Soliloquio del dolore – 13

La sostanza delle cose non cambia, in nessun caso. Non c’è niente che possa dare un senso alla vita, niente che possa colmare il vuoto di significato nel quale agiamo e che si nasconde nel fondo di ognuno di noi. Tuttavia, anche per l’uomo consapevole delle terribili verità negative che regolano l’esistenza, nonostante l’atavica inadeguatezza, è possibile trovare un equilibrio, per quanto fragile e temporaneo, che permette di convivere con l’insensatezza, con l’assurdità, con il sentimento del nulla, con il peso del dolore e resistere, come mostrano le biografie di molti pensatori e scrittori coscienti.
L’affermazione di se stessi, delle proprie idee, delle proprie creazioni e l’amore, in ogni sua forma, dalla donna a Dio, sono le principali armi di resistenza e di lotta alla disperazione. Io non ho potuto contare su nessuna di queste armi, certamente per miei demeriti, e così, negli ultimi quattro anni, dalla conclusione del mio percorso accademico, ho finito per rinchiudermi in me stesso, nella mia prigione, in un isolamento severo, austero, interrotto di tanto in tanto, per qualche breve ora mio malgrado. Per non subire ulteriori delusioni, che di certo non avrei saputo sopportare e superare, a causa della mia maledetta sensibilità sovrasviluppata, ho rinunciato a tutto e mi sono trincerato nell’indifferenza, quell’indifferenza fondata sul principio secondo il quale ciò che ignoro non esiste, che sola avrebbe potuto permettermi di non cedere alla tentazione di scomparire e infliggere così ai miei genitori la più atroce delle sofferenze. Nel vuoto ho scavato altro vuoto e mi sono auto-imprigionato in uno stato di esclusione feroce e inespugnabile, nel quale la consapevolezza ha assunto, giorno dopo giorno, la dimensione totalizzante e torturante della malattia, concedendomi un solo pensiero: la morte. Ogni singolo giorno rappresentava un compromesso e per una natura estrema come la mia, qualora non fosse ancora chiaro, non c’è niente di più sgradevole e umiliante del compromesso. Fu all’interno di questo contesto esistenziale desolato e desolante che apparve Lei, all’improvviso, come se avesse atteso il momento culminante del mio precoce distacco dalla vita per mostrarsi e venirmi in soccorso.
Lei è stata la luce che ha squarciato le tenebre e ciò che all’inizio mi apparve come un lampo improvviso, estemporaneo, giorno dopo giorno divenne un sole. Finalmente potevo contare sull’ammirazione, la stima, l’affetto e la presenza costante di una donna che sapeva comprendermi e apprezzarmi davvero, che in ogni parola mi restituiva la fiducia in me stesso e nelle mie capacità. Certo, fisicamente Lei non c’era e non poteva esserci, ma questo non mi impediva, e non lo impediva a Lei, di provare un senso di completezza, di interezza mai provato prima: Lei mi completava e io completavo Lei, in una unione spirituale, dai riflessi fisici, perché la scrittura è anche questo, fisicità, così profonda, intima e potente da trascendere tempo e spazio, da trascendere le circostanze e la vita, in sostanza. La sua apparizione fu un autentico miracolo e io, così radicale, così assoluto, sempre teso tra il bianco e il nero, tra il niente e il tutto, tra il freddo e il caldo, pur non potendo godere appieno del suo amore, decisi comunque di restare, di accettare ciò che il caso mi lasciava, una sfumatura, una parte, consapevole del fatto che se ci fossimo incontrati in circostanze diverse, liberi entrambi, Lei avrebbe potuto amarmi, Lei, la prima, l’unica. Se avessi rifiutato la sua miracolosa presenza nella mia vita, le avrei fatto del male e avrei fatto del male a me stesso, e nessuno di noi due meritava di soffrire, non per causa nostra almeno. I miei testi l’avevano sconvolta e la nostra corrispondenza, o meglio, il nostro rapporto, da subito intimo e profondo, le stava cambiando la vita… Sapere di essere nei suoi pensieri, sapere di poter ricevere una sua lettera da un momento all’altro, saperla sempre in compagnia della Pentesilea di Kleist che le avevo regalato, era una consolazione insperata e, grazie a Lei, alle sue attenzioni e al suo affetto, smisi finalmente di pensare esclusivamente alla morte. Ora c’era Lei nei miei pensieri, Lei, incontrastata protagonista di tutti i miei sogni. Mi vedevo con i suoi occhi e, per la prima volta dopo tanti, troppi anni, non provavo ribrezzo verso me stesso. Grazie a Lei il mio cuore incenerito, carbonizzato tornava a ravvivarsi, a pompare sangue e la mia anima rasa al suolo a ricostruirsi, un pezzo alla volta. Nel mio mondo grigio e polveroso, ridotto a un cumulo di macerie, desertico e infecondo, era nato e cresceva, ogni giorno più forte e rigoglioso, un albero, vivace macchia di colore nel grigiore: il nostro rapporto, il nostro legame. Nel mio isolamento mi avviavo inesorabilmente verso il silenzio – Lei mi ricondusse alla scrittura. Nella mia feroce consapevolezza non vedevo che la realtà, nuda e spigolosa, tremenda – Lei mi ricondusse al sogno. Non potevo chiedere di più e proprio a causa dell’impossibilità di vivere totalmente Lei e il nostro legame, ai suoi occhi mi sforzavo di contenere l’entusiasmo, la gioia e la passione, che nelle sue lettere invece fluivano libere, per non spaventarla, per non metterla in difficoltà e, soprattutto, per non lasciarmi travolgere da un amore lontano, impossibile, disperato, senza futuro e che, in quanto tale, se avesse preso il sopravvento mi avrebbe definitivamente annientato.
