Soliloquio del dolore – Appendice – Nel vuoto. Ultima lettera a Lei

È caduta, perché troppo orgogliosa e forte fioriva! La quercia morta resiste alla bufera, ma quella sana ne è schiantata e travolta, perché la tempesta può afferrarla per le fronde.

Heinrich von Kleist, «Pentesilea»

1. Amore mio, lo so, non ho alcun diritto di chiamarti, o meglio, di invocarti con questo appellativo, ma saprai perdonare un uomo vittima di quel delirio impotente dell’amore che non conosce cura, almeno non nelle nature smisurate come me. Inoltre non credo sia mai esistito, né esisterà mai, un uomo capace di amarti come io ti ho amata, di un amore totale, assoluto, mistico, così potente e al tempo stesso rispettoso, sacro, così profondo, totalizzante come una fede e al tempo stesso consapevole dei propri limiti, da rifare il mondo intero, e rifarlo bene, come richiederebbe la dignità umana, sistematicamente calpestata, violentata dalla cieca ferocia della storia. Puoi comprendermi? Non so, ma in fondo cosa importa, dato che, con ogni probabilità, mai più mi leggerai? Eppure, sai, potrei scrivere di Te per tutta la vita, amore mio. Se dovessi infrangere la mia promessa di silenzio, la mia promessa di feroce coerenza alla disperazione, è di Te che parlerei, sempre. Sotto le svariate forme della scrittura, saresti sempre Tu, Tu sola la sostanza, come R. è la sostanza di ogni singolo gesto, di ogni singola rinuncia della Sconosciuta di Zweig [218] (sarei curioso di sapere cosa ne pensi di questo racconto, che tanto mi ricorda noi, come giudicheresti la protagonista – severamente, forse, conoscendoti).

2. Amore mio, negli ultimi quattro mesi e mezzo, dal giorno del nostro primo e ultimo incontro a oggi, ho vissuto l’esperienza emotivamente più estrema, violenta e sconvolgente della mia vita. Ho vissuto il mio inferno. Cosa potrebbe esserci di peggiore per me? Per me che nulla possiedo, per me che, dopo mesi e mesi d’incoscienza, mi sono risvegliato nel vuoto: non c’è più niente intorno a me, non c’è più niente dentro di me, tranne Te, che ti aggiri come uno spettro spaventosamente reale, tangibile. Cosa resta di me, di noi, della nostra corrispondenza, del nostro legame in Te, amore mio, nella tua vita che procede spedita anche senza di me? Mi avrai già dimenticato e in fondo è giusto così. Se il mio ricordo fosse ancora vivo in Te, come il tuo ricordo è vivo in me, come potresti andare avanti? Sono precipitato nell’oblio della tua memoria, sepolto nel cimitero delle tue conoscenze superate e chissà se un giorno… Ma che importanza ha, se tutto è ormai finito? Sono rimasto solo a pensare a noi, a ricordare il nostro rapporto e a rimpiangerlo, come un asceta che si ritiri nel deserto a piangere la morte di Dio. Non te ne faccio una colpa, amore mio, sia chiaro; credo davvero che sia giusto così: il ricordo e il rimpianto sono lussi che solamente il solitario, l’irresponsabile può permettersi. Tu sola non lo sei, e sei immersa nel mare tumultuoso della vita. Così, anche se lo volessi, non potrei chiedere aiuto all’unica persona capace di darmelo. Come non ho alcun diritto di chiamarti amore, non ho alcun diritto di domandarti soccorso. Mi trovo nella stessa condizione di Kleist alla fine dei suoi giorni: non c’è soccorso per me su questa povera terra [219].

