Soliloquio del dolore – 8

«Cominciare a pensare è cominciare a essere minati» [40], scrive Camus. Con la mia riflessione sovrasviluppata ho distrutto tutto, me stesso e il mondo intero. Sono stato un vero e proprio terrorista del pensiero, niente ha resistito ai miei ordigni. Attorno a me vedo una sterminata distesa di macerie. Distrutte le verità convenzionali, prefabbricate, che permettono alla società di perpetuarsi, mi sono ricostruito da zero, pezzo per pezzo, cercando ed elaborando nuove verità, le mie verità, in una direzione opposta rispetto a quella dell’umanità. Mentre l’umanità si sviluppa verso l’alto, erge grattacieli immensi e orribili, inutili torri di Babele di cemento, vetro e ferro, ed esplora lo spazio, io non ho fatto altro che scavare. Mi sono sviluppato verso il basso, in profondità, fino a raggiungere il fondo dell’uomo. È nel centro della terra che l’uomo trova le sue verità, nelle caverne, nelle gole, nelle fosse marine, nei crateri, non in cielo, specchio vuoto. Forse sono sceso ancora più in basso del sottosuolo, laddove dominano le tenebre più fitte, che nessuna luce può rischiarare. Sono giunto all’abisso ed è proprio da questo abisso che vi ho sempre parlato.
Come ho già scritto, io non so stare senza riflettere, senza pormi domande ed elaborare pensieri e teorie. Non so accettare passivamente ciò che mi si presenta davanti agli occhi. Io sono sempre presente a me stesso e non so accontentarmi delle vostre spiegazioni preconfezionate e passare oltre. Un uomo si uccide: era depresso; un uomo assassina la moglie: era geloso; un uomo ruba le ceneri di una ragazza: è pazzo, va rinchiuso in manicomio; un uomo a trent’anni vive ancora con i genitori, non ha un lavoro, non ha una donna: è un bamboccione, uno sfaccendato, un fallito. È facile così, troppo facile. Tutto ciò che avviene, per essere compreso, va ricondotto a un contesto psicologico ed esistenziale. Ma a voi cosa importa comprendere? Della tragedia avete fatto una forma d’intrattenimento, e questo dice tutto.
Io non sono una buona compagnia, perché costringo gli altri a fare i conti con se stessi, con il lato più profondo, oscuro e inquietante dell’esistenza. La stessa cosa vale per i miei testi: costringono con forza a riflettere, a minare se stessi e il mondo. Per questo motivo non c’è posto per loro e non c’è posto per me. Solamente silenzio e solitudine. Lei mi ha abbandonato anche per questa ragione: la nostra corrispondenza e il nostro rapporto le risultavano troppo impegnativi ormai. Io con Lei avrei potuto essere altro, avrei potuto trovare quella leggerezza, quella spensieratezza di cui ho avuto sempre un disperato bisogno.
La nostra storia è l’emblema del mio destino di solitudine, di disperazione, di esclusione, di impossibilità. Non solo non ho mai potuto sperare di conquistare il suo amore, impedito dalle circostanze, non ho neppure mai potuto sperare di vederla, di parlare con Lei, di viverla se non per brevi istanti. È straziante, credetemi, sapere che al mondo esiste, è , in una determinata zona, facilmente raggiungibile, una creatura umana alla quale ti lega una profonda affinità spirituale, quella creatura che hai sempre sognato e cercato ovunque, che saprebbe comprenderti e amarti come nessun’altra, e non poterla avere al tuo fianco, non poterla amare, non poterla chiamare e chiederle semplicemente come stai, non poterla vivere, perché il caso, nella sua invincibile e crudele imperscrutabilità, ha deciso diversamente. Non mi sono mai sentito così insignificante e impotente come ora. Vorrei salire sul primo treno e raggiungerla, presentarmi da Lei, ma il caso ha imposto tra di noi una distanza insuperabile che distorce il cuore, scherma il sentimento, e se assecondassi questo impulso, se la raggiungessi e mi presentassi da Lei, non farei che spaventarla, rischiando persino di cancellare il ricordo positivo che forse ancora conserva di me e della nostra storia. Io so, lo sento che dentro di Lei, in un angolo remoto del suo cuore il nostro rapporto è ancora vivo – non potrebbe essere altrimenti -, ma non posso fare niente perché Lei lo riconosca, lo accetti e questa impossibilità mi consuma.
