Soliloquio del dolore – 7

Per la prima volta, scrivo senza avere un piano, una visione. Non so se ciò che ho scritto finora abbia un senso e risulti comprensibile. Ci sono momenti in cui ho la tentazione rabbiosa di distruggere queste pagine e ricominciare da capo, con più calma e lucidità, ma non servirebbe a niente. Mi sento come una febbre creativa addosso, che mi brucia e che devo sfogare, così come viene, per non impazzire. Forse sono sull’orlo di una crisi di nervi… A volte mi sembra di precipitare in uno stato d’incoscienza e tutto ciò che mi circonda diviene sfocato, staccato da me, come ricoperto da un velo opaco. Ma non posso fermarmi e lascio andare la penna così come viene, anche perché ormai non ha alcuna importanza la resa – una resa è comunque garantita.
Forse queste pagine sono il mio ultimo, disperato grido prima di sprofondare nel nulla. Sicuramente rappresentano un interessante documento psicologico, ma di questo, forse, più tardi. Ora la mia creazione è davvero assurda, nella sua insensatezza, nella sua disperazione, nella sua consapevole inutilità, come auspica Camus: «Lavorare e creare “per niente”, scolpire nell’argilla, sapere che la propria creazione è senza avvenire, vedere la propria opera distrutta in un sol giorno, coscienti che, in fondo, ciò non ha importanza maggiore che costruire per secoli, è la difficile saggezza che il pensiero assurdo autorizza» [31]. Queste parole, di cui finalmente comprendo il senso più profondo, ora mi appartengono, ed ebbro di inutilità passo ore e ore chino sulla scrivania versando inchiostro, torturando questi fogli sfortunati, sfregiandoli con la punta della mia penna agonizzante, a tal punto la stritolo.
A ben vedere, ho sempre vissuto come scrivo in questo momento, senza un piano, senza una visione (del resto, al giorno d’oggi le visioni sono riservate ai grandi imprenditori, ai grandi miliardari, ai grandi schiavisti che, non sapendo dove buttare i loro immensi guadagni, investono in stupide campagne spaziali il cui unico scopo è accrescere ad infinitum la nostra miseria e la nostra piccolezza [32]). Tutti coloro che intraprendono un percorso di studi lo fanno per assicurarsi un avvenire. Io non ho mai pensato al mio futuro, non ho mai messo il mio Dio nella carriera [33], ho sempre pensato, agito, vissuto a una dimensione, la dimensione del presente, del qui e ora. Con me l’utopia del presente è diventata realtà e sono fiero di non aver costruito niente, niente di ciò che costruite voi, carriere, case, famiglie, esistenze fondate sul vuoto. Io sul vuoto ho eretto altro vuoto. Ancora una volta, sono stato coerente. Voi uomini quotidiani [34] vivete con degli scopi e con il pensiero fisso dell’avvenire, mentre io, uomo del dolore, della consapevolezza, dell’insensatezza, del nulla, uomo, in definitiva, del vostro rimosso, vivo senza obiettivi e concentrato tutto nell’attimo, che, da quando Lei non c’è più, è diventato davvero eterno. Come il principe Myškin, ho compreso il significato della frase: «Verrà tempo, in cui non esisterà più il tempo» [35]. Per me, di fatto, non è mai esistito, e solamente Lei avrebbe potuto scandirlo, come ha fatto nell’ultimo anno e mezzo. Senza più tempo, ho il «possesso presente» della mia vita, come il persuaso di Michelstaedter [36], quel possesso che voi non avrete mai, tesi sempre verso un avvenire che immaginate migliore del presente e che invece non è altro che morte e distruzione. Attenti, alla fine di quel futuro che anelate vi attendono le vostre paure più grandi! Vi attendo io!
La mia vita è stata un lungo vagabondaggio dello spirito [37]. Incapace di accontentarmi delle vostre mediocri verità, dei vostri pregiudizi, dei vostri luoghi comuni, di genuflettermi ai vostri idoli, materiali e immateriali, divini e commerciali, ancora adolescente mi sono messo sulla strada del pensiero umano, al termine della quale ho trovato Lei e il vuoto. Ora è arrivato il momento di fermarmi, di sedermi sull’orlo dell’abisso e contemplare in esso le immagini che vi si riflettono: me stesso, Lei, noi, voi, tutti gli scrittori e i pensatori incontrati lungo il cammino. Non so quanto durerà questa sorta di bilancio, ma so che, una volta terminato, dovrò prendere una decisione e non esistono