Spazzatura. I rifiuti cerebrali di un uomo (suo malgrado) – Marzo

AVVERTENZA

Sarò sincero. Credevo che uomini come l’autore di questa raccolta di frammenti che sottopongo alla vostra cordiale attenzione, fratelli dell’uomo-topo protagonista delle Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij tanto per intenderci, fossero spariti, si fossero estinti per sempre. Per questo motivo, alla lettura di questo manoscritto fortuitamente rinvenuto in strada, in un cumulo di spazzatura appunto – non che io mi metta a rovistare tra i rifiuti, grazie a Dio non ne ho ancora la necessità; è solo che l’occhio mi è caduto su questo mucchio di fogli scritti fitti fitti a mano, cosa quest’oggi sempre più rara -, lo stupore è stato il sentimento prevalente. Ora, io non m’intendo molto di queste cose, e potete comprenderlo facilmente da queste poche righe sghembe, ma non credo che questi frammenti abbiano un grande valore letterario e/o filosofico. Credo però che abbiano un discreto valore psicologico e forse addirittura sociologico, per ciò che ho scritto all’inizio. Prima di concludere e di lasciarvi alla lettura – che, vi avverto subito, in via preventiva, talvolta vi risulterà sgradevole, urticante -, sottolineo come all’autore di questi frammenti – anonimo, compare talvolta solo una sua iniziale, L. – corrisponda perfettamente un proverbio cinese che ho sempre trovato veritiero e contro il quale mi sono sempre sforzato di lottare, per evitare di ridurmi a scrivere, per esempio, simili frammenti: «L’uomo, che a trent’anni non ha realizzato il suo sogno, invano si crede grande».

Il curatore

Sono lo spirito che nega sempre. E con ragione: perché tutto quello che nasce è degno di finire in perdizione. E però meglio sarebbe che non nascesse nulla.

Mefistofele

MARZO

1. Nel segno degli oltre-filosofi. Nella storia della filosofia occidentale esiste un’esigua schiera di pensatori che hanno avuto l’ardire di spingersi oltre i limiti del pensiero umano, oltre la soglia fissata da Kant. Sono questi gli oltre-filosofi: Philipp Mainländer, Otto Weininger e Carlo Michelstaedter, cui va aggiunto l’ingegnere Aleksej Niljč Kirillov protagonista dei Demòni di Dostoevskij. Ora, a scanso di equivoci, è necessario puntualizzare subito che la loro fine, comune a tutti e quattro, il suicidio, con certezza solamente nei casi di Mainländer e Kirillov s’impone come una pratica concretizzazione della teoria filosofica. Per quanto riguarda invece Weininger e Michelstaedter, si tratta piuttosto di un epilogo naturale, e sottolineo con forza questo termine, fin quasi a strappare il foglio (quante volte mi è stato obiettato, con grande convinzione peraltro: «ma il suicidio è innaturale»; ho sempre ribattuto, senza permettermi di scomodare il Porfirio leopardiano: «dotando l’uomo di una coscienza la natura annichilisce se stessa», parole nella mia mente accompagnate sempre da quelle dell’Ulisse dantesco: «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza», e il fatto che siano venute in mente persino a Primo Levi all’interno di un campo di sterminio, dimostra tutta la loro matematica esattezza, come l’operato dei Nazisti la loro degenerazione, ma questo è un altro discorso). In particolar modo, riguardo Michelstaedter, rifiuto con sdegno la grossolana e semplicistica ipotesi del suicidio metafisico sdoganata da Papini (la sua morte volontaria è l’esatto contrario della metafisica, la sua inconfutabile confutazione), ricollegandomi piuttosto, oltre alla naturalezza del fatto, alla somiglianza clamorosa con la fine del Bruto leopardiano, entrambi accomunati – una coincidenza davvero sorprendente e forse affatto casuale – dal riso «maligno».
Questi pensatori si spingono dunque oltre i limiti, approdando in un altrove che rappresenta l’esito nichilistico estremo: Mainländer e Kirillov con le loro filosofie del suicidio, Weininger con il suo antifemminismo e il suo antisemitismo, Michelstaedter con la sua distinzione – e tertium non datur – tra «persuasione» e «rettorica», e con la sua «coscienza della nullità»: «Vera coscienza è la coscienza della nullità, cioè quella che cessa d’essere coscienza. Tale è l’intima contraddizione e l’estremo sarcasmo di tutta la commedia». Nessun altro filosofo, eccezion fatta per Max Stirner, che però si lascia morire e non si uccide, li può eguagliare per intransigenza e intraprendenza riflessiva, per radicalismo. Dopo di loro è il Nulla, la morte, e infatti si uccidono tutti, ma tutti – dopo aver scritto – tranne Kirillov ovviamente – la loro opera prima e definitiva: La filosofia della redenzione Mainländer, Sesso e carattere Weininger, La persuasione e la rettorica Michelstaedter. Opere spietate, che recidono le palpebre nel caso di Michelstaedter – il suo è un libro assolutamente necessario -, spaventano nel caso di Mainländer e di Weininger, soprattutto se accostandosi a questi testi non si fa prima tabula rasa di tutti i pregiudizi e di tutti i luoghi comuni, di tutte le riserve morali, o presunte tali, che ci trasciniamo dietro dalla nascita. Per comprendere davvero queste opere bisogna essere neutri, accantonare bene e male, giusto e ingiusto. Mainländer si impicca, utilizzando come piedistallo una colonna formata da numerose copie della Filosofia della redenzione fresche di stampa – una scala verso la redenzione dall’esistenza, appunto -, Kirillov, Weininger e Michelstaedter si sparano, nella stanza dove morì Beethoven l’austriaco, addirittura con due colpi di pistola alla testa il goriziano. Non poteva e non doveva esserci altro esito. Esistono ancora – esisteranno sempre, ahimè -, benpensanti che li condannano per il loro gesto estremo e per il loro pensiero, ma l’intensità del biasimo, della condanna non eguaglierà mai l’intensità dell’ammirazione di chi, come me, li ama.