Ma, nonostante le precauzioni, questa storia mi ha annientato lo stesso… Prima della sua miracolosa apparizione, una vera e propria epifania, credevo di essere morto, mentre invece mi trovavo piuttosto in uno stato di coma. Lei, con la sua ammirazione, la sua comprensione, il suo affetto sfumato d’amore, mi ha rianimato e riportato alla vita. L’ho capito quando, dopo un anno e mezzo di lettere, finalmente ho incontrato il suo sguardo. La sua presenza fisica mi trasmise immediatamente forza e coraggio, una forza e un coraggio giovanili, che non credevo più di possedere. In quel momento, vedendola davanti a me in carne e ossa, ancor più bella di quanto le sue fotografie mi avessero lasciato immaginare, compresi che, nonostante l’impossibilità, nonostante la vita non avrei mai rinunciato a Lei, per nessuna ragione. Credevo che il culmine della disperazione fosse averla conosciuta in queste circostanze, in quell’istante compresi che il culmine della disperazione sarebbe stato perderla nonostante le circostanze. Ero disposto ad accettare qualunque condizione pur di restare nella sua vita… Nell’ultimo anno e mezzo era diventata parte di me, e la mia parte più vitale, dunque necessaria. Dio mio, l’avevo cercata ovunque, per così tanto tempo e ora, dopo tante lettere, era davanti a me! Finalmente potevo osservarla, ammirarla, accarezzarla e accompagnarla con lo sguardo, parlare con Lei, abbracciarla e tenerle la mano. Non ho mai provato un entusiasmo così travolgente come in quel momento. Non si trattava di un sogno, di una fantasia… Lei era lì, in carne e ossa, a un passo, un solo passo da me e potevo sentirne l’odore! Lei esisteva davvero!
Avrei voluto rubare almeno un’ora a questa vita e farla nostra, solo ed esclusivamente nostra. Avrei voluto dirle tutto ciò che, fino a quel momento, ero stato costretto a tacere, quanto fosse diventata importante per me, quanto fosse diventata necessaria. Avrei voluto vivere realmente le emozioni vissute per corrispondenza, avrei voluto conoscere i suoi lati a me ancora ignoti, la sua parte più giocosa, leggera, infantile e la sua parte più cupa, ostile. Avrei voluto che Lei fosse felice della mia presenza al suo fianco come io lo ero della sua. Insomma, per farla breve, avrei voluto che il nostro primo incontro celebrasse il nostro rapporto, ne rappresentasse il coronamento, sapendo quanto anche Lei lo avesse desiderato e immaginato.