possibilità alternative a queste due: tornare indietro oppure gettarmi nel vuoto. Mi hanno detto che se tornassi indietro potrei ancora essere felice, perché di donne come Lei ce ne sono molte e la vita ha ancora tanto da offrirmi – se la rinnegassi tra qualche anno potrei pentirmene. Sono consigli basati su un grossolano calcolo delle probabilità, niente di più. Innanzitutto credo che nessuna gioia, per quanto grande, valga e riscatti il dolore che siamo costretti a patire dal giorno della nostra nascita. In secondo luogo, credo nell’unicità dell’individuo e dopo aver conosciuto Lei, in ogni donna cercherei solamente un suo pallido riflesso. Infine, la vita avrebbe forse ancora qualcosa da offrirmi (ma cosa?) solamente se tradissi me stesso, se rinnegassi la mia natura, il mio pensiero e non ho alcuna intenzione di farlo, perché non credo ne valga la pena. Fallito ogni tentativo di affermazione attraverso le mie attitudini, dovrei dimenticare tutto ciò che è stato fino a oggi, cancellarmi e ricominciare da zero, ma è forse umanamente possibile? Io non sono mai stato capace di dimenticare e ogni giorno mi muovo in un cimitero di ricordi. Dovrei morire e rinascere, morire davvero, ma la vita è una sola e io sono giunto al fondo della mia vita.
Negli ultimi mesi ho provato di nuovo quella sensazione di distacco rispetto a tutto ciò che mi circonda, che, da quando mi era apparsa Lei, non avevo più provato. Credo di averla già descritta in qualche mio testo. Mi guardo intorno, osservo le cose che mi circondano, le pareti e i mobili della mia stanza, i libri, gli alberi e le piante del mio giardino, la natura circostante, il cielo e le nuvole ed è come se non mi appartenessero più, come se fossi morto e li osservassi con lo sguardo di uno spettro che non si è ancora dissolto. La stessa cosa vale per i suoni, il canto degli uccelli e delle cicale, il latrato dei cani, le voci umane che, di tanto in tanto, si odono nella campagna, il rumore delle auto e degli aerei che volano lassù, lente frecce bianche. Tutti questi suoni mi giungono alle orecchie come attutiti, smorzati dalla lontananza, una lontananza ancora maggiore rispetto a quella reale, metafisica. Da questa sensazione di distacco, di sospensione scaturisce sempre un profondo sentimento di nostalgia, che non mi addolora, ma rattrista. È la tristezza del fantasma che ha dovuto rinunciare alla vita suo malgrado, che vede e sente, ma sa di non poter più partecipare, di non poter più toccare, parlare, baciare, sognare. Si tratta di un sentimento non del tutto negativo e che anzi mi strappa un sorriso, mesto, certo, arreso, ma pur sempre un sorriso.
In questi momenti mi sembra davvero di non essere già più, di aver compiuto l’ultimo, grande passo, e ho la sensazione vivida di dovermi dissolvere da un istante all’altro. Sì, è come se guardassi e ascoltassi per l’ultima volta, come se lo spirito, staccatosi dal corpo, si concedesse un ultimo momento in questo mondo prima di svanire per sempre nel nulla. Se in questa occasione mi capita di ricordare tutto ciò che è stato, di ripercorrere rapidamente la mia vita e giungere fino a Lei, non provo dolore, ma solo un leggerissimo rimorso, come una puntura d’insetto al cuore.
Così vivo i miei ultimi istanti su questa povera terra. Forse… forse sono davvero già morto… Forse sono davvero uno spettro che osserva, ascolta e scribacchia le sue ultime righe in attesa di dissolversi nel nulla.
Questo pomeriggio ho trovato finalmente la forza di uscire, da solo, di recarmi in libreria per acquistare un paio di libri. È stato strano. In strada, tra la gente, ho provato una sensazione di stordimento, di sottile disagio, come un uomo tornato libero nel mondo dopo una lunga prigionia. Mi sono sentito nudo e solo come mai prima. Tutto ciò che mi stava attorno era nudo. Ho capito che da un anno e mezzo la portavo con me ovunque andassi. Ovunque andassi mi era accanto e mi accompagnava e proteggeva con il suo sguardo, mentre ora accanto e intorno a me è il vuoto. Il suo sguardo vigilava su di me ed era rassicurante. La sua presenza era una compagnia costante e insieme una protezione, un manto invisibile e splendido che ricopriva e impreziosiva tutto. Ora che non c’è più tutto è tornato ad essere quello che è:

E gli alberi son alberi, le case
sono case, le donne
che passano son donne, e tutto è quello
che è, soltanto quel che è [38].

Confuso vagabondo in un labirinto di vane necessità, di negozi e bar, nelle vie simmetriche, nei palazzi muti ho visto riflesso me stesso, nel deserto ho guardato «con occhi asciutti me stesso» [39]. Indifferente, insensibile, superata l’iniziale fase di stordimento e disagio, non ho provato più niente. Ho trovato una consolazione momentanea tra i libri, afferrandoli, accarezzandoli, sfogliandoli, leggendone qua e là delle frasi, a caso. Le parole hanno colmato per qualche istante il vuoto, quel vuoto che Lei sola era stata capace di colmare e che ora, dopo la nostra separazione, è divenuto irrimediabile.
Uscito dalla libreria, sono tornato in macchina a testa bassa, la sigaretta dimenticata tra le labbra, in una libertà solo apparente. Senza di Lei anche fuori, all’aria aperta, è come in una stanza chiusa. Anche fuori l’aria è viziata, gli spazi stretti, soffocanti e c’è poca luce, quella debole luce artificiale riflessa dalle insegne e dalle vetrine dei negozi. Con Lei si è spento il sole, ridotto a una macchia nera in uno stato di eclissi permanente.

NOTE

[31] Albert Camus, Il mito di Sisifo, cit., p. 110.

[32] «Ahi ahi, ma conosciuto il mondo / non cresce, anzi si scema, e assai più vasto / l’etra sonante e l’alma terra e il mare / al fanciullin, che non al saggio, appare» (Giacomo Leopardi, Ad Angelo Mai, Canti, in Id., Tutte le poesie e tutte le prose, cit., p. 82).

[33] Riferimento alla dedica di Michelstaedter posta in epigrafe al Dialogo della salute: «Al mio Emilio / in memoria delle nostre sere / e a quanti giovani / ancora / non abbiano messo / il loro Dio / nella loro carriera» (Carlo Michelstaedter, Il dialogo della salute, cit., p. 27).

[34] Per Camus l’«uomo quotidiano» rappresenta l’antitesi dell’«uomo assurdo».

[35] Fëdor Dostoevskij, L’idiota, traduzione di Federigo Verdinois, in Id., Grandi romanzi, cit., p. 731.

[36] «La persuasione è il possesso presente della propria vita», scrive Michelstaedter in un appunto (Carlo Michelstaedter, Opere, a cura di Gaetano Chiavacci, Sansoni, Firenze 1958, p. 728).

[37] L’espressione è ripresa da Stirner: «[…] ci sono anche vagabondi dello spirito, ai quali la dimora degli avi appare troppo angusta e opprimente per potersene stare tranquilli in quello spazio ristretto: invece di mantenersi entro i limiti di un modo di pensare moderato e di prendere per verità intoccabile ciò che a tanti dà conforto e sicurezza, essi oltrepassano tutti i confini della tradizione e vagabondano in strane regioni del pensiero, sollevando critiche irriverenti e dubitando impudentemente di tutto, questi vagabondi stravaganti» (Max Stirner, L’unico e la sua proprietà, cit., p. 121).

[38] Camillo Sbarbaro, Taci, anima stanca di godere, Pianissimo, in Id., L’opera in versi e in prosa, Garzanti, Milano 1999.

[39] Ibidem.

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