2. Per chi, come il sottoscritto, ha la consapevolezza dell’insensatezza della vita, del Nulla, ogni giorno, ogni sacrosanto giorno è un compromesso. E in ogni cosa che si fa si fatica il doppio, perché di ogni cosa si vede l’inutilità, la vanità, l’assurdità. Inoltre si pensa sempre alla morte, sempre, è un pensiero costante, che non ti abbandona mai. Si tratta insomma di una condizione estremamente fastidiosa, sì, innanzitutto fastidiosa, come quando si ha prurito in una zona in cui il decoro impedisce di grattarsi in pubblico, o come quando si ha il mal di testa – ecco, quest’ultimo paragone risulta particolarmente calzante -. Mi domando se esista un palliativo – niente di più; pensare ad una cura sarebbe ridicolo; non esiste cura a questa maledetta consapevolezza, una volta strappato il velo non si può ricucire -. Penso alla fatica e al sesso, ma si tratta solo di ipotesi. Del resto dei palliativi me ne frego: andrò avanti finché potrò. Anche se ad aggravare il fastidio e a renderlo vero e proprio dolore interviene la costrizione ad andare avanti, la costrizione a sopravvivere, rappresentata nel mio caso specifico dalla famiglia, dai genitori. Lo dico sempre: se fossi orfano sarei morto da un pezzo. E invece devo continuamente misurarmi con due lacci che non vogliono, né possono lasciarmi andare. Sopravvivo obtorto collo, malgrado me stesso, contro la mia volontà, ammesso che si possa ancora parlare di volontà – ma credo che la volontà non esista, così come non esiste la morale, esiste solo il caso -. Tutto ciò che faccio non lo faccio certo perché voglio, ma perché devo e non sono certo un caso particolare, isolato. Anche l’attività di scrivere, cos’è? Una passione? Una vocazione? Stupidaggini, anzi, cazzate, tanto per essere più efficaci, più diretti. La scrittura, come ogni altra attività umana, si riduce a vizio o abitudine. La vita stessa, per chi non si uccide, è un vizio o un’abitudine. Niente di più. E chi lo sa che non lo sia diventata anche per me? Ma no, è solo una questione di tempo. Per quanto riguarda la scrittura, per me non è altro che un vizio, come il fumo, e altrettanto dannoso del fumo. Come ho scritto già da qualche parte – chissà dove -, se potessi la smetterei all’istante di scrivere. Perché la scrittura costringe a fare i conti con se stessi quando da se stessi si dovrebbe fuggire a gambe levate. Ma basta per ora, basta, meglio tornare a studiare Ariosto.

