Spazzatura. I rifiuti cerebrali di un uomo (suo malgrado) – Luglio

1. Primo luglio, domenica, sera. Ho passato tutto il giorno in casa, tra faccende domestiche, tre o quattro sigarette e la scrittura di un inutile saggio sul Faust di Goethe. Questo fisicamente, perché idealmente ho trascorso l’intera giornata al mare in compagnia di una bellissima donna.
Private l’uomo delle illusioni e non resisterà forse neppure un’ora, ma si sparerà prima un colpo di pistola in testa.

2. Non accetterei di rinascere neppure se mi garantissero delle condizioni di vita ideali. Perché mi conosco e so che i miei incubi mi tormenterebbero anche nell’agiatezza e nel successo, nella gloria e nell’amore. Un uomo non può fuggire da se stesso, mai.

3. Fare una critica letteraria orgogliosamente inattuale è il mio modo di protestare contro questo stupido tempo.

4. Questa mattina ho ripreso in mano il romanzo Iperione di Hölderlin. L’ho sfogliato così, a caso, e tra le pagine ho trovato un vecchio papavero, seppellito nella carta chissà quanto tempo fa. Un tempo inquieto, certo, ma traboccante di vitalità, in cui il mio cervello si donava con tutto se stesso all’amore e, in fiamme, vagheggiava imprese straordinarie, sovrumane. Oggi, nella mia consistenza spettrale – sono un lemure, per come lo descrive Goethe, e niente di più: «quel tanto di muscoli e tendini che basta, perché si possano muovere a stento e non appaiano scheletri del tutto trasparenti e non cadano a terra» -, compiango quel tempo come si compiange un caro vecchio amico scomparso prematuramente ovvero: con un mesto sorriso sulle labbra, ispirato dal ricordo, e un’infinita tristezza che non erompe in pianto solo perché la vita ha prosciugato la fonte delle lacrime.

5. Come il vecchio marinaio maledetto di Coleridge, la Morte e la Vita nella Morte devono essersi giocate anche me ai dadi. Ancora una volta ha vinto la seconda.
A proposito di Coleridge, riguardo la sua esperienza esistenziale Praz parla di «tragedia della volontà»: un’espressione che mi calza maledettamente a pennello.

6. Stringere le mani di una donna, accostare le labbra al suo orecchio e sussurrarle: – Sei tutto ciò di cui ho bisogno… -. Vedere i suoi occhi brillare dalla gioia. È tutto ciò di cui avrei bisogno.

7. Posso dirottare il mio odio verso il prossimo, verso la società, verso una casta, ma il bersaglio principale del mio odio resto sempre e solo io. È perché detesto me stesso che, probabilmente, detesto tutto. E l’uomo che si odia non troverà mai pace, in qualunque contesto esso si trovi.

8. Per anni e anni mi sono sforzato di essere ciò che non posso essere. Ma le energie si stanno esaurendo e tra non molto la smetterò, finalmente, di farmi gratuitamente del male. Resterà solo il rimpianto di un’aspirazione inesausta. Niente di più.

9. La mancata integrazione nel consorzio umano, l‘impossibilità, per decreto del Caso, di integrazione nel consorzio umano, con le sue leggi meschine, autodistruttive, le sue convenzioni ridicole, non può condurre che a un esito drammatico, e non per forza nel senso più eclatante del termine – da una parte l’uomo-topo di Dostoevskij, dall’altra lo straniero di Camus -, a meno che non si riesca a sviluppare un sentimento di rassegnazione cosmica che conduca ad un estraniamento così perfetto da annullare ogni differenza tra vita e morte, tra vivere e morire. Questa rassegnazione ideale rende l’emarginato, lo straniero completamente autosufficiente, egli a questo punto non ha bisogno che di se stesso, e, al tempo stesso, gli permette di muoversi all’interno della società e del mondo, che pur non riconosce e non riconoscerà mai come suoi, senza provare più dolore, perché tutto gli scivola addosso senza sfiorarlo. Non si tratta di un vile compromesso, da debole codardo, ma di una forma di ultra-nichilismo, della massima espressione della negazione, che, attraverso il superamento del conflitto tra vita e morte, permette addirittura di andare oltre il suicidio, di superarlo, approdando ad una forma di annientamento ancora più radicale, perché più sottile e sofisticata, diciamo così. Solo raggiungendo questo stato può nascere allora la vera indifferenza, l’indifferenza glaciale, spaventosa, disumana, propria del cadavere, e che costituisce in un certo senso lo sviluppo del «riso maligno» del suicida. L’ultra-nichilista si tiene per sé quelle tre o quattro idee sopravvissute al massacro ideologico che lo ha condotto fino a questo punto, egli è l’Anonimo per eccellenza, per definizione, e, rispetto all’umana orda barbarica che lo circonda, è LIBERO. Per lui non esiste più la morale, non esistono più i buoni e i cattivi, non esiste più la conoscenza, non esistono più i saggi e gli stolti, ma tutto si riduce ad un’unica opposizione: se stesso e gli altri. E tutto ciò che fa lo fa solo per ammazzare il tempo, per riempire l’attesa della fine. E sono certo che la Morte gli sorrida, potendo persino intercedere per lui con il Caso, per una fine prematura.
In letteratura il prototipo ideale dell’ultra-nichilista è il goethiano Mefistofele, perché non può morire, perché è l’eterno spirito che nega, che sempre dice no.