Ma la realtà non è mai all’altezza del sogno, e così il nostro primo incontro ha sancito la fine del nostro rapporto e resterà l’ultimo. Non ho saputo, o forse voluto, presagendo l’esito catastrofico, interpretare le sue lunghe pause degli ultimi mesi e non ho capito che per Lei il nostro rapporto non era più lo stesso, si era come intiepidito, se non del tutto raffreddato. Così, quando me lo ha detto, mettendomi faccia a faccia con l’atroce realtà, mentre camminavamo uno affianco all’altra, mi sono sentito morire, anzi, sono morto in quel momento. L’ho sentita di colpo lontanissima da me, come se non fosse più Lei, ma un’altra donna a me completamente sconosciuta, con la quale non avevo mai scambiato una parola prima d’ora, e mi sono sentito sprofondare di nuovo nell’insensatezza e nel vuoto, quel vuoto Lei sola era stata capace di colmare. In quel momento terribile, il cui ricordo mi perseguiterà fino all’ultimo dei miei giorni, ho capito di averla perduta per sempre…
C’è un quadro di Munch che rappresenta alla perfezione il mio stato d’animo in quell’istante mortale. Si intitola Separazione e raffigura due soggetti: una donna dai lunghi capelli biondi, vestita di bianco, che si allontana, e un uomo, vittima dell’abbandono, gli occhi chiusi, che stringe con una mano il cuore sanguinante. Risulterò svenevole, melodrammatico e mi detesto per questo, credetemi, ma da quel giorno anche il mio cuore sanguina copiosamente. Lo stringo con forza, utilizzando entrambe le mani, ma non riesco ad arrestare l’emorragia. Ormai si è quasi svuotato del tutto, sta morendo di nuovo e questa volta per sempre (io stesso voglio che questa volta sia per sempre). Tra poco tornerà a essere un sasso privo di vita, un pugno di lava disseccata che al massimo potrò utilizzarlo come portacenere.
I rapporti cambiano perché noi cambiamo. I rapporti terminano perché noi terminiamo. Ero certo di incontrare una Lei che, evidentemente, non esiste più, quella Lei che mi scriveva parole dolci, amorevoli, illuminanti, che diceva di tornare sempre da me, nonostante gli impegni e le fatiche quotidiane, che mi aveva donato una sua parte, assicurandomi che sarebbe stata per sempre mia, mia solamente, per la quale ero un punto di riferimento, una Stella Polare, fortezza e rifugio, quella Lei che è andata dispersa nel naufragio della vita, travolta dalle faccende di tutti i giorni, dalle responsabilità, dal trauma della pandemia. Lei ora è un’altra donna e non ha più bisogno di me, Lei ha scavalcato la nostra storia ed è andata oltre, escludendomi dalla sua vita e dal suo cuore. La sua parte razionale, distaccata e diffidente ha ripreso del tutto il controllo e, non appena mi ha visto emotivamente troppo coinvolto, si è ritratta inorridita. Dell’antica Lei, durante il nostro incontro, ho trovato sguardi, sorrisi, gesti, ma sfuggenti, inconsapevoli. La sua ragione non ammette più simili divagazioni, simili distrazioni. Il nostro rapporto le è stato utile per giungere a una nuova fase del suo sviluppo personale ed esistenziale, una fase in cui non c’è posto per me e per il mio amore disperato. Lei ora è un’altra donna e resterò solo a ricordare quella che è stata, che solamente a me si è mostrata, in tutto il suo abbagliante splendore. Io continuerò ad amare quella Lei, di cui pure in questa nuova Lei sono certo resti una traccia, ma sepolta troppo in profondità, nell’angolo più angusto della sua persona, nel quale un tempo mi era consentito accedere, ma ora non più. Non sono più autorizzato a vedere e conoscere, e non saprò mai che effetto le abbia fatto vedermi, quali sensazioni abbia provato standomi accanto. Forse è meglio così, perché considerando l’epilogo della nostra storia, è assai probabile che il nostro incontro l’abbia lasciata indifferente, e questo sarebbe un dolore che non potrei proprio sopportare.
Solo, nudo, esaurito, disperato, senza più un appiglio intorno a me, immerso in un buio che non è mai stato così nero, come l’uomo del sottosuolo non posso fare altro che cercare conforto nella chiacchiera fine a se stessa, nel soliloquio, nel «premeditato travasare dal vuoto nel vuoto» [98]. Non mi resta altro, ma per ora basta così.
Mi alzo dalla scrivania, distrutto, i glutei indolenziti, perché il cuscino di carne si assottiglia ogni giorno di più e sono direttamente le mie ossa a fare i conti con le superfici ormai, e mi getto sul letto, un’ultima sigaretta tra le labbra. Un gallo canta già, ma c’è ancora tempo perché Lei mi visiti in sogno e mi ricordi che non c’è più. Ecco cos’è ora la mia esistenza: passare da un vuoto all’altro, dal vuoto del giorno al vuoto della notte, dal vuoto della veglia al vuoto del sonno, dal vuoto della realtà al vuoto del sogno.

NOTE

[98] Fëdor Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, a cura di Igor Sibaldi, Mondadori, Milano 2014, p. 27.

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