3. Sì, amore mio, negli ultimi quattro mesi e mezzo, mentre Tu lavoravi come una forsennata, crescevi la tua bambina (deve aver iniziato l’asilo da qualche settimana, spero che si trovi bene, che le piaccia!), andavi in vacanza con la tua famiglia, io, immerso nel buio innaturale della mia camera, curvo sulla scrivania, vivevo il mio inferno, di cui questo lungo, inutile, forse delirante Soliloquio non è che un pallido riflesso, una traccia parziale e incompleta: per quanto un uomo si sforzi di esprimere il proprio dolore, di renderlo comprensibile e comunicarlo, il dolore resta inesprimibile, come ogni altro sentimento profondo e autentico del resto. Del dolore e della gioia, dell’odio e dell’amore le parole non possono descrivere che frammenti, grazie ai quali farsi un’idea approssimativa e niente di più: l’essenza resta celata e inaccessibile. Solamente chi soffre e gioisce, chi odia e ama sa. Nessuno, forse, lo sa meglio di me, che nella mia vita ho avuto a disposizione solo parole, e non sono mai bastate. Se ci fossimo incontrati per tempo, sarebbe bastato uno sguardo: al primo sguardo avremmo capito tutto. Ma il nostro incontro è avvenuto troppo tardi, amore mio, quasi nostro malgrado, e Tu non mi hai riconosciuto. Avrei dovuto spendere migliaia di parole e di sguardi per farmi riconoscere, ma non ne ho avuto il tempo. Tu ormai eri altrove, lontanissima da me, irraggiungibile. Non tornerai indietro, lo so, resterai lì, nella tua lontananza, lucente stella che non brilla più per me.

4. Del mio inferno, amore mio, resta solamente un moto interiore, che di tanto in tanto risale dallo stomaco ed erompe fuori, appena abbozzato, un pianto represso, smorzato che ha l’apparenza di un riso trattenuto. Il mio sforzo di contenere le lacrime le muta nel loro opposto: solamente così riesco a ridere del mio dolore.
Se leggessi queste pagine, amore mio, le troveresti eccessive, esagerate, lo so, lo immagino. Troveresti la mia reazione smodata, esasperata ed esasperante, ma, lo sai, non sono un uomo comune, un uomo normale, un uomo come tutti gli altri, tiepido, mediocre: la dismisura è la mia cifra e la mia condanna. Per questo motivo, d’ora in avanti, sarà mia cura, quasi una missione, qualora ce ne fosse bisogno, evitare relazioni che possano implicare coinvolgimenti emotivi: non mi spingerò più oltre l’interesse immediato, superficiale – sono vecchio abbastanza, ho amato e sofferto abbastanza.
Non credere che la mia reazione, che il mio dolore e il mio inferno non abbiano sorpreso anche me, amore mio – credevo di essere già morto. Sai, se non ci fossimo incontrati (e il momento giusto per il nostro incontro era forse tramontato da un pezzo), il nostro rapporto, relegato esclusivamente alla forma epistolare, si sarebbe esaurito naturalmente, silenziosamente, senza addii e non avrei provato questo dolore travolgente, schiacciante, annichilente, ma un dolore sottile e distratto, molto simile al dispiacere. Vederti mi ha sconvolto. Riconoscendoti da lontano, avvicinandomi a Te, guardandoti, parlandoti, abbracciandoti, tenendoti la mano ho capito tutto, amore mio, tutto ciò che, fino a quel momento, avevo con attenzione nascosto a me stesso, per non lasciarmi travolgere, per non lasciarmi distruggere dal mio amore impossibile e disperato per Te. In Te, senza rendermene conto (Dio, non mi è mai stata così chiara l’imperscrutabile potenza dell’inconscio!), avevo concentrato il mio desiderio inesausto di unità, completezza e durata, quel desiderio proprio di ogni uomo, certo, ma ancor più urgente e radicato nelle nature lacerate, dilaniate come me. Spesso i pensieri più terribili e distruttivi nascono dall’impossibilità di appagare questo desiderio (Ivan Karamazov ne è un chiaro esempio) e forse è anche il mio caso. Quel giorno, riconoscendoti al primo sguardo, da lontano, di colpo ho preso coscienza dell’importanza che avevi assunto nella mia vita, amore mio, e ho sentito dentro di me una forza, un amore mai provati prima. È stato difficile dover rinunciare a tutto questo, anche perché ho avuto appena il tempo di sfiorarlo con la punta delle dita. Sei sempre stata importante, amore mio, sin dalla tua prima lettera, ma, incontrandoti, ho capito quanto fossi diventata necessaria, come nessun’altra persona prima d’ora. Perderti è stato come perdere un organo vitale, che nessuno mi ridarà mai. Sei stata la promessa di una vita alternativa, amore mio, migliore di quella che mi è toccata in sorte, irrealizzabile, certo, ma possibile. Come tutti gli uomini senza qualità, esclusi da un mondo che non sa che farsene di loro (ma il rifiuto è reciproco), troppo profondi, troppo autentici, troppo uomini in definitiva, ho un senso della possibilità particolarmente sviluppato, con il quale sopperisco alle mancanze della realtà. Privo anche di questo conforto, non mi resta più alcun appiglio e precipito nel vuoto. Eri Tu il mio appiglio, amore mio; grazie a Te, alla tua presenza nella mia vita avevo trovato un nuovo equilibrio, sgretolatosi di colpo. Negli ultimi mesi mi è mancata la terra sotto i piedi, sono caduto in una voragine senza fine, nel punto più buio, freddo, profondo, ostile del mondo e non c’è possibilità di risalire, di rivedere la luce, di ritrovare il calore, l’aria pura della superficie e la pace. Sono diventato io stesso questo punto, questo luogo inconcepibile e inesprimibile.
Lo sai, amore mio, oscillo senza posa tra estremi e se il giorno del nostro primo e ultimo incontro è stato il più terribile della mia vita, è soltanto perché è stato anche il più felice.