Forse, ancor più che nello studio e nella scrittura, è nell’amore che ho riposto le maggiori aspettative. Perché l’amore mi avrebbe permesso di giungere a una sintesi tra la mia natura, il mio pensiero e la vita, la realtà. Mi avrebbe inoltre permesso di assorbire con maggiore facilità, con maggiore filosofia i traumi derivanti dagli insuccessi, dalle delusioni. Solamente l’amore avrebbe potuto salvarmi, perché solamente l’amore può salvare gli uomini estremi, radicali come me, l’unico rimedio alla malattia della consapevolezza. In questo senso, sono molti gli esempi nella letteratura e nella filosofia. Tutte le tragiche vicende di personaggi, autori e pensatori estremi sono drammi della solitudine: Werther, Faust, Ortis, Pentesilea, Bazarov, Leverkühn e poi tutti i grandi personaggi radicali di Dostoevskij, l’uomo del sottosuolo, il giocatore, Raskol’nikov, Kirillov, Stavrogin, Ivan Karamazov; Kleist, Mainländer, Nietzsche, Weininger, Michelstaedter.
La solitudine, quando diviene condizione esistenziale, porta l’uomo a isolarsi, a rinchiudersi in se stesso ed erigere una barriera tra sé e il mondo, e alimenta a dismisura la riflessione, il cui potenziale distruttivo raggiunge un’intensità straordinaria, tale da radere al suolo tutto, come un devastante terremoto, se stessi compresi. La mia storia è già stata scritta decine di volte, nei romanzi, nei drammi, nelle vite che ho appena ricordato, ed è stato forse umano, ma inutile da parte mia anche solo immaginare di poter scrivere una storia diversa.
Tra i personaggi e gli autori sopracitati, ce n’è uno che ce l’ha fatta, Raskol’nikov, grazie all’amore di Sonja. Io ho sempre cercato la Sonja che mi salvasse, che condividesse con me il peso dell’esistenza e mi rendesse la vita meno amara, meno faticosa, che curasse la mia malattia della consapevolezza, mostrandomi quello di buono che ancora resiste nel mondo. Chissà, grazie alla mia Sonja avrei persino trovato la fede! Ma non esiste nessuna Sonja per me e forse è stato sciocco cercarla. Lei avrebbe potuto esserlo, e in parte lo è stata, in parte ha esaudito il mio sconfinato desiderio di felicità, di amore, di appartenenza, ma tutto alla fine si è sgretolato, come sempre, e io del mio destino di solitudine, di disperazione, di esclusione, di impossibilità sono costretto, ancora una volta, a fare la mia forza. Non è semplice, credetemi, soprattutto dopo quest’ultimo «boccone di vita» così indigesto, e ci sono momenti in cui mi sento come un monaco senza la fede in Dio.
Tra i casi letterari che ho citato, uno dei più emblematici è senza dubbio quello di Bazarov, il primo nichilista della storia della letteratura, protagonista di Padri e figli di Turgenev. Giovane medico, Bazarov «non s’inchina davanti a nessuna autorità», «non accetta nessun principio come fede, di qualunque rispetto questo principio sia circondato» [41] (è questa la sua definizione del nichilista). Egli è un uomo-contro, un ribelle del pensiero, che nega, ostenta noncuranza e disprezzo per le convenzioni sociali e le ideologie politiche, religiose, poetiche e filosofiche dei padri. Per Bazarov, caustico, beffardo e offensivo, un «buon chimico è venti volte più utile di qualunque poeta» [42] e la natura «non è un tempio, ma un’officina e l’uomo è in essa un operaio» [43]. Uno dei bersagli privilegiati del giovane medico, che percepisce tutta la propria «nullità» e per questo non sente che «noia e rabbia», è l’amore, contro il quale si scaglia con veemenza:

[…] un uomo il quale ha giocato tutta la sua vita sulla carta dell’amore femminile e, perduta questa carta, si è infiacchito e lasciato andare al punto di non essere più capace di nulla, una persona simile non è un uomo, non è un maschio. […]
Ognuno deve educare se stesso; come me, per esempio… Quanto ai tempi, perché dovrei dipendere dai tempi? Dipendano essi piuttosto da me. No, caro, tutto questo è libertinaggio e vacuità. E cosa sono queste misteriose relazioni tra l’uomo e la donna? Noi, fisiologi, sappiamo che relazioni sono. Studia un po’ l’anatomia dell’occhio: di dove può venire lo sguardo enigmatico, come tu dici? Tutto questo è romanticismo, puerilità, roba muffita, artificio [44].

Ma Bazarov conosce l’avvenente Odincova, donna tra l’altro asettica, e qualcosa dentro di lui si spezza per sempre. Anche il giovane medico è vittima del misterioso scandalo dell’amore, e il disprezzo che nutre verso se stesso per essersi scoperto così umano e debole, così vulnerabile alle necessità del cuore, lo rode fino all’ultimo dei suoi pochi giorni. Per quanto possa essere sviluppato in un uomo il sentimento del nulla, per quanto egli possa essere consapevole dell’insensatezza della vita e della vanità del tutto, l’amore troverà sempre un varco e finirà per mettere in discussione tutto, per crepare l’intero edificio, incrinando anche le certezze più radicate. Nell’uomo estremo l’amore ha la stessa forza corrosiva, sovversiva, distruttiva che la sua riflessione sovrasviluppata ha nei confronti del mondo consegnatogli dai padri e delle sue verità convenzionali, prefabbricate. Non credevo che ciò fosse possibile, lo confesso, e infatti nei miei testi ho sempre sostenuto il contrario, ho sempre opinato che il nulla vincesse tutto (nihil vincit omnia), ma vedendo Lei, standole accanto, parlandole, abbracciandola, tenendole la mano, ho capito che non c’è forza più grande, forte e devastante dell’amore.
Nei Demòni di Dostoevskij Šatov, entusiasmato per l’improvviso, miracoloso ritorno della moglie, manifesta la sua gratitudine a Kirillov, che non esita ad aiutarlo, con queste parole: «Kirillov! Se… Se voi riusciste a rinnegare le vostre orribili fantasie, ad abbandonare il vostro delirio ateo… ah, che uomo potreste essere, Kirillov!» [45]. In quel «se», ripetuto con enfasi due volte, c’è tutto il dramma della solitudine del giovane ingegnere filosofo del suicidio (troviamo lo stesso se nella battuta di Pentesilea che ho citato nel primo capitolo, quando l’Amazzone prende coscienza della propria sconfitta [46], e nella lettera dello stesso Kleist del 10 novembre 1811 all’amata cugina Marie, in cui il drammaturgo annuncia il suo suicidio [47]). Soltanto l’amore avrebbe potuto salvare Kirillov, come ha salvato un duplice omicida come Raskol’nikov, soltanto l’amore avrebbe potuto salvare tutti gli altri personaggi, autori e pensatori estremi, avrebbe potuto salvare me. Ma a noi uomini radicali l’amore, e dunque la salvezza, sono preclusi, resi inaccessibili dalla nostra stessa natura smisurata. La solitudine è il nostro destino e non ci si salva da soli, mai. Costretti a dover contare solo ed esclusivamente su noi stessi, resistiamo fino a quando le nostre forze ce lo permettono, abbandonandoci infine al suicidio o alla follia.

NOTE

[40] Albert Camus, Il mito di Sisifo, cit., p. 6.

[41] Ivan Turgenev, Padri e figli, traduzione di Giuseppe Pochettino, Einaudi, Torino 1998, pp. 26-27.

[42] Ivi, p. 30

[43] Ivi, p. 51.

[44] Ivi, pp. 38-39.

[45] Fëdor Dostoevskij, I demoni, traduzione di Giovanni Buttafava, BUR, Milano 2006, p. 626.

[46] «Se mi fosse possibile… Se fossi in grado! Il massimo che può la forza umana io l’ho fatto – ho tentato l’impossibile -, tutta me stessa ho gettato, come ai dadi; il dado che decide si è fermato, è lì: bisogna che lo capisca… e che capisca che ho perduto» (Heinrich von Kleist, Pentesilea, cit., p. 330).

[47] «Se fosse in mio potere ti assicuro che avrei abbandonato la mia decisione di morire. Ma ti giuro, mi è assolutamente impossibile continuare a vivere, la mia anima è così ferita che, quasi direi, quando metto il naso fuori della finestra mi fa male la luce che lo colpisce. […] Per aver coltivato ininterrottamente, coi pensieri e con gli scritti, sin dalla prima gioventù, bellezza e valori morali, sono diventato così sensibile che i più piccoli attacchi cui ogni uomo quaggiù, nel corso degli eventi, si trova esposto mi fanno un doppio e triplo dolore. […] Già i volti umani che incontravo mi ripugnavano, ora chiunque incontro per strada mi dà una sensazione fisica che non so descrivere» (citato in Anna Maria Carpi, Cronologia, in Heinrich von Kleist, Opere, cit., p. LXXXVII).

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