Soliloquio del dolore – 20

Finalmente è arrivato l’autunno e ha portato con sé la pioggia, una pioggia furiosa e feroce, che ripulisce le strade impolverate e disseta i campi dimagrati. Sono io stesso questa pioggia che sferza, fracassa e purifica. Sono io stesso il lampo che illumina la notte tenebrosa e il tuono che strappa il cielo come fosse stoffa. Dopo quattro mesi di apnea, torno finalmente a respirare, ma si tratta di un benessere effimero e labile, che non prevede mutamenti e resurrezioni: la cenere resta cenere.
Oltre alla pioggia, l’autunno ha portato con sé la libertà, una libertà terribile, forse persino insostenibile, che non ho mai provato prima e che, in fondo, non credevo potesse esistere. Ora non ho davvero più niente, ora io stesso sono davvero niente. Credevo di non avere e di non essere già da molto tempo, ma non era così: avevo ed ero pur sempre qualcosa, qualcosa di molto piccolo, certo, di microscopico e invisibile, ma pur sempre qualcosa, mentre ora è davvero il vuoto e il nulla. Non avere più sogni, non avere più speranze, desideri, aspirazioni, obiettivi, non avere più bisogni e necessità: è questa oggi la mia libertà terribile. Sono passati quattro mesi esatti dal nostro incontro e in questi quattro mesi, svaniti come un soffio, come un incosciente battito di ciglia, mi sono svuotato completamente. Cosa resta? Niente. Ecco il preludio della mia trascendenza, forse. O della mia morte. Il dolore si è chiuso del tutto intorno a me e io sono il punto più profondo e freddo della terra.
Il mio corpo è come schiacciato, compresso, stretto in una morsa, in particolar modo la schiena, le spalle e il petto. È come se avessi qualcosa addosso di cui non riesco a liberarmi e che preme, preme con forza, comprimendomi, accartocciandomi. Non credevo che il peso del dolore potesse concretizzarsi, fisicizzarsi a tal punto. Sono io stesso questo peso e mi schiaccio, mi ammacco. Forse sto vivendo una spaventosa metamorfosi. Forse già in vita diverrò cadavere. Mi sento un vecchio, arrugginito rottame, un cumulo di ossa fradice da buttare e nella mia testa gravitano rottami di pensieri. Leggere mi è indifferente, come tutto il resto, e scrivere non ha più alcun senso, è una fatica inutile: la penna solca la pagina con fatica, quasi per inerzia, come un vecchio aratro scricchiolante solca la terra, o piuttosto la graffia, inutilmente. Vorrei strappare questo stupido corpo, vorrei spaccarlo e volare da Lei, vederla un’ultima volta, da lontano, per poi disperdermi nel nulla, come fumo. Sono la polvere estiva spazzata via dalla pioggia. Sono il selciato arido ripulito dalla pioggia.
Non ho più niente da pensare, dunque da dire, da scrivere, da fare, da vivere se non la mia morte, che vivo ogni giorno con spaventoso anticipo, senza deroghe, senza tregue. Io termino qui e ora. Nell’insensato che scrive per se stesso non c’è compiacimento, ma solo una crudele volontà di torturare se stesso, sbattendogli dritto in faccia la propria terribile unicità. Non devo dunque sfuggire al compiacimento, che caratterizza tanti professionisti del pessimismo, del nichilismo, ma voglio essere coerente fino in fondo e per questo rifiuto la dispersione, approdando a un’arbitraria nudità e al silenzio, ciò che Camus definisce la «strana ascesi della rivolta» [216]. Io non voglio più desiderare né giudicare, per questo motivo scelgo il silenzio, la massima e più coerente manifestazione di rifiuto, di dissidenza e disperazione: «Nominare la disperazione è superarla» [217]. Non vi tormenterò più con le mie verità scomode, distruttive, non vi preoccuperò né imbarazzerò più con le mie pagine violente e scandalose. Vi lascio a voi stessi, uomini, al vostro mondo, che non sarà mai il mio mondo, alle vostre piccole vite, alle vostre piccole storie di fango e sangue. Non tenterò più di recidervi le palpebre, di risvegliarvi da quel torpore colpevole nel quale siete sprofondati come per un malefico sortilegio, di scuotere le vostre coscienze offese. Non spetta a me scacciare le mosche, né depredare pecore dal gregge, non più. Le nostre strade si separano per sempre. Penserò solamente, di tanto in tanto e con grande tristezza, ai vostri poveri figli, vittime innocenti di padri degenerati. Mi permetto di lasciarvi un’ultima parola: non tutti gli uomini nascono per essere padri, non tutte le donne nascono per essere madri. Riflettete prima di generare una nuova vita, prima di distruggere altri oltre voi stessi: meglio pochi, ma amati, che molti, ma abbandonati a loro stessi. Cosa importano i numeri? Cosa importa le crescita demografica? Importa la sostanza. Per troppo tempo avete dato importanza ai numeri e non agli esseri, e guardate a che punto siete arrivati! Abbiate il coraggio di ammirare la vostra meravigliosa opera!