5. Amore mio, ora puoi capire perché nutrissi tanti dubbi sul nostro incontro. Volevo evitare tutto questo, volevo evitare che il mio demone più terribile, il demone dell’impossibilità, del «tu non puoi», del «a te non è concesso», si incarnasse in Te, assumesse le tue sembianze. Ma è avvenuto proprio questo e in pochi istanti il sogno si è rovesciato nell’incubo. Mi hai scritto spesso che la nostra conoscenza non era casuale, non poteva esserlo, che sarebbe bastata una piccolissima variazione degli eventi perché non avvenisse. Probabilmente è vero: la vita doveva darmi un’ultima, definitiva, inconfutabile prova del mio destino di solitudine e disperazione. Se non sono stato capace di mantenere vivo neppure un legame come il nostro, così intimo e profondo, allora significa che per me non c’è proprio speranza, non c’è scampo a questa condizione di vuoto troppo simile al nulla che ci attende dopo la morte. Quale altra donna potrebbe scrivermi le parole che Tu mi hai scritto, amore mio? E come potrei accontentarmi di meno? Tu sei il vertice, lo zenit e non potrei mai accontentarmi di qualcosa di più basso e meno luminoso.
Grazie a Te, amore mio, ho capito che, per quanto forte e consapevole, un pensiero non può nulla contro il cuore, contro un uomo che vuole amare. Ma a me non è concesso amarti, se non da lontano e in silenzio, di un amore distante, assente, disperato, sterile e torturante, di un amore avvilente e rassegnato, privo dell’ardore della lotta, della passione del contatto, dell’accordo. Un amore morto, in sostanza, che solo può accordarsi ai morti come me – a volte ho l’impressione di non essere neppure mai nato, di essere lo scherzo di cattivo gusto di un creatore spietato che prova piacere a sbeffeggiare la dignità umana.

