Soliloquio del dolore – 3

Vi sembrerò esagerato, smisurato, inverosimile, iperbolico – lo sono. Io non sono un uomo normale, non lo sono mai stato, purtroppo per me e, soprattutto, per i miei familiari. Mediocre nelle capacità, per un crudele contrappasso non sono mai stato mediocre nel pensiero, nei sentimenti, nelle scelte. Io non vivo, non sento, non amo, non soffro come tutti (lo scrivo senza orgoglio, anzi, con un sincero dispiacere, credetemi, perché questa mia terribile unicità è una condanna senza appello alla solitudine e alla disperazione). Io vivo, sento, amo, soffro con tutto me stesso, teso in uno sforzo continuo che coinvolge e impegna ogni singola fibra del mio essere, nella sua interezza, a livello spirituale, psicologico e fisico. Io vivo e brucio, mi estinguo. In ogni cosa che penso, che dico, che scrivo, che faccio metto tutto me stesso, come se dovessi morire immancabilmente l’istante successivo e, così facendo, nonostante un’efficacia pari allo zero, come mostrano i miei fallimenti, da fuoco fatuo, mi prosciugo, mi dissolvo.
Nessuno può comprendermi, lo so, lo capisco. Del resto, non ha più alcuna importanza ormai. Sarebbe bello, non lo nego, poter contare sulla comprensione di un altro individuo, e di una donna soprattutto, con la quale poter condividere il peso insostenibile dell’esistenza, ma io sono condannato, mio malgrado, a poter contare solamente su me stesso. Sono l’unico abitante del mio grigio e polveroso mondo in macerie.
Qualche settimana fa, in un momento di debolezza, ho commesso l’imprudenza di confessare a un amico di essere giunto al fondo del mio dolore.
– Ti assicuro che ci sono dolori peggiori, – mi ha risposto.
Una risposta legittima dal suo punto di vista, comprensibile, ma il suo, il vostro punto di vista non è il mio, da molto tempo ormai.
Io vivo in un altrove che ha la dimensione angosciante e asfissiante dell’incubo, in cui il nulla che ci attende dopo la morte ha una consistenza fisica, materiale, tangibile [10] e mi circonda isolandomi da tutto il resto come un muro inespugnabile. Lo vedo questo muro, è infinito, lo tocco, è indistruttibile. Questo altrove avvolto dalle tenebre e popolato di verità negative che mi tengono inchiodato al suolo, impedendomi di sognare, non concede catarsi.
Di tanto in tanto riesco a gettare uno sguardo nel vostro mondo, vi osservo e noto sempre con grande rammarico che mentre v’illudete di fuggire la morte, la vostra paura più grande, in realtà non fate altro che disperdere anche l’ultimo residuo di vita che vi resta. Correte di qua, di là, senza posa, credete di godere, di amare, relegate il dolore e la morte fuori della vita, come se non ne facessero parte e fossero solo degli accidenti da dimenticare in fretta quando avvengono, come se voi ne foste immuni, e intanto morite ogni giorno di più, senza rendervene conto. Non è un bel mondo quello che vedo dal mio altrove, e pensare che è proprio in questo mondo che avrei dovuto ritagliarmi uno spazio.
Certo, esistono delle eccezioni, nascoste tra la moltitudine e il cui bagliore a volte rifulge così forte da riuscire a farsi strada persino in queste tenebre fitte, ma il mondo non è mai stato delle eccezioni, assorbite, normalizzate, usate da quella stessa massa che avrebbero voluto liberare e salvare, dai pregiudizi, dai luoghi comuni, dalle convenzioni, dall’indifferenza, dall’incoscienza. Gli esempi sono molti e alcuni, i più eclatanti forse, li ricorda Michelstaedter nella Prefazione alla sua tesi di laurea:

Lo dissero ai Greci Parmenide, Eraclito, Empedocle, ma Aristotele li trattò da naturalisti inesperti; lo disse Socrate, ma ci fabbricarono su 4 sistemi. Lo disse l’Ecclesiaste ma lo trattarono e lo spiegarono come libro sacro che non poteva quindi dir niente che fosse in contraddizione coll’ottimismo della Bibbia; lo disse Cristo, e ci fabbricarono su la Chiesa; lo dissero Eschilo e Sofocle e Simonide, e agli Italiani lo proclamò Petrarca trionfalmente, lo ripeté con dolore Leopardi – ma gli uomini furono loro grati dei bei versi, e se ne fecero generi letterari [11].