10. Sfogliando il volume G della mia storia della letteratura italiana, ho ritrovato questo frammento, intitolato Tempo e datato 6 giugno 2010: «Il tempo è, nella sua estensione, pura frammentarietà dell’attimo. Istantanea forza distruttrice, in grado di travolgere ogni cosa e/o di fissare nella sua eternità fuggevoli intuizioni infinite». Non giudico, mi limito solo a riportare un ricordo scoperto per caso.

11. Il senso ultimo della Storia, questo gigantesco cumulo di disgrazie, questa sterminata discarica di sofferenze e di crudeltà, si riduce alle parole di Parini nell’Ortis e a quelle di Adelchi prima di esalare l’ultimo respiro. È tutto qui, non c’è altro da aggiungere. Il Male è immanente all’azione umana, ad ogni azione umana, ma è nella sfera politica che questo dato di fatto, inconfutabile, emerge con maggiore evidenza. Per questo motivo mi indigna e mi disgusta il modo in cui gli uomini si rendono complici dei loro politici, i loro tiranni, persino legittimandoli. E tale complicità si può solo spiegare con l’atavica propensione dell’uomo comune alla servitù volontaria. Il Grande Inquisitore ha ragione. Il Grande Inquisitore avrà sempre ragione. Ora, in un simile stato di cose, come si può anche solo immaginare, anche solo fantasticare un miglioramento? Cupo è l’avvenire, come il presente e anche il passato; un sole nero incombe sulla storia del genere umano, che punta spedita verso l’estinzione della specie.

12. È iniziato tutto nella primavera del 2005, appena compiuti i sedici anni: la scoperta della poesia, con Baudelaire, dell’arte, con la visita alla Cappella degli Scrovegni – anche se in questo caso sarebbe più giusto parlare di riscoperta, visto l’episodio infantile del Mosè michelangiolesco -, e dell’amore, grazie a Marta, la donna di cui ancora oggi amo il ricordo. Sono stati i mesi più intensi della mia vita, con il loro incessante rincorrersi, accavallarsi, calpestarsi dei sentimenti più disparati e contrastanti: la gioia, l’angoscia, il desiderio, la paura. Allora nascevo, allora vivevo, completamente, autenticamente, come un animale selvaggio. Dai miei versi, tutti deliberatamente distrutti, sgorgava la Vita, pura incontaminata, travolgente. Versi sanguigni, primordiali, primitivi, privi di valore artistico – come tutto ciò che ho scritto dopo e che scrivo oggi, del resto – ma storicamente importanti – per me solo, ovvio -, come pitture rupestri.

13. Una delle sensazioni più belle ed esaltanti che io abbia mai provato è quella che nasce quando, attraverso l’opera d’arte, si instaura tra me e il Genio un rapporto di empatia pressoché totale, che trascende spazio e tempo. È come se l’artista rivivesse dentro di me, attraverso me. In me sento tutto il suo furore, percepisco vividamente in me tutta la sua grandezza. Dura fin quando mi trovo al cospetto dell’opera d’arte. Poi, quando ad essa volto le spalle, ecco che la grandezza del Genio mi travolge, mi schiaccia, mi seppellisce, sbattendomi crudelmente in faccia tutta la mia piccolezza, tutta la mia miseria, tutta la mia inutilità. Ma questo rovescio della medaglia, chiamiamolo così, non si verificava quando ero un bambino, o un adolescente, perché allora era intatta la speranza di riuscire a realizzare un giorno qualcosa di altrettanto grande e indimenticabile.

