Soliloquio del dolore – 19

Anch’io, come Zarathustra, sono salito sulla montagna. Solo nella mia inaccessibile spelonca, isolato da tutto e da tutti, ho cercato me stesso e in me stesso l’uomo, senza mai cedere alla tentazione confortante di dare un senso a ciò che un senso, per definizione, non ce l’ha: la vita. Impegnato quotidianamente nella complessa arte del distacco, dell’indifferenza, dell’imperturbabilità, mi esercitavo a farmi scivolare tutto addosso, a domare la mia sensibilità sovrasviluppata e a bastare a me stesso. Ogni giorno allungavo di un passo la mia distanza dal vostro mondo, resistendo così alla sua spinta omologatrice e spersonalizzante, alla sua pressione metamorfica – perché è questo che fa il vostro mondo: rende l’individuo uno schiavo e una vittima della necessità, annichilendolo, trasformandolo in un mostruoso insetto, come il povero Gregor Samsa.
Faccia a faccia con me stesso e con il nulla, quel nulla che ero io stesso, alimentavo fuochi destinati a estinguersi e, immobile sulla cima della mia montagna, immerso in una notte permanente, attraversavo secoli in cerca dell’assoluto. Lasciavo che fossero la dialettica e la logica a prevalere sull’istinto, sulla fame, consapevole che la «logica è certo incrollabile, ma non resiste ad un uomo che vuole vivere» [213]. Ogni giorno penetravo più a fondo nella vita, consapevole che «quanto più a fondo penetra l’uomo nella vita, tanto più a fondo penetra nel dolore» [214], quel dolore che in me nasce dal semplice fatto di essere, di esistere e di cui oggi ho raggiunto l’imo. Consapevole di tutto ciò che l’uomo è solito nascondere sotto strati e strati e strati d’illusione, menzogna e incoscienza, mi sforzavo di trovare un equilibrio tra la mia feroce saggezza e la vita. Ero il letto d’un falò: cenere, ma la cenere rende fertile la terra, la concima. Nelle stelle non vedevo che stelle e non ho mai dato loro la parola. Non erano che muti e indifferenti fanali. Quanto più scalavo la montagna, tanto più scendevo in profondità nell’uomo e nella terra, ed è proprio nel fondo dell’uomo che trovai il cadavere di Dio, quel Dio che avrei servito con tutto me stesso, anima e corpo, profeta e martire, distruggendomi in lui, se avessi avuto anche solo un vago sospetto della sua esistenza. Ma non esistono che il dolore, la miseria, la morte (la vita stessa non è che la morte), ed è proprio del dolore, della miseria e della morte che sono divenuto il profeta.
Ed ecco che un giorno, nel silenzio e nel buio della mia spelonca, mi giunsero la sua voce e la sua luce, che accolsi come doni miracolosi, presagi di una felicità possibile, seppur irrealizzabile. Da quel giorno non fui più solo sulla montagna: c’era la sua essenza luminosissima e multicolore a farmi compagnia. In Lei trovai presto un principio di fede e, armato di questo principio, decisi di lasciare la mia spelonca e scendere tra gli uomini per incontrarla, ma Lei non era più. Al suo posto trovai il mio demone più terribile, il demone dell’impossibilità, del «tu non puoi», del «a te non è concesso». Avrei dovuto seppellirlo sotto una colossale risata, ma il mio sentimento del tragico, troppo profondo, mi impedisce di ridere e così il demone terribile ebbe la meglio, distruggendomi con un semplice soffio.
Tornato, malconcio ed esausto, sulla montagna, vi trovai la mia ombra, come Zarathustra, alla fine dei suoi vagabondaggi e dei suoi discorsi, trova la sua:

Troppe cose mi si sono svelate: ora nulla mi tocca più. Nulla vive più che io ami, – come potrei ancora amare me stesso?
“Vivere come ne ho voglia o non vivere affatto”: così voglio io, così vuole anche il più santo. Ma, ahimè, posso io avere ancora – voglio?
Ho io – ancora una meta? Un posto cui la mia vela tenda?
Un buon vento? soltanto chi sa dove sta andando sa anche qual vento è buono e qual è il suo vento di rotta.
Che mi resta? Un cuore stanco e arrogante; una volontà incostante; ali tarpate; una spina dorsale spezzata.
[…] A essere instabili come te finisce per apparire luogo beato anche una prigione. Vedesti mai come dormono i delinquenti in prigione? Dormono tranquilli, godono la loro nuova sicurezza.
Sta in guardia perché alla fine tu non rimanga imprigionato in un’angusta fede, in una dura, severa illusione! Ormai infatti ti seduce e tenta qualsiasi cosa purché angusta e solida.
Hai perso la meta: ahimè, come potrai dimenticare questa perdita, come potrai consolartene? Poiché con essa – hai perduto anche la strada.
Tu, povero errabondo, sognatore, tu, stanca farfalla! [215]