A questa categoria di grandi spiriti sovversivi normalizzati, depotenziati e usati dalla moltitudine, dalla società in definitiva, per consolidare la propria forza, appartengono anche, tra gli altri, Marx e Nietzsche. Se quest’ultimo avesse conosciuto il proprio destino postumo, di spietata, grossolana, indegna strumentalizzazione e massificazione, sono certo che avrebbe riflettuto a lungo prima di pubblicare le sue opere.
Ora, non è certo mia intenzione paragonarmi a questi grandi spiriti, al cospetto dei quali sono un minuscolo, invisibile insetto, ma nel mio piccolo anch’io ho tentato di recidere le palpebre agli uomini, di liberarli e, naturalmente, ho fallito. Non ci sarà neppure bisogno di omologarmi, di travisarmi, perché i miei testi svaniranno nel nulla senza aver mai visto la luce.
Al di là del mio insignificante caso, del tutto privo di peso all’interno di questo discorso, gli uomini non vogliono essere liberati, la libertà è una responsabilità troppo grande per loro, troppo faticosa e complessa; adattarsi alle circostanze, ai pregiudizi, ai luoghi comuni, alle convenienze, uniformarsi all’indifferenza e all’incoscienza generali è molto più comodo e semplice. Ha ragione il Grande Inquisitore quando sostiene che per l’uomo rimasto libero non vi è affanno più tormentoso e continuo «che il ricercare al più presto un essere di fronte al quale prostrarsi» [12]. E pazienza se l’adattamento supino alla società, alle sue regole, ai suoi iddii, come il dio dell’utile, il dio del mercato e del consumismo, il dio del benessere ci priva della parte migliore di noi stessi, della coscienza, dell’individualità, della libertà. Io ho avuto il coraggio – o la viltà, dipende dai punti di vista – di essere coerente con le mie idee, di restare fedele a me stesso, di non cedere ai compromessi e ho pagato un prezzo altissimo per questo, ho visto le mie speranze, le mie aspirazioni, le mie ambizioni fatte a pezzi una a una, ma almeno ho mantenuto intatta la mia libertà, la mia individualità, la mia unicità. Nessuno mi darà mai un premio per la mia coerenza, per la mia integrità morale, d’accordo, ma vi assicuro che se tornassi indietro rifarei le stesse scelte. Non ho rimpianti e sono pronto a fare la fame, a morire di fame pur di non cedere. Tanto la sostanza non cambia, in nessun caso, e tutto si riduce in polvere.
Almeno, nel niente, perché è qui che mi ha condotto la mia feroce coerenza, al niente, saluterò l’ultimo dei miei giorni come uno dei più felici e sereni, al contrario di tutti voi, che lo immaginate come il più terribile. Aggrappati con le unghie e con i denti alla vostra parvenza di vita, non sapete più vedere nella morte l’epilogo naturale dell’esistenza umana e, come scrive giustamente Michelstaedter, chi «teme la morte è già morto» [13].
Capisco che l’istinto di conservazione, ciò che Camus nel Mito di Sisifo chiama il corpo, che «indietreggia davanti all’annientamento» e il cui giudizio «vale quanto quello dello spirito» [14], porti l’uomo a ribellarsi all’idea della fine, ma si tratta di una ribellione inutile, che, se posta alla base della vita, come nella maggior parte dei casi, ha un effetto contrario, ovvero uccide la vita, rendendola molto simile a una morte-in-vita. Solamente accettando l’idea della fine, comprendendola, metabolizzandola è possibile recuperare una dimensione esistenziale autentica e consapevole. Ma basta, sto ripetendo concetti espressi già decine di volte e che non hanno mai portato a niente.
A proposito della morte, è il mio pensiero fisso da quando sono un adolescente. Nel suicidio ho sempre visto l’unica via d’uscita dall’agonia della vita e il solo epilogo coerente con la mia natura estrema e il mio pensiero radicale. Se finora non ho intrapreso questa strada, non è stato per la paura di morire, né perché nutrissi ancora delle speranze oppure perché il corpo mi impedisse di farlo (la consapevolezza ha vinto l’istinto di conservazione, da un pezzo ormai). L’unica ragione che mi ha tenuto in vita fino a oggi è il senso di colpa che ho sempre provato nei confronti dei miei genitori, e di mia madre in particolare. Per quanto mi senta distante da loro, non sono mai riuscito a scavalcare l’ostacolo del dolore atroce che proverebbero a causa della mia morte. Lo sento io stesso questo dolore, lo posso persino toccare ed è terribile.