14. Io sono perfettamente consapevole del fatto che tutto ciò che produco letterariamente – critica inclusa -, non vale niente. Lo so benissimo, lo provo ogni sacrosanto giorno, quando le mie misere, zoppicanti, deformi, storpie parole si confrontano con quelle dei Grandi. Ma è proprio per questo motivo che non tollero tutti quelli che, pur non valendo nulla, come me, si credono menti eccelse, straordinarie, necessarie. Il successo, il riconoscimento non sono affatto sinonimo di valore, di importanza, di grandezza, anzi. E poi un tempo modesto non può che partorire – e non solo letterariamente, ma artisticamente – figli modesti, che forse verranno pure ricordati in futuro, ma solo perché oggi non poteva esserci di meglio.

15. È un dozzinale melodramma quello che ogni giorno, con macabra puntualità, va in scena nel mondo. E tutti, nessuno escluso, vi prendiamo parte, con i nostri ruoli minimi, marginali, insignificanti. Siamo piccoli personaggi fondamentalmente ridicoli, persino grotteschi nella nostra ridicolaggine, e patetici nella nostra invincibile inutilità, tanto più quando questa assume la forma comica di un’illusoria necessità.

16. L’umanità non è altro che una miriade di minuscoli parassiti che divorano se stessi e quell’unico pianeta che garantisce loro l’esistenza.

17. L’incoscienza che permette di vivere senza porsi domande, senza assumersi delle responsabilità, susciterà su di me sempre un grande fascino, il fascino dell’impossibilità.

18. Non hai niente, ma proprio il niente è tutto.

19. Non sono all’altezza di niente e di nessuno, neppure di me stesso.

20. Ore e ore di studio, litri e litri d’inchiostro, mettendo a repentaglio postura, costituzione, complessione – e per cosa? Per ammazzare il tempo. Tutto qui, niente di più.

21. E gli uomini ogni giorno, con masochistica e insensata ostinazione, aggiungono un tassello a quell’arrugginita catena di dolore che è la loro Storia.

22. Giuro, la mano sinistra sulle Revolverate di Lucini e sulla Persuasione e la rettorica di Michelstaedter, la destra su quel che resta del cuore – il letto d’un falò -, giuro di morire incontaminato.

23. Roma… Roma non è bella; Roma è quanto di più lontano ci sia dal concetto di bellezza. Roma è un cumulo di rovine, e nient’altro, è un cimitero della storia, e nient’altro. Roma è funebre. La sua non è bellezza, ma quel macabro, necrofilo fascino cimiteriale proprio dei camposanti. E di questo fascino il cimitero del Verano, cadente, trascurato, crepato – la morte sul viale del tramonto -, è la quintessenza. Ogni volta che passeggio per Roma mi sembra di partecipare ad un funerale. Il funerale dell’umanità intera.

24. La mestizia è il mio stato d’animo naturale, quello in cui passo la stragrande maggioranza del tempo. Poi ci sono dei momenti in cui, solitamente a causa di qualcosa che accade fuori di me, la mestizia si allunga, si dilata a tal punto da diventare angoscia. In questi momenti terribili, insopportabili conosco un solo soccorso per non lasciarmi divorare dal dolore: il pensiero del suicidio. La consapevolezza di poter porre per sempre fine a questa agonia, qui e ora, mi permette di tornare a respirare, di riprendere fiato.

25. È raggelante il lamento del mondo, continuo e monotono, gravato del peso di così tanti cadaveri. Satura la terra non ne assorbe più, ma li sputa, indigesta, in superficie. E sempre più spesso questi morti rifiutati mantengono l’apparenza di vivi, un’apparenza più o meno dignitosa, ma pur sempre disgustosa. È uno spettacolo squallido quello che offre il mondo, come un film horror di serie b.

26. È qualcosa di molto simile al goethiano regno delle Madri quell’altrove al quale sono approdati gli oltre-filosofi, e nel quale mi trovo io. Né tempo né spazio, ma una solitudine cosmica, perfetta, inimmaginabile e dunque indescrivibile, disumana.