6. Questa mattina, amore mio, sono andato a Roma, con l’intenzione di fare una sorta di pellegrinaggio del dolore. Volevo tornare a San Pietro in Montorio, per la prima volta da quel giorno, passare ore e ore nel luogo del nostro incontro e scriverti da lì quest’ultima lettera.
Alla stazione Termini, mentre mi dirigevo verso la metro, mi sono fermato di colpo, come se i miei piedi si fossero improvvisamente incollati al suolo. Non potevo muovermi, una forza invincibile mi bloccava in quel punto: il punto in cui, quel giorno, il nostro giorno, ci salutammo, dicendoci, di fatto, addio per sempre. In quel momento, tutto ciò che mi circondava, persone e cose, rumori, suoni e voci, è svanito e mi sono ritrovato immerso nel buio, solo con Te e con il mio dolore. Senza vista né udito, non so per quanto tempo sono rimasto lì, fermo in quel punto, incapace di vedere e sentire altro all’infuori della tua immagine e della voce terribile del mio dolore. Credevo di non potermi muovere più, di essere condannato a restare pietrificato per sempre in quel punto, quando all’improvviso sono stato urtato da un passante e quel contatto fortuito mi ha riportato alla realtà. Così sono tornato a vedere ciò che mi circondava, le persone, i negozi, a sentire i suoni che si rincorrevano intorno a me, le voci confuse, spezzate, gli annunci impersonali, i passi più o meno affrettati, più o meno pesanti dei passeggeri, e ho sentito erompere dentro di me una sorta di furore, un desiderio smodato e irrefrenabile di cercarti, di trovarti. Ho iniziato a correre di qua e di là, come un pazzo, scrutando i volti di ogni donna, fin quando mi sembrò di riconoscerti, in una giovane con la tua stessa corporatura, con i tuoi stessi capelli neri, con gli occhiali grandi e tondi come i tuoi. Con il cuore impazzito, mi avvicinai alla giovane e proprio quando stavo per rivolgerle la parola, in preda all’esaltazione e al terrore, ecco che qualcuno, vicino a lei, la chiamò per nome: Giulietta. Non eri Tu. Deluso ed esausto, dopo aver pensato, per un attimo, di salire sul primo treno per Milano, mi sono lasciato cadere a terra. Non avevo la forza di muovermi, di raggiungere la mia meta e neppure di tornare a casa.
Ho passato tutto il giorno lì, amore mio, fermo in quel punto, come uno dei tanti vagabondi che affollano la stazione, senza bere, senza mangiare, senza fumare, in balia del vuoto. Ammazzare il tempo: è questa la vita che vedevo scorrere, insensata e indifferente, davanti ai miei occhi stanchi.
Ho trovato la forza di alzarmi solamente nel tardo pomeriggio, alle porte della sera, dopo essere stato risvegliato dal mio torpore nel vuoto, da due poliziotti che mi hanno chiesto i documenti. Sul treno di ritorno sono precipitato in un sonno inquieto e pieno di incubi: il sonno del reduce tormentato anche nell’incoscienza dai suoi demoni. Ora è notte fonda, ma non ho sonno e tento di riempire il vuoto scrivendoti, amore mio. Se quei poliziotti non mi avessero svegliato sarei ancora lì, seduto a terra, senza una casa, senza una vita, senza un passato, senza una storia, senza un nome, invisibile come i tanti vagabondi che affollano la stazione Termini, facendone la loro tomba.

