Soliloquio del dolore – 4

La vita mi ha rivelato presto, troppo presto ciò che agli uomini, se sono sfortunati, rivela in punto di morte: la sua insensatezza. Alimentata dai miei continui fallimenti, di cui mi assumo tutte le responsabilità, perché, come Camus, credo che le «sconfitte di un uomo non determinano un giudizio sulle circostanze, ma su lui stesso» [16], la consapevolezza dell’insensatezza ha assunto la dimensione totalizzante, onnicomprensiva della malattia e ha finito per isolarmi e paralizzarmi. Nel mio stato di emarginazione, di esclusione soffro per il semplice fatto di essere, di esistere. Sono giunto all’ultima prigione dell’essere, la più profonda, buia, umida, presente, credo, nel fondo di ogni uomo, ma che voi avete murato: nel fondo di ogni uomo ci sono io. Sono giunto all’abisso, quello stesso abisso che è dentro, attorno e sopra di voi, ma che voi vi rifiutate di vedere.
La consapevolezza mi ha condotto alla solitudine e alla disperazione. La disperazione è tra i sentimenti meno diffusi tra gli uomini, per tante ragioni. Generalizzando, la speranza è una conseguenza naturale della vita, quasi una sua conditio sine qua non: vivere è sperare. Ogni uomo vivo spera in qualcosa, è un’equazione. Io, tanto per cambiare, sono un’eccezione. Ho smesso di sperare da tanto tempo e non avevo certo ricominciato a farlo quando mi era apparsa Lei, perché le circostanze maledette me lo impedivano, ma, ora che Lei non c’è più, ora che anche Lei mi ha escluso dal suo cuore e dalla sua vita (la memoria è salva, ma la memoria non dura mai molto, soprattutto quando si ha una vita impegnata come la sua), sono giunto all’ultimo stadio della mia disperazione, e permango come un condannato a morte in attesa dell’esecuzione.
Il momento peggiore è quello del risveglio. Ora, oltre al peso dell’esistenza, devo farmi carico anche del peso del dolore. Mi trovo nella stessa condizione di Sisifo. Ogni giorno sono costretto a ricominciare da capo, a rivivere la nostra storia e a ripercorrere da cima a fondo, in ogni singolo particolare, il nostro primo e ultimo incontro. È una tortura. Non posso neanche sperare di trovare una tregua nel sonno, perché la sogno praticamente tutte le notti e se non sogno Lei, sogno qualcuno che mi ripete il suo nome.
Questa notte sono stato a casa sua, con i miei amici. Ci aveva invitati a pranzo e c’erano anche suo marito e la sua bambina, che mi parlava di Pessoa. Seduto a tavola, tenevo ostinatamente gli occhi bassi, sul piatto, per non incontrare il suo sguardo, e volevo andare via. La situazione si faceva ogni secondo più difficile per me. La sento parlare con un mio amico, che mi sta accanto, alla mia destra, mentre Lei, dall’altra parte della tavola, mi sta quasi di fronte, e non resisto, alzo la testa e la guardo. I nostri sguardi finalmente si incontrano e io mi sveglio di soprassalto. Il suo sguardo era preoccupato, quasi supplichevole, come se volesse chiedermi perdono.
Insomma, non posso più contare neppure sul conforto del sonno, la sola cosa positiva che mi restava. Durante la nostra corrispondenza volevo incontrarla per poterla sognare, per poter vivere nel sogno ciò che nella realtà era impossibile. Ma ora che il nostro incontro è avvenuto e ha sancito la fine del nostro rapporto, l’impossibilità ha contaminato anche la dimensione onirica ed è uno strazio. Neanche nel sogno mi è concesso sognare. Non ho davvero più scampo.
Persino Sisifo, nella sua terribile condanna, ha un momento di tregua, di sospensione della pena, quando, dopo aver gettato il macigno, scende a recuperarlo. È in questo momento, durante la discesa, che Camus lo immagina felice. Scendendo, Sisifo «conosce tutta l’estensione della sua miserevole condizione» e la sua «silenziosa gioia» sta nel possesso del proprio destino, nella consapevolezza che il «macigno è cosa sua», che il destino è una «questione di uomini, che deve essere regolata fra uomini». Sisifo insegna così quella «fedeltà superiore» che «nega gli dei e solleva macigni»; anch’egli, come l’Edipo di Sofocle e Kirillov, giudica che tutto è bene, la «formula della vittoria assurda» [17]. Ma io non conosco più tregue, pause, discese, sono costretto a giudicare, come Leopardi, che tutto è male, la formula della sconfitta dolorosa e tragica:

Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, nè diretti ad altro che al male. Non v’è altro bene che il non essere; non v’ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose; tutte le cose sono cattive. Il tutto esistente; il complesso dei tanti mondi che esistono; l’universo; non è che un neo, un bruscolo in metafisica. L’esistenza, per sua natura ed essenza propria e generale, è un’imperfezione, un’irregolarità, una mostruosità. Ma questa imperfezione è una piccolissima cosa, un vero neo, perchè tutti i mondi che esistono, per quanti e quanto grandi che essi sieno, non essendo però certamente infiniti nè di numero nè di grandezza, sono per conseguenza infinitamente piccoli a paragone di ciò che l’universo potrebbe essere se fosse finito; e il tutto esistente è infinitamente piccolo a paragone della infinità vera, per dir così, del non esistente, del nulla [18].

Il sonno era la mia tregua, la mia pausa, la mia discesa e il sogno una fonte di gioia, non meno importante della realtà nella mia condizione di feroce consapevolezza, di solitudine e disperazione. Ora che non ho più neppure questo conforto, ogni notte sento risuonare il ghigno sarcastico che, spietato e beffardo, mi ricorda la mia nullità: «ùuùuùuùu… niente, niente, niente, non sei niente, so che non sei niente, so che qui t’affidi ed io ti distruggerò sotto il piede il terreno, so quello che riprometti a te stesso e non ti sarà mantenuto, come tu hai sempre promesso e mai tenuto, non hai mai tenuto – perché non sei niente, e non puoi niente, io so che non puoi niente, niente, niente…» [19].
L’insonnia è sempre stata la mia paura più grande, ma ora che si è concretizzata l’altra mia paura più grande, perdere Lei, che io dorma oppure resti sveglio non fa alcuna differenza. Mi alzo dal letto distrutto ed è ogni giorno più faticoso farmi carico del macigno dell’esistenza e del dolore, quel macigno che ormai non riesco a scrollarmi di dosso neppure durante il sonno e che, ne sono certo, finirà per schiacciarmi.

NOTE

[16] Albert Camus, Il mito di Sisifo, cit., p. 65.

[17] Ivi, pp. 119-121.

[18] Giacomo Leopardi, Zibaldone, cit., p. 898.

[19] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, cit., pp. 58-59.

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