3. Il funerale… l’ultima, suprema manifestazione dell’umana vanità e dell’umana ipocrisia. Oltre all’autentico dolore di una ristretta cerchia di persone, le più legate al defunto, che altro c’è? Il sollievo, e un sottile compiacimento per non essere direttamente coinvolti nel dramma.
I lutti improvvisi rivelano di colpo la presenza della morte. Qualche giorno e tutto svanisce, si torna come prima, incuranti e indifferenti dell’inevitabile epilogo che attende tutti. La morte non insegna niente, quando invece dovremmo imparare a convivere con essa. Questa convivenza è alla base del miglioramento del genere umano. Un’utopia. L’aura superstiziosa che ammanta la morte non verrà mai sradicata, connaturata com’è all’uomo. E in ciò che riguarda la natura più intima e profonda dell’uomo il progresso non esiste. Ce ne accorgiamo scoprendo testimonianze storiche vecchie secoli, o leggendo libri altrettanto vecchi – penso alla Bibbia, per esempio -: l’uomo è stato, è e sarà sempre lo stesso. Per questo semplice motivo, banale se vogliamo, un cambiamento non è possibile, non è neppure immaginabile. Homo homini lupus: così è sempre stato, così sarà per sempre. Oddio, per sempre… piuttosto fino al giorno in cui saremo estinti, magari senza neppure accorgercene, come scrive Svevo nella formidabile conclusione della Coscienza di Zeno, e l’universo tornerà finalmente a respirare liberamente, a pieni polmoni, senza doversi più tappare il naso. Perché noi l’universo, con la nostra maleodorante presenza, lo appestiamo.

4. Lo scorso quattro marzo, per la prima volta nella mia vita, non mi sono recato alle urne. Per la prima volta nella mia vita ho trovato la forza di mettere in pratica gli insegnamenti di La Boétie, di Thoreau, di Tolstoj, soprattutto (mi riferisco al fondamentale e illuminante saggio Guerra e rivoluzione, che ogni uomo dovrebbe leggere). Finalmente posso dire con fierezza: io non sono complice. Il mio non è stato un atto di menefreghismo, anzi, tutt’altro. Io non riconosco più questo sistema politico; io non riconosco più nessun sistema politico e governativo. Perché in ogni caso si tratta di un regime. E la democrazia è il più subdolo e infido dei regimi. Ma di definirmi anarchico non ho il coraggio, né sono disonesto a tal punto, perché l’anarchia richiede una fiducia illimitata nel genere umano. Fiducia che potevo avere un tempo, ma che oggi non posso avere più. In trent’anni ne ho viste troppe, ne ho viste e studiate troppe. L’uomo mi ha deluso, e il primo uomo ad avermi sempre, sistematicamente, sadicamente deluso sono io. Del resto, come scrive Michelstaedter, è necessario disprezzarsi. Quando si ha la consapevolezza di non essere all’altezza, di non essere affatto al di sopra della marmaglia che tanto si disprezza, che tanto si odia, non compassione, ma disprezzo si deve provare verso se stessi. Disprezzarsi fino a incenerirsi.

5. Per l’uomo non c’è pena più grande che non essere all’altezza della propria ambizione. Da questa pena nascono gli Erostrati.

6. «Così rinvolto in tra questi pidocchi traggo il cervello di muffa, e sfogo questa malignità di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognossi», scrive Machiavelli nella bellissima lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513. Il problema oggi è che questi «pidocchi» non solo sono diventati miliardi e miliardi – la stragrande maggioranza della popolazione mondiale, ma è sempre stato così, ciò che fa spavento è il numero -, ma hanno una voce e hanno addirittura conquistato i posti di comando, definiamoli così. In tal senso, la situazione politica italiana è emblematica: nelle due camere l’ignoranza regna sovrana. Ma anche nelle università, basti vedere certi professori: cave canem. Un esempio su tutti: S.C. I «pidocchi» sono al potere. E come si può pensare di veder pubblicato un proprio libro in un paese simile? A volte penso che se una grande editrice pubblicasse un mio libro dovrei preoccuparmi sul serio. Ma sono troppo elitario, troppo spocchioso. Cultura o no, siamo tutti «pidocchi», vani, insignificanti, inutili «pidocchi», condannati ad una breve parentesi di vita per poi scomparire per sempre nel Nulla.