7. Amore mio, la vita richiede necessariamente un atto di fede. Tu hai fede in te stessa, nella tua volontà, nelle tue capacità, nell’amore, nella maternità, nella famiglia. Anch’io ho avuto fede, altrimenti non sarei qui ora. Ho avuto fede nella letteratura, nella scrittura, nell’amore. Leggere, scrivere, amare è stato il mio modo di dire sì alla vita, anche quando pronunciavo distruttivi, apocalittici no. Non mi è mai stato chiaro come in questo momento. Vivere è dire sì, continuamente, quotidianamente, ma ora che ho perduto ogni fede, come potrei vivere? In nome di che cosa potrei pronunciare il mio sì alla vita? Per questo motivo devo trascendere, ma è forse umanamente possibile una trascendenza come la mia, nel vuoto? Non lo so… Temo di no. Potrei continuare a pronunciare i miei quotidiani sì nel nome della resistenza, della memoria attiva, della lettura e della scrittura, trovando una nuova forza e un nuovo slancio nella consapevolezza definitiva di non poter amare, che mi permetterebbe di concentrarmi solo ed esclusivamente sulla mia missione di letterato, di guardiano della coscienza e della ricchezza di spirito, ma sono stanco, amore mio. Stanco di fallire e di scrivere solamente per me stesso, stanco di resistere, ricordare e tramandare. Ogni attività umana ha bisogno almeno di una parvenza di senso per essere compiuta, ogni attività umana è una lotta per il significato e non ha alcuna importanza se il significato non esiste e non può esistere. Anch’io, per quanto predicassi con ostinazione l’insensatezza della vita, in tutti questi anni ho lottato per dare un senso alla mia vita, trovandolo alla fine in Te. Tu, amore mio, mi hai legittimato e giustificato, ogni tua singola lettera era un attestato di sensatezza, un certificato di nascita. Ma Tu non ci sei più e con Te è svanito il mio modesto senso individuale – te lo sei portato via salendo sul treno per Milano quel giorno. Così, ancora una volta, l’ennesima – l’ultima – mi ritrovo a dover scegliere tra il Tutto e il Niente. Ora che, oltre alla vita in generale, neanche la mia vita particolare ha più un significato, il silenzio è l’unica possibilità di coerenza che mi resta: «Ogni filosofia della non-significanza vive sulla contraddizione per il fatto stesso d’esprimersi. Essa dà con ciò un minimo di coerenza all’incoerenza, introduce un rapporto di conseguenza in quello che, a darle retta, è privo di connessione. Parlare ripara. Il solo atteggiamento coerente fondato sulla non-significanza sarebbe il silenzio» [220].
Dalla mia capacità di esprimermi, di dare voce al mio dolore ho ottenuto ciò che desideravo di più: Tu, amore mio, la tua attenzione, la tua cura, la tua stima, il tuo affetto, il tuo breve amore. Ora che tutto questo non c’è più, non avrebbe alcun senso per me continuare a esprimermi. Da quando sono un adolescente vivo scrivendo; ora è giunto il momento di tacere, di spingere la mia feroce coerenza al suo limite estremo. Solamente nel silenzio posso trascendere, emanciparmi dalla vita e morire con piena consapevolezza, senza rimpianti – o quantomeno provarci.

8. Sarebbe stato bello amarti. Sarebbe stato bello incontrarti potendo sperare in un finale diverso, avendo la possibilità di abbracciarti senza la paura di perderti. Sarebbe stato bello poterti baciare, toglierti gli occhiali, guardarti dritto negli occhi e dirti: «Ti amo come non credevo si potesse amare una creatura umana». Sarebbe stato bello conoscerti interamente: conoscere la Te bambina, la Te adolescente, la Te figlia, la Te madre, la Te sportiva, la Te frivola, la Te cupa. Mi hai riservato la tua parte più luminosa, ma non mi è mai bastata, amore mio (troppo spesso la fiducia viene scambiata per idealizzazione). Sarebbe stato bello viverti, portarti al mare, poter contare su di Te, instaurare un dialogo e un confronto quotidiani. Solo Tu, amore mio, avresti potuto convincermi che, nonostante tutto, vale la pena vivere. Solo Tu avresti potuto insegnarmi ad avere fiducia nell’umanità, in me stesso e nei rapporti umani. Solo Tu avresti potuto rivelarmi il grande segreto dell’amore. Con Te, amore mio, avrei dato spazio alla mia parte più giocosa, leggera, effimera, sorridente e spensierata (ti assicuro che anche in mia compagnia si può ridere, ci si può distrarre). Ma niente di tutto questo sarà mai ed è inutile continuare a rimuginarci sopra. Perdonami, è il mio sentimento di giustizia offeso dal caso a farmi straparlare.
«Una parte di me sarà per sempre tua, tua solamente». Che valore hanno, o meglio, che significato hanno ora queste tue parole, un anno e mezzo dopo essere state scritte, amore mio? L’impossibilità di rispondere a questa domanda mi tortura ogni sacrosanto giorno. Solamente l’amore guarisce l’amore. Solamente un amore nuovo permette di superare il dolore causato dalla fine dell’amore precedente, perché cancella domande terribili come questa, permettendo di voltare pagina. Ma io, che non posso amare, non posso dimenticare simili quesiti, che si sono impressi a fuoco dentro di me e mi tormenteranno fino alla fine dei miei giorni.

