirla follia non basta a spiegarla. Non ad Ulrich, almeno, che, quasi inconsciamente, definisce Moosbrugger «sogno collettivo» dell’umanità. Sogno spaventoso, violento – un incubo -, ma umano. Tragicamente umano.

9. La visione

Mentre attende che Bonadea, l’amante [7], finisca di rivestirsi e finalmente se ne vada, Ulrich ha una visione: vede Moosbrugger e i suoi giudici. Ne sente le voci, come gli capita talvolta quando è «sovraeccitato dal lavoro e dalla noia», e sussurra:

Abbiamo una seconda patria, in cui tutto ciò che facciamo è innocente (150).

È come se Ulrich fosse proprio alla ricerca di questa «seconda patria», in cui non esistono, come dirà ad Agathe, bene e male, ma soltanto fede e dubbio.

10. Ritorno al passato

«Qualcosa di sconosciuto» fa sentire Ulrich più vicino a Moosbrugger che alla propria vita; qualcosa che lo ha «catturato come una poesia oscura in cui tutto è un po’ distorto e alterato, e svela un senso frammentato che agisce nella profondità dell’animo» (152).

Si rimprovera per questo cedimento al «Romanticsmo dell’orrore», così borghese, Ulrich, ma il caso di Moosbrugger lo riconduce a certe riflessioni, a certe frasi, indefinite e misteriose, proprie del linguaggio mistico, verso le quali aveva provato, e prova ancora oggi, simpatia e familiarità. Frasi che gli parlano con un «accento fraterno, con un’intimità languida e oscura», opposta al «tono imperioso del linguaggio matematico e scientifico» (inizia a oscillare tra questi due poli, misticismo e scienza, Ulrich). Compongono un «continente scomparso nella preistoria», e improvvisamente riemerso, quelle frasi. Sente battere dentro di sé, nel suo petto, per un attimo, il «cuore di un ventenne», Ulrich, e ricorda la giovanile passione per una donna molto più grande di lui, moglie d’un maggiore. Torna dunque alla giovinezza, Ulrich, attraverso Moosbrugger, misteriosa chiave d’accesso a una dimensione altra, passata, ma non perduta, dalla quale una parte di Ulrich, la più profonda, non se n’è mai andata.

NOTE

[1] Ah, Walter… pittore, musicista, poeta, direttore d’orchestra, maestro di disegno, critico musicale, eremita e infine, per volontà del padre e del suocero, stanchi dei suoi fallimenti, impiegato presso la sovraintendenza delle Belle Arti; Walter, il cui unico vero talento è passare per un grande talento; Walter, artista mediocre, uomo passivo-passivo, marito rifiutato, severo monito per tutti gli aspiranti creatori.

[2] Per un approfondimento sul personaggio di Clarisse rimando al contributo Le donne dell’Uomo senza qualità: la «verginale ed eroica» Clarisse.

[3] Albert Camus, Il mito di Sisifo, traduzione di Attilio Borelli, Bompiani, Milano 2020, p. 136.

[4] Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, traduzione di Susanna Mati, Feltrineli, Milano 2022, p. 150.

[5] Fëdor Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, a cura di Igor Sibaldi, Mondadori, Milano 2014, pp. 42-43.

[6] «Ogni giornale, dalla prima all’ultima riga», scrive Baudelaire nel Mio cuore messo a nudo, «non è altro che un tessuto d’orrori. Guerre, delitti, furti, impudicizie, torture, delitti dei principi, delitti delle nazioni, delitti dell’individuo, un’ebbrezza d’universale atrocità. E con questo disgustoso aperitivo l’uomo civile accompagna il pasto d’ogni mattino. Tutto, in questo mondo, trasuda delitto: il giornale, i muri, e il volto dell’uomo. Non capisco come una mano pura possa toccare un giornae senza uno spasimo di disgusto» (Charles Baudelaire, Il mio cuore messo a nudo, a cura di Diana Grange Fiori, Adelphi, Milano 1983, p. 88). Noi, con l’avvento della televisione, siamo andati oltre; noi, del delitto, abbiamo fatto un genere d’intrattenimento, e credo che questo spieghi molte cose del nostro miserissimo tempo.

[7] Per un approfondimento sul personaggio di Bonadea rimando al contributo Le donne dell’Uomo senza qualità: la ninfomane Bonadea.

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