27. Ma il vivere oggi, nel famigerato nuovo millennio, un vantaggio, in fondo, lo offre: la possibilità di creare una cultura totale, la sintesi dei migliori frutti artistici nella storia del genere umano. Nell’epoca della morte della cultura e dell’arte si può creare una Cultura e un’Arte definitive. È quanto faccio da anni ormai, scrivendo di tutto, racchiudendo in me il tutto, rendendomi meno vuoto. E l’obiettivo deve essere quello di racchiudere il tutto in un libro-tutto, emblema fisico, tangibile, reale della Cultura totale e definitiva. Tutto ciò che doveva essere creato è stato creato – manca solo l’ultimo passo, la sintesi -, non abbiamo bisogno d’altro. Ormai ciò che creiamo non è altro che una mediocre riproduzione di ciò che in passato ha trovato la sua perfetta realizzazione. Tutto è compiuto, ora resta solo da porre l’ultima pietra.

28. Sarebbe molto più decoroso, molto più dignitoso non lasciare traccia di questo nostro tempo ridicolo. Attuare una forma di autocensura che salvi almeno l’apparenza.

29. Che anch’io, alla soglia dei trent’anni, con l’idea dell’ultra-nichilismo e del libro-tutto, sia finalmente approdato all’insperato, inatteso orizzonte utopico?

30. Da qualche giorno sto pensando di dare vita ad una raccolta di mancati racconti o, meglio ancora, di mancati romanzi, in cui mettere in scena la tragedia della volontà di uno scrittore, o aspirante tale, escluso, straniero nella propria epoca per le sue idee radicali. I testi si presentano frammentari, appena abbozzati, aborti di scrittura insomma. Potrebbe intitolarsi Il demiurgo dimezzato, o qualcosa di simile.

31. Mai, mai la scrittura è per me un’attività pacifica e conciliante, ma sempre un’attività carica di tensione, sofferta e faticosa. Stringo e spremo la penna con forza, come si impugna una zappa, o un piccone, o un martello. E alla fine di ogni giorno mi ritrovo esausto, senza aver fatto niente – secondo loro.

32. Spesso quella difficoltà di scrittura di cui sopra, mi induce a sospettare che questa attività non sia in me naturale, ma un’imposizione, una costrizione, una costruzione ordinata a me stesso per ritagliarmi uno spazio nel mondo. Se così fosse, allora non saprei fare proprio nulla, e anche le mie sarebbero braccia strappate alla terra. In ogni caso, che io sappia o non sappia fare, che io sia un vero o un falso scrittore, un bluff, la sostanza delle cose non cambia: per me non c’è avvenire.

33. Che siano state pagate o siano state gratuite, il risultato è sempre lo stesso: deserto ero e deserto sono rimasto. Del resto, la caratteristica principale del deserto non è forse l’inospitalità? E allora? Come potevo pretendere il contrario? O anche solo illudermi del contrario?

34. Solo un atteggiamento campaniano nei confronti del proprio paese e di tutto ciò che in esso avviene, può mantenere incontaminati. Contro tutto e contro tutti, sempre e comunque, a oltranza, fino all’ultimo istante.

35. Lo specchio mi sbatte in faccia, crudelmente, spietatamente, l’immagine di un omino: basso, magro, già calvo – ma calvo da tempo -, due occhi spenti, già stanchi, circondati da tante piccole lentiggini e da qualche timida ruga. Ciò che domina questa figura minuta, scabra e scarna, da mussulmano scampato per miracolo alla selezione – ma roso nel profondo dal rimorso per questa sua casuale salvazione -, è l’insignificanza. La figura non rende giustizia alla vastità che essa contiene; interno ed esterno sono inversamente proporzionali. Mi limito a constatare un mero dato di fatto, senza perdermi in sciocche ed inutili rimostranze. Un dato di fatto curioso, ma in fondo anch’esso insignificante, come la figura che lo ha prodotto. Come tutto il resto, del resto.

36. La letteratura è la mia patria e la mia religione. Questo mi rende indifferente a molto di ciò che accade al di fuori di essa. E quando il molto diverrà tutto avrò raggiunto l’ideale.

37. Da quando sono un ragazzino, sono condannato a vedere della vita solo le storture, le brutture, le ingiustizie. Seppure esiste la bellezza ad essa sono cieco.

38. L’ombra sinistra del Caso s’allunga sul mondo, lo avvolge. Col suo occhio cieco decreta vinti e vincitori, giustizie ed ingiustizie, in una folle giostra senza inizio né fine, dal ritmo vertiginoso e allucinante.