9. Amore mio, vorrei pregarti di non dimenticarmi, di ricordarti di me, del nostro legame, quanto sia stato grande, profondo e importante per te, per noi, ma so che non è possibile. Come non è possibile che io viva del tuo ricordo, di ciò che è stato e che poteva essere, ma che non sarà mai, mio – almeno per un momento nostro – malgrado. Sarebbe una conclusione romanzesca, ideale, astratta, come lo è la conclusione del Soliloquio. Potrei distruggere davvero la nostra corrispondenza, ma a cosa servirebbe? Anche senza le tue lettere continuerei ad amarti e a pensare a Te ogni singolo giorno, come avviene da due anni a questa parte ormai, da quando ci siamo conosciuti. Continuerei a domandarmi come stai, come sta la tua bambina, com’è andata la tua giornata, cosa fai, a cosa pensi, cosa sogni, a quali nuovi progetti lavori. Continuerei a vederti, a parlarti e a ricordarti quanto sei bella e importante. Ogni 14 marzo festeggerei il tuo compleanno, augurandoti di ricevere i regali che più desideri. Se anche distruggessi la nostra corrispondenza, cancellandoti formalmente dalla mia vita, la sostanza della mia vita resteresti Tu, amore mio. La fine della nostra storia è una ferita che non smetterà mai di sanguinare e già so che il tuo nome sarà la mia ultima parola prima di morire. Se tutti i miei desideri di un tempo si avverassero, se tra le mani mi capitasse una fortuna enorme e insperata, il mio stato d’animo non muterebbe di una virgola, perché mancheresti Tu, Tu che sola avresti potuto essere la mia ragione di vita.
La stessa cosa vale per i miei poveri testi. Potrei davvero distruggerli, ora che, senza di Te, non hanno più alcuna ragione di esistere, ma la distruzione non cambierebbe nulla, non cancellerebbe il marchio infame del fallimento e non curerebbe l’insoddisfazione, la rabbia, l’odio, il senso di colpa causati dall’incapacità di mostrarmi all’altezza delle mie ambizioni. Solamente nel caso estremo e irreversibile della morte la distruzione rappresenta una soluzione. Distruggere i ricordi non è che un palliativo, un sollievo temporaneo ed effimero, fine a se stesso. Chiunque uccida Dio lo sostituisce con qualcos’altro, spesso con se stesso, è inevitabile, è la vita stessa a imporlo. Chiunque calpesti questa povera terra dimagrata ha in sé una fede, consapevolmente o meno, nel godimento bestiale al livello più basso, nella salvezza del genere umano al livello più alto. Io, tra le altre cose, avevo fede in Te, amore mio, in noi, nel nostro legame predestinato. Mai avrei rinunciato a te, a noi, in nessun caso, ma l’ho capito troppo tardi, come mio solito (la nostra storia è l’ennesima conferma della mia inguaribile postumità), quando Tu non c’eri più. Nella mia vita ho sbagliato molto, amore mio, ma l’errore più grande l’ho commesso con Te, dandoti per scontata, arrendendomi al mio destino senza tentare di sovvertirlo. Avrei dovuto essere meno letterario, meno astratto, meno assoluto; avrei dovuto aprirmi di più quando avevo l’occasione di farlo: non mi sono lasciato andare per non farmi schiacciare dal mio amore impossibile e disperato per Te, ma non è servito a niente, ogni precauzione si è rivelata vana e io sono andato in frantumi lo stesso, sprofondando nel dolore come mai prima.
Resta fedele a Te stessa, amore mio, mantieni intatta e alimenta la fiducia in Te, nel tuo io spirituale, sempre. Perché Tu vai bene, amore mio, te lo dice un uomo che ti ha guardata come nessun altro prima e non solo ti ha guardata, ma vista. Non smettere mai di leggere, di porti domande, di cercare le tue verità, per nessuna ragione. Non perdere la fede nell’umanità, mai. Trasmetti questa fede alla tua bambina, regalale tanti bei ricordi, nei quali possa trovare conforto quando sarà grande, nei momenti bui. Aiutala a comprendere, apprezzare e gestire la sua sensibilità, a farne la sua forza. Fidati di lei, sempre, io veglierò da lontano e silenziosamente su di voi, fin quando avrò la forza di resistere. Eccoti il mio testamento, amore mio, Per Te, per voi, splendide creature che ho avuto la fortuna di sfiorare.
Vorrei pregarti, amore mio, di non dimenticare mai che al mondo esiste un uomo che ti ama più di ogni altra cosa e che sarebbe disposto a tutto per renderti felice, ma so che non servirebbe a niente. Cosa resta di noi, della nostra storia? Una corrispondenza che nessuno di noi due, probabilmente, rileggerà mai. Nella tua vita, amore mio, sono stato soltanto un intruso, un parassita, è questa la triste verità, e se leggessi ora queste parole così stupide e ridicole, così svenevoli, ti scivolerebbero addosso senza neppure sfiorarti.