La mia trascendenza e la mia emancipazione dalla vita dipendono da Lei. Davanti a me si presentano le due solite, terribili possibilità: tutto o niente. Come sempre, tertium non datur. In questo caso, cosa sarebbe tutto? Fare di Lei, nonostante la fine della nostra storia, la mia fede e attendere un suo miracoloso ritorno: è esistita, l’ho conosciuta, dunque può tornare. Allora farei delle sue lettere il mio vangelo e delle sue fotografie le mie immagini sacre. Ma come ogni fede, anche questa mia fede sarebbe soltanto un’illusione. Ricordo le sue parole nel momento dell’addio:
– È vero, abbiamo raggiunto un’affinità spirituale quasi assoluta, ma che non ha mai fatto parte della mia quotidianità, fino a risultarne incompatibile.
Dunque per Lei il nostro legame non è stato altro che un’illusione. Come potrei credere in qualcosa che non è mai esistito? Sarebbe come credere in Dio.
Resta dunque, per l’ennesima volta, il niente, ovvero la distruzione. Lei ha negato e io devo fare altrettanto, ma radicalmente. Lei conserverà in un angolo dimenticato, buio e polveroso le mie parole, i miei libri, il ricordo della nostra corrispondenza e del nostro incontro. Io, nella mia natura estrema, non posso limitarmi a questo: io devo distruggerla, distruggendo le sue lettere e le sue fotografie. Io devo cancellarla dalla mia vita per emanciparmi dalla vita, e quando il suo ricordo si farà vivo nella mia mente e nel mio cuore, lo scaccerò recitando la sacra formula: è stata solo un’illusione! Lei lascerà che sia il tempo a distruggere il nostro ricordo, mentre io lo distruggo adesso, con le mie mani: il risultato è lo stesso, cambia solo il metodo.
Non si tratta di odio o di vendetta, credetemi, ma, ancora una volta, di una scelta obbligata tra il tutto e il niente, tra il bianco e il nero, tra il caldo e il freddo. La mia natura radicale mi impedisce di accontentarmi del ricordo, della mediocrità del ricordo e mi costringe a scegliere tra due estremi: non potendo cedere all’illusione e alla fede, devo necessariamente distruggere, bruciare, cancellare. È tutto qui, spaventosamente semplice.
Io oggi con Lei distruggo tutto ciò che è stato finora nella mia vita, tutto ciò che ho detto, scritto, fatto, vissuto, sognato. Senza di Lei, niente sarà più come prima. Ai miei testi toccherà la stessa sorte, perché è questa la feroce coerenza nella disperazione – il fuoco, l’autodafé, la distruzione. La nostra storia termina qui e ora, io stesso, la mia vita terminiamo qui e ora, anche se ciò che non è mai iniziato, non può avere fine.
C’è stato un tempo in cui anch’io avevo un credo. Credevo nella coscienza e nello spirito dell’individuo. Credevo nella cultura e nell’arte come mezzi di resistenza alla ferocia della storia e alla barbarie degli uomini. Credevo nel cuore, tanto da fare del cuore la mia ragione. Credevo nella potenza sovversiva delle parole scritte con il sangue, tanto da scrivere io stesso con il sangue fino a morire dissanguato. Credevo nella possibilità di un’esistenza autentica e pacifica, rinnovata dalla consapevolezza dell’insensatezza della vita e dell’umana miseria. Credevo nella capacità dell’individuo di sollevarsi, di ribellarsi a se stesso, alla propria insufficienza, alla propria impotenza, alle proprie illusioni, alle proprie menzogne, al proprio mondo, di sostenere coraggiosamente il peso del proprio dolore e non reprimerlo, di governarsi da solo. Credevo nella forza dell’amore, l’amore vero, indissolubile e senza il quale è impossibile vivere. Credevo in Lei, in noi, nel nostro legame predestinato.
Ora non credo più, in niente, ora sono soltanto un deserto sconfinato che non conosce aurore. Tutti i soli, come vecchie lampadine, si sono fulminati. Ora inizia per me una nuova fase, un nuovo tempo, senza-più-tempo, in cui la solitudine e la disperazione non sono più un vago, nebuloso destino, ma una realtà effettiva e tangibile, spaventosa.

Non c’è niente e nessuno per cui valga la pena vivere, niente e nessuno per cui valga la pena morire.
Solo chi sa che non c’è ragione ha la ragione.

Sfoglio a ritroso queste povere pagine deturpate dalla mia grafia minuta, illeggibile per molti, e nervosa, tornando all’inizio, alla citazione dei Fratelli Karamazov posta in epigrafe a guisa d’augurio. Augurio insensato e sciocco, perché senza fede non c’è felicità nel dolore. Senza fede, nel dolore c’è solo altro dolore.

NOTE

[216] Albert Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 11.

[217] Ivi, p. 287.

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