39. Un bagno di luce nelle strade riarse dal sole, con l’asfalto duro e fumante – insensibilmente nero – che respinge i raggi dritto in faccia all’incauto viandante, mentre rifugiati eritrei agonizzano all’ombra d’alberi miracolosamente vivi, le radici affondate lontano da qui. Un’immersione tra la moltitudine di pendolari – automi, cadaveri – taluni in avanzato stato di decomposizione – dalle movenze meccaniche, dai gesti pesanti, sferraglianti (ma il ferro è arrugginito ormai – ruggine sui volti unti provati dall’afa, dalla canicola dell’estate implacabile – il mondo uno sterminato forno crematorio). E seppure di tanto in tanto una pennellata di grazia, una macchia, passa, è insensibile e inutile come un fiore di plastica, peraltro sbiadito, su una lapide vecchia, crepata, dimenticata da dio. Infine il rifugio, tra i libri, la maggior parte dei quali meritevoli d’essere distrutti, bruciati – e con loro i loro autori -, certo, ma almeno la frescura e l’ossigeno, quando trattenere ancora il respiro stava diventando impossibile e la morte per asfissia l’esito inevitabile. E gli occhi fissi ai pochi libri buoni, l’improvviso conforto del ricordo: di quando, appena sostenuto l’ultimo esame della laurea triennale, mi regalai il Diario di uno scrittore di Dostoevskij e le Lettere alla madre di Baudelaire. Ma non è finita qui, non è finita qui. Non può finire qui. Il viaggio di ritorno su un carro bestiame pieno e fetido, e la preghiera vana al Caso che mi precipiti accanto una donna discreta.

40. Un antico uomo fuori del tempo adagiato in terra, sul marciapiede acciottolato, accaldato. Le lunghe gambe magre coperte da pantaloni verdi consunti, sporchi, dai riflessi argentei. Il busto nudo, forgiato dal sole, il calore e la consistenza della terracotta; le costole in rilievo, una ad una, i contorni precisi, scolpiti. Gli occhi intensi, affondati in un altrove a tutti noi sconosciuto, d’improvviso brillanti di sdegno per un’improvvida e idiota elemosina non richiesta – mai richiesta -, un’offesa gratuita che non può restare impunita. E allora l’uomo degli elementi si ridesta, risale velocemente l’altrove inimmaginabile, l’altrove indefinibile, riemerge in superficie nel nostro squallido qui e ora, afferra i metallici denari tintinnanti e li scaglia con rabbia contro l’incauto benefattore, che, roso dalla vergogna, non si volta, ma procede spedito – un sorriso ebete taglia di traverso il suo volto umiliato – come se niente fosse accaduto. Lo segue un corteo d’ingiurie incomprensibili, e proprio per questo ancor più dure: bestemmie contro la benpensante società che attenta alla purezza dell’uomo senza tempo, tentando invano di comprarne la gratitudine. Incorruttibile, dopo lo scatto d’ira e la rabbia schiumante, egli torna nel suo lontano e profondo altrove, fiero della propria alterità intatta, incontaminata, ancestrale.

41. Lungo le strade multiformi cariatidi sostengono le nostre depravazioni. E le nostre debolezze.

42. Niente di ciò che ho fatto ha valore. La Mediocrità mi stringe in un abbraccio mortale. E fin quando continuerò a fare, fin quando continuerò ad assecondare questo mio maledetto vizio, questa mia cattiva abitudine, vedranno la luce solo figli deformati, frutti inutili e disgustosi della mia unione depravata con la Mediocrità.

43. Sono nato insufficiente, dentro e fuori. A questa insufficienza mi sono ribellato, ho lottato contro di essa, ma l’esito era scontato: la sconfitta, la resa alla schiavitù dell’insufficienza. Piccolo nel corpo e nel cervello; non posso farci niente. E il conforto della leggerezza non è che un’apparenza: pur sempre saldo sulla terra resto.

44. La scelta più eroica e sovversiva che possa fare uno scrittore è quella del silenzio. Il silenzio è la suprema utopia letteraria.

45. Ma io qualcosa pur sono: sono la personificazione del niente.

46. Cantano le sofferenze, le inquietudini, le angosce della terra assetata, riarsa, ustionata le cicale. Il loro monotono e incessante lamento riempie l’aria immobile e perfora il cervello come un proiettile, o come una malattia mentale. Lassù, indifferente e nero, impassibile come un boia, il sole continua nella sua opera di distruzione: disgustosamente nudo.