10. Non resta neanche più il dolore, amore mio. Solamente il vuoto, un vuoto immenso, cosmico, che si spalanca dentro e fuori di me, inghiottendo tutto. Un vuoto che ammutolisce e assorda, che strappa le palpebre ed è ovunque, nella veglia e nel sonno. Non ho più volontà, non so più che cosa significhi: io voglio. Potrei sedermi in un angolo della mia camera e attendere la fine, senza muovere un dito. Potrei lasciarmi morire di sete e di fame, senza sentire niente, senza ribellarmi. Credo che sia giunto il mio momento giusto per morire, ma non c’è fretta, perché questo momento, d’ora in avanti, durerà per sempre: vivo in una sola dimensione temporale, che è quella della mia morte, senza più un passato, senza più un futuro, freddo e profondo come nient’altro su questa povera terra.
Fuori albeggia, ma non è per me questo nuovo sole che sorge. È per Te, amore mio, per Te e per la tua bambina. Consideralo il mio ultimo dono, prima di sprofondare per sempre nel buio.

P.S. Amore mio, ti ho attesa per tutta la vita, e ancor prima di conoscerti mi eri cara. Ero ancora un adolescente quando, per la prima volta, mi sei apparsa in sogno. Già conoscevo il tuo sguardo e la tua voce, il tuo spirito e il tuo cuore. Sono rimasto sempre fedele a quel sogno, rifugio e conforto, e quando sei entrata in carne e ossa nella mia vita, con quella tua prima, miracolosa lettera, ti ho riconosciuta subito e mi sono detto: eccola, è Lei. Non sbagliavo. Tu eri, Tu sei – e in questo presente eterno è il senso più profondo della mia tragedia – Lei.
Amore mio, l’amore non basta. Oltre all’amore è necessaria la fede, per questo motivo Tat’jana respinge Onegin: lo ama più di ogni altra cosa, più della sua stessa vita, ma non ha fede in lui. Io ho avuto fede in Te dal primo momento…
…E ora addio, amore mio, e se per sempre, per sempre addio, amore mio [221]. Con Te perdo tutto, anche ciò che non ho mai avuto.

NOTE

[218] Stefan Zweig, Lettera di una sconosciuta.

[219] Kleist alla sorella Ulrike nella lettera del 21 novembre 1811, giorno della sua morte: «[…] in realtà tu hai fatto per me, al fine di salvarmi, non dico quanto stava nelle forze di una sorella, ma nelle forze di una creatura umana; ma, in verità, per me non esisteva possibilità di soccorso su questa terra» (in Heinrich von Kleist, Lettere alla fidanzata, a cura di Ervino Pocar, SE, Milano 1985, p. 288).

[220] Albert Camus, L’uomo in rivolta, cit., pp. 10-11.

[221] «Fare thee well, and if for ever / Still for ever fare thee well»: versi di Byron posti da Puškin in epigrafe all’ottavo, ultimo capitolo dell’Evgenij Onegin.

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