Eppure, in questi ultimi mesi, da quando Lei non c’è più, ho subito molte volte il fascino dell’oblio, molte volte ho cullato la tentazione dolcissima di abbandonarmi a un sonno eterno e senza sogni. La Morte mi stava accanto, di nuovo unica, fedele compagna, bella e seducente come mai prima, mi sussurrava all’orecchio miracolose parole di piacere e non è stato facile resistere alle sue lusinghe. Mi ha “salvato” un’idea, come al solito, l’idea che se mi fossi ucciso in questa circostanza avrei dato troppa importanza alla vita, che in realtà «è cosa di tanto piccolo rilievo, che l’uomo, in quanto a se, non dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla né di lasciarla» [15], come dichiara il Plotino di Leopardi. Se è vero, come credo e ho sempre creduto, che non vale la pena vivere, in questi mesi ho capito che non vale neppure la pena morire: è questa la tragica verità.
Tuttavia, il suicidio resta per me l’unica possibilità di fuga e di coerenza, ma legata ora a un processo di emancipazione dalla vita, al quale mi dedicherò con tutto me stesso in questa nuova, ultima fase della mia esistenza.
Nella maggior parte dei casi il suicidio non è che un’ultima, estrema, disperata, ma non troppo, esaltazione della vita – ci si uccide per eccesso di vitalità, per un’inestinta, sovrabbondante brama di vita. Se io, per esempio, mi suicidassi in questo momento, al culmine della delusione, non farei altro che consegnarmi, vinto, alla vita, la mia più acerrima nemica, e la sua vittoria sarebbe completa e definitiva – non avrei la possibilità di una rivincita, o meglio, di una contro-rivincita. Il suicidio autentico, davvero autodistruttivo, che mantiene intatto il senso più profondo del gesto, rappresentato dalla straordinaria manifestazione di affermazione dell’individuo che lo compie, è quello dell’uomo che, emancipatosi dalla vita, se ne priva senza slancio, senza entusiasmo, senza odio o piacere. Che egli resti in vita oppure no non fa alcuna differenza, e sopravvivere oppure uccidersi diviene una mera questione di coscienza. Allora il suicidio si configura come un gesto semplice, direi persino banale, naturale come bere, mangiare, una necessità fisiologica e niente di più, non una protesta, un sacrificio oppure un’ultima, folle e sciocca speranza di felicità.
Nel suicidio dell’uomo emancipatosi dalla vita non c’è niente di speciale, niente di particolarmente drammatico, la sua fine è naturale, essenziale come la fine del novantenne che si lascia consumare dal tempo in una clinica, ma più dignitosa e pacifica.
Servendosi di Lei, la vita si è presa la sua rivincita. Servendosi di Lei, mi ha teso una trappola nella quale sono caduto come uno sprovveduto. La mia volontà di emanciparmi dalla vita nasce da qui – voglio che sia mia l’ultima parola.
Ma cosa significa emanciparsi dalla vita? Significa vivere qui e ora il nulla che ci attende tutti dopo la morte. Significa accettare l’insensatezza, la vanità, l’assurdità, la morte, il dolore, la disperazione, la solitudine e non avere più necessità, non avere più bisogno di niente e di nessuno, ovvero possedere se stessi, il proprio destino mortale, la propria sofferenza e non dipendere da nient’altro, da nessun altro. Significa comprendere e accogliere le verità negative che dominano il mondo e la vita, accettare la propria miseria, la propria insignificanza, la propria inutilità e non cercare conforto nelle illusioni, nei pregiudizi, nei luoghi comuni. Significa non distogliere mai lo sguardo dall’essenza meschina delle cose, sostenere coraggiosamente il volto distruttivo del niente. Significa restare fedeli a se stessi sempre, essere ferocemente coerenti e non cedere ai compromessi, al loro comfort. Significa stare né bene né male, ma stare e basta, come un albero, come una montagna. Significa non percepire più alcuna differenza tra la vita e la morte e diventare un deserto improduttivo nell’epoca dominata dall’idolo della produttività.
Emanciparsi dalla vita significa, in definitiva, essere liberi!

NOTE

[10] La stessa terribile sensazione descritta da Leopardi: «Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla» (Giacomo Leopardi, Zibaldone, edizione integrale diretta da Lucio Felici, Newton Compton editori, Roma 2016, p. 90).

[11] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, cit., p. 35.

[12] Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Alfredo Polledro, Newton Compton editori, Roma 2011, p. 265.

[13] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, cit., p. 69.

[14] Albert Camus, Il mito di Sisifo, traduzione di Attilio Borelli, Bompiani, Milano 2017, p. 9.

[15] Giacomo Leopardi, Dialogo di Plotino e di Porfirio, in Id. Operette morali, cit., p. 599.

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