47. L’auto, tempio mobile dell’amore, nascosta in fondo ad una via buia, dimenticata, di fronte case sfitte, abbandonate, assediate dalla vegetazione incolta, ingovernata. I finestrini appannati, verniciati d’un bianco temporaneo, liquido, sgocciolante. E dentro l’odore acre del piacere, che punge le narici e confessa quell’orgasmo femminile così spesso chimerico e goffamente simulato. Una soddisfazione piena e inattesa che cancella inquietudini ed angosce; il respiro affannato dell’animale finalmente sazio sfranto dal godimento.

48. Discendente del primo dei diseredati, Caino, pastore di lupi, il Caso mi ha condannato a sentirmi ovunque fuori posto fuori della mia fessura. Nella quale mi rintano come uno scarafaggio spaurito, il quale, emerso in superficie per necessità, slalomeggia goffamente tra i piedi degli uomini temendo d’esserne schiacciato.

49. In un colpo solo, Dostoevskij ha reso superfluo e fondamentalmente inutile l’intero romanzo ottocentesco. Come si possono leggere Stendhal, Balzac, Flaubert, Zola, Verga dopo aver letto Dostoevskij? Ancor più clamorosi i casi di Baudelaire e Kleist: salvo rare eccezioni, e penso a Leopardi, il primo ha reso superflua tutta la poesia a lui precedente, mentre Kleist, con la Pentesilea, ha reso superfluo il teatro tutto, Shakespeare compreso.

50. Divelto dal grembo materno – concepito senza considerarne il parere -, la società avvolge il neonato in un abbraccio mortale. È la prima e già definitiva morte.

51. Un uomo muore – organicamente intendo – sempre troppo tardi. Si dovrebbe morire non oltre i dieci anni. Ma ormai questa forbice si assottiglia sempre di più. Il demone della tecnologia ha iniziato a fare strage di fanciulli e non c’è rimedio. Il demone s’insinua subdolamente quale miracoloso rimedio alla benedetta irrequietezza infantile e anestetizza le piccole vittime. Con grande soddisfazione dei genitori, che non devono più sforzarsi molto.

52. La massa è stata smembrata in tante piccole unità innocue. Coloro che temono non corrono più alcun rischio. La follia di qualche disgraziato cane sciolto può forse sfiorarli, ma non abbatterli. E in questo scientifico e sistematico processo di distruzione della massa, la grande massa spaventosa, la tecnologia ha giocato un ruolo fondamentale, spingendo l’alienazione a livelli inimmaginabili, innalzandola a regola di vita. Parallelamente, ha consacrato il dominio, il trionfo dell’apparenza sulla sostanza, dunque dell’ignoranza non dico sulla conoscenza, ma sulla coscienza, che è immanentemente critica. La vera critica non esiste più, è stata uccisa; esistono solo la propaganda e la demagogia, in una condizione di campagna elettorale perpetua, quotidiana.

53. Queste mie riflessioni sparse, casuali, queste mie acrobazie filosofiche, o meglio, pseudo-filosofiche su di un fragile e sottilissimo filo sospeso sul Nulla, non sono altro che secrezioni, o, ancora peggio, escrementi cerebrali di uno scarafaggio. Perché credevo d’essere un Mefistofele, e invece mi sono scoperto semplice e disgustoso insetto sul quale il Signore del Male esercita il proprio dominio.

54. Il passato? Un interminabile corteo funebre di rimpianti, nella forma di lemuri grotteschi ciondolanti, mezzo scarnificati. Il presente? Sarei tentato di rispondere che non esiste. Sarebbe una risposta poi tanto assurda? Il presente non è altro che uno stillicidio di istanti che precipitano alle spalle dell’uomo, irrecuperabili, come le gocce di un rubinetto spanato precipitano giù nel nulla. Il futuro? Un tunnel sotterraneo – una fogna – nero e spaventoso, le tenebre fitte interrotte qua e là da qualche debole fiammella che non illumina né tanto meno riscalda: lutti e fastidi.