7. La televisione e i social networks – provo ribrezzo anche solo a scriverla questa parola – sono le due cloache in cui finisce tutta la sporcizia del nostro tempo. In particolar modo, chiunque metta piede in televisione è un complice, per quanto possano essere nobili e onesti i suoi fini, comunque annientati dalla dichiarazione di vanità chiaramente espressa da un simile passo. La nostra è la società dell’apparenza. Dispersa la massa, restano miliardi di unità individuali – non individui – che tentano disperatamente, pateticamente di affermare se stesse, di mettersi in mostra. Uno dei tanti problemi è che spesso dietro queste unità individuali si cela una violenza cieca che sempre più di frequente esplode contro chi gli sta vicino. E basta una sciocchezza per innescare la miccia. C’è un lato oscuro dietro questa società dell’apparenza. Ciò che fa venire i brividi è che questo scenario catastrofico, tra il dramma e la farsa, fa comodo a più di qualcuno. Il vero Medioevo, nell’accezione negativa del termine, è il nostro tempo, su questo non ho dubbi. La troppa luce acceca. Sono tutti ciechi, distinguono ormai solo qualche forma. E il grido del malpensante si perde nell’insensato chiacchiericcio, ininterrotto e del tutto privo di significato (il «regno del silenzio» di Michelstaedter), di questa infinita moltitudine di unità individuali che procede baldanzosa verso la propria distruzione, verso la propria estinzione.

8. Il mondo deve essere un posto meraviglioso visto il sistematico processo di santificazione cui vengono sottoposti tutti i morti.

9. Ho fallito. Ho fallito in tutto ciò che mi stava più a cuore, eccetto la laurea magistrale. Ma questa reiterata serie di fallimenti mi ha permesso di sviluppare una cultura del fallimento che, dopo una sconfitta, dopo una disfatta, mi consente persino di provare un certo piacere. Un piacere sinistro, malsano, come quello provato dall’uomo che paga per farsi calpestare da una donna in tacchi a spillo. E già pregusto il piacere del mio prossimo fallimento – la prova d’ammissione al dottorato di Italianistica -, che avrà conseguenze senza precedenti, perché per la prima volta mi costringerà a fare davvero i conti con la vita, con la sua iniquità e la sua ingiustizia.
I grandi fallimenti addolorano, sì, ma nella loro grandezza contengono sempre una certa dose si piacere che permette di non precipitare del tutto, forniscono un appiglio. La disperazione è un appiglio. Quelli che fanno davvero male, che penetrano nel profondo come chiodi, sono i piccoli fallimenti quotidiani, le concessioni alle cattive abitudini. Queste piccole, ma continue sconfitte, più delle grandi, svelano tutta la miseria, tutta l’insignificanza del nostro essere. Un esempio pratico: da mesi punto la sveglia alle sette e trenta; assai di rado ho avuto la forza di svegliarmi prima delle nove. E andare a dormire presto non aiuta affatto, anzi.

10. Ci sono momenti in cui percepisco vividamente la sopravvivenza per quella che è – nel mio caso specifico -: una schiavitù. Allora la mestizia, lo stato d’animo che mi accompagna solitamente, muta in un malessere insopportabile. Tutto ciò che so – le due o tre idee che mi sono rimaste in testa, che hanno fagocitato, divorato tutte le altre – si spoglia persino di quell’ultimo velo di dignità che lo ricopre e si mostra nella sua volgare e oscena nudità. Vorrei gridare, ma non posso, l’urlo resta strozzato in gola, e allora trovo rifugio nell’autopunizione, privandomi di quei pochi, insignificanti piaceri che mi sono rimasti.

11. La vita mi ha spogliato di tutte le consolazioni, eccetto due: il sonno e il pensiero della morte. Ma a causa della sua inattualità, a causa del suo forzato slittamento in un punto imprecisato dell’avvenire, il pensiero della morte perde giorno dopo giorno efficacia. Così solo il sonno può essere definito una vera e propria consolazione. È per questo che, superata una determinata ora, diciamo la mezzanotte, non riesco più a fare niente, neppure quando dovrei. Il cervello si spegne e invoca la pace, la morte temporanea, reversibile, surrogato della vera morte. Non ho la forza di oppormi, mai.

12. Getto uno sguardo all’avvenire e non vedo che lutti.

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