Zarathustra e la sua ombra restano entità separate (anche il profeta di Nietzsche finisce per cedere alla tentazione dell’eternità), mentre io sono divenuto la mia ombra, ombra spettrale e impalpabile, sottile e sfuggente, gli occhi ogni giorno più infossati, incavati, costretti a una semioscurità permanente. Dopo il confronto con il mio demone più terribile, il demone dell’impossibilità, del «tu non puoi», del «a te non è concesso», tutto mi è stato svelato e sottratto, tutto, e non c’è più niente che mi tocchi e neppure mi sfiori, non c’è più niente di vivo che io ami, me stesso compreso. Non ho più alcun volere e anche se la mia vita cambiasse radicalmente, non sentirei nulla. Non ho più una meta – perché era Lei la mia meta. Non ho più un posto, un porto verso cui la mia vela tenda – perché era Lei il mio posto e il mio porto. Non c’è più un vento favorevole intorno a me che mi sospinga, ma una bonaccia invincibile, di ghiaccio, che cristallizza le acque. Non mi resta più niente, neppure il cuore, neppure una volontà incostante, ma solo una grande stanchezza, che è dappertutto, negli occhi, nella testa, e che potrebbe inghiottire il mondo intero in uno sbadiglio.
La mia prigione di dolore non mi apparirà mai come un luogo beato e non troverò mai la serenità nella mia detenzione. Rassegnazione e indifferenza, forse, ma non serenità. I miei sonni nel dolore non saranno mai tranquilli, ma non per questo tenterò di evadere, perché non servirebbe a niente. Non c’è possibilità di evasione dal mio stato: il nulla non si può forzare. E non c’è più niente che mi tenti, per quanto angusto e solido. Sono giunto nel punto più profondo e freddo dell’essere, dove ogni strada si interrompe, dove la meta è la fantasia di un pazzo, ma a me la consolazione della follia non sarà mai concessa. Io sono condannato a restare presente a me stesso fino all’ultimo istante.
Nella mia inaccessibile spelonca non riecheggia più la sua voce, non risplende più la sua miracolosa luce. Sono tornati il silenzio e il buio, nella loro forma definitiva, più estrema, assordante e accecante. Se di tanto in tanto risuona una sua parola oppure brilla un suo lampo fugace, è perché sono io a rievocarli, senza rendermene conto. Il mio demone più terribile, il demone dell’impossibilità, del «tu non puoi», del «a te non è concesso» mi è entrato dentro, è parte di me, come un tempo lo era Lei, e non esiste esorcismo che possa liberarmi da lui. Tutto muore intorno a me, un po’ di più ogni giorno. Tutto sbiadisce, fino a diventare indistinguibile nelle tenebre che mi circondano. Vediamo il mondo non per quello che è, ma per come lo riflettono i nostri occhi e io non vedo che buio, ovunque e sempre, prima, durante e dopo di me.
Incarnazione del mio demone più terribile, quel giorno Lei mi ha annientato, e se un tempo era dentro di me come il sogno più bello, oggi è dentro di me come una malattia mortale.
Ci sono tanti modi per uccidere un uomo e spesso non serve muovere un dito: bastano una parola o uno sguardo. Ogni giorno uccidiamo qualcuno che ci sta accanto senza neanche rendercene conto. Lei quel giorno mi ha ucciso, senza accorgersene, e poi è tornata alla sua vita, come se niente fosse stato, come se non ci fossimo mai conosciuti. Esiste davvero un momento giusto per morire, come insegna Zarathustra? Sì, ed è probabilmente il momento in cui un uomo è davvero felice. Io ho provato una gioia profonda e incontenibile, nuova e indefinibile vedendola, riconoscendola da lontano, avvicinandomi a Lei e rivolgendole la parola per la prima volta: quello era il mio momento giusto per morire e Lei non se l’è fatto scappare.

NOTE

[213] Franz Kafka, Il processo, traduzione di Giuseppe Landolfi Petrone e Maria Martorelli, in Id., Tutti i romanzi, i racconti, pensieri e aforismi, Newton Compton editori, Roma 2013, p. 291.

[214] Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., p. 314.

[215] Ivi, pp. 382-383.

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