55. Sogno un’orgia con le meravigliose donne dell’Uomo senza qualità di Musil: la «grande e marmorea» Diotima, la «verginale ed eroica» Clarisse, l’indifferente Agathe, la ninfomane Bonadea e la nervosa Gerda. Poniamo che un giorno, rientrando nella mia tana, me le ritrovi tutte e cinque dinanzi. Cosa farei? Come mi comporterei? Mi lascerei circondare e travolgere da loro, oppure andrei dritto verso una di loro? Optando per questa seconda possibilità, quale delle cinque eleggerei mia prima amante? Una questione complessa… Tenderei ad escludere Bonadea, perché già posseduta da Ulrich e perché sovreccitata dalla sua brama sessuale, e Diotima, perché troppo maestosa e perfetta – la sua presenza potrebbe mettermi persino in soggezione -. Restano dunque Clarisse, Agathe e Gerda. Le mie parole potrebbero sorprendervi, ma sono propenso ad eleggere quest’ultima, perché i suoi nervi fragilki e la sua paura, quella paura che ha persino respinto un uomo straordinariamente attraente come Ulrich, mi ecciterebbero come il sangue eccita lo squalo. Dunque mi dirigerei a spron battuto verso Gerda, la timorosa Gerda, lasciando poi che siano le altre quattro a circondarmi mentre godo del timore della nervosetta antisemita.

56. Molto, se non addirittura tutto, si può ridurre all’opposizione tra il tra e il fra, tra gli uomini che utilizzano il tra e quelli che utilizzano il fra. Io mi schiero dalla parte del tra. Perché il tra è duro, spigoloso, petroso, dissonante e come tale più si adatta alla vita, a questa vita dura, spigolosa, petrosa, dissonante; mentre il fra è dolce, mellifluo, zuccheroso, morbido, armonioso, pacifico, conciliante, dunque sciocco come l’ottimismo, come la speranza, come la fede, come il positivismo, tutti aspetti infondati, infantili, deboli, illusori, che rivelano un’ostinazione indefessa e idiota nel voltarsi dall’altra parte e non voler vedere come stanno davvero le cose. Se fossi uno scrittore, ma uno scrittore vero, come non ce ne sono più ormai, ridurrei l’intera mia poetica a questa opposizione tra il tra e il fra.

57. Ci sono momenti in cui fatico, e non poco, a trattenere la tentazione del grido. Una tentazione che sento formarsi a poco a poco nello stomaco e poi risalire, come avessi un’acuta acidità, con la prepotenza di un’onda anomala, raggiungere la gola e premere, premere come un’ossessa per erompere fuori. Allora sudo sette camicie per trattenerla, per respingerla e ricacciarla in fondo. Qualcuno di voi si chiederà perché non ceda a questa mia tentazione, in fondo si tratta solo di un grido, mica di un ordigno. Vi rispondo subito: innanzitutto perché questa tentazione si fa viva sempre di notte, nel cuore della notte – capita addirittura che mi svegli -, e non posso certo mettermi a gridare svegliando tutta la famiglia. In secondo luogo, ho la netta sensazione che un grido di una tale profondità e intensità – è dentro di me e quindi lo conosco benissimo, lo sento – potrebbe svuotarmi di colpo di tutto ciò che mi trascino dentro. Di tutto il mio odio, soprattutto. E l’odio – verso questo mondo, verso questo uomo e verso me stesso – è l’ultimo bene che mi è rimasto. L’utopia dell’ultra-nichilismo, con la sua rassegnazione cosmica, non passa attraverso l’eliminazione dell’odio, ma attraverso il suo superamento. L’eliminazione dell’odio porta alla contaminazione certa, la sua elaborazione invece al supremo nichilismo. Pertanto ricaccio indietro il grido – come neppure Cristo sulla croce ha saputo fare – e preservo il mio odio, l’ultimo bene che mi è rimasto.

58. E venne Cristo una seconda – ultima? – volta sulla terra. Oltre che uomo si fece terrorista, giungendo alla conclusione, dopo secoli d’aerea riflessione, che la via attiva seguita da Giuda, la via militante, partigiana, rivoluzionaria fosse quella davvero giusta – del resto, durante la sua secolare riflessione gettava di tanto in tanto uno sguardo di sotto e montava dentro di lui la rabbia per la manipolazione, la politicizzazione, la rettoricizzazione insomma, del suo messaggio pacificamente anarchico -. Ricordo che una mattina di novembre lo vidi in via della Conciliazione, fermo immobile sotto la pioggia battente, osservare con sguardo torvo il Vaticano, digrignare i denti e stringere i pugni dai quali colavano a terra grosse gocce di pioggia. Nessuno lo seguì. Non lo presero, ma si uccise.

59. Sono nato in ritardo, maledettamente in ritardo. Nella mia epoca – il primo Novecento – sarei diventato davvero quel che oggi fingo d’essere e non sono – perché non posso esserlo -. Avrei vissuto della sola cosa che mi riesce – male, direte voi, e sono d’accordo, ma questa è un’altra storia -, mi sarei confrontato con dei miei simili, avrei persino trovato una donna così singolare, così originale e persuasa da amare persino uno come me – si sarebbe di certo innamorata delle mie parole, ma ne avrebbero beneficiato anche la testa e il fisico -. Ma sono nato in ritardo, colpevolmente in ritardo. E così mi ritrovo straniero, escluso in un deserto che non mi appartiene, non mi è mai appartenuto e non mi apparterrà mai, in cui ogni giorno è un compromesso.

60. E parlano, parlano, parlano… ma dalle loro bocche perpetuamente masticanti escono suoni inarticolati, insensati, vuoti. Un insignificante chiacchiericcio – da pettegolezzo tra i banchi della chiesa – è la colonna sonora di questo mondo, al quale non mi abituerò mai.

61. Domenica d’estate: centinaia di cristi orizzontali ammassati l’uno contro l’altro si lasciano cuocere a fuoco lento dal sole brutale. La spiaggia è uno sterminato barbecue, organizzato da uno spiritoso dio vegetariano.

62. Prima di parlare o di scrivere – di “comunicare” insomma, o meglio, d’illudersi di comunicare, perché della comunicazione ormai non resta che una parvenza – si dovrebbe pensare che nel novantacinque per cento dei casi, quando si apre bocca o si versa inchiostro o si preme invio, si perde una buona occasione per stare zitti.

63. Ieri sera, nella vana speranza di godere di un po’ di refrigerio dopo il caldo torrido del giorno, mi sono messo in macchina e sono sceso giù a Nettuno. Mi sono fermato nel parcheggio dietro il Santuario, sul mare. Ero solo, apparentemente. Con me c’era Carlo, bello come sempre, altissimo ed elegantissimo, atletico ed eroico. Preda di un’inconsueta vena nostalgica, mi parlava delle sue donne: Nadia Baraden ed Argia Cassini. Io mi limitavo ad ascoltare (solo una volta ho parlato, dicendogli che Argia era il nome della mia nonna paterna). Poi, verso l’una, ci ha raggiunto Dino. Si è accomodato al mio fianco. Sì, io ero tra Dino e Carlo. Già da qualche minuto Carlo aveva smesso di parlare delle sue donne; guardavamo il mare in silenzio. Dino ha portato con sé una nuova, quasi tempestosa, com’è nel suo stile, ventata di parole. Ci ha raccontato il suo viaggio in America, la vita primordiale, barbara nella Pampa. Io non gli staccavo gli occhi di dosso – domandandomi come potesse sopportare l’afa con quella sua peluria folta e bestiale -, mentre Carlo aveva lo sguardo scaraventato a terra, sulla sabbia. Ed io sapevo che sognava Senia.

64. Ha attraversato il mio campo visivo come una vela. Una veloce macchia bianca nell’impero nero della notte. Mi sono gettato al suo inseguimento, come un ossesso. L’ho raggiunta sotto ai portici del Santuario – io ho dovuto scavalcare il cancello chiuso, lei non so -, le ho afferrato la mano e le ho domandato il suo nome. – Anna Pulitzer, – mi ha risposto, dissolvendosi subito dopo nel nulla. Ecco, se fossi nato quando sarei dovuto nascere avrei goduto dell’amore di una simile creatura.

65. Conosco un solo modo per combattere il caldo torrido: rinserrarmi ermeticamente nella mia stanza, nella mia tana, la porta e la persiana chiuse a chiave. E studiare alla luce della lampada, illudendomi che fuori ci sia una tempesta.

66. Gian Pietro mi ha prestato il suo illustre revolver, che tante vittime ha fatto. Era già carico. Con una certa emozione, lo confesso, l’ho afferrato, ho preso la mira – ma ormai non ce n’è più bisogno, anche puntando a caso si punta bene – e ho sparato, ma il rinculo mi ha scaraventato a terra.
– Sei troppo leggero, – ha commentato Gian Pietro sorridendo e aiutandomi a rialzarmi.

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