Soliloquio del dolore – 12

Come scrive Tolstoj nella Confessione, l’assurdità ovvero l’insensatezza della vita è «l’unica verità certa accessibile all’uomo» [70]. È la morte a svuotare completamente di senso l’esistenza umana, rivelandone la spaventosa inutilità:

Un giorno o l’altro giungerà la malattia o la morte […] a colpire le persone che amo o me stesso, e di noi non rimarranno altro che i vermi e il fetore. Le mie azioni prima o poi verranno tutte dimenticate, e io non ci sarò più. E allora perché affannarsi tanto? È davvero stupefacente che un uomo possa vivere e non vedere tutto questo! È possibile vivere solo finché si è ubriachi di vita, ma non appena si torna sobri, non si può fare a meno di vedere come tutto sia solo un inganno, e uno stupido inganno! E in tutto ciò, e questo è il peggio, non v’è nulla di buffo né di spiritoso, ma tutto è semplicemente crudele e sciocco [71].

La morte è l’unico, vero destino dell’uomo e non esiste morale, non esiste sforzo, non esiste atto che siano «giustificabili a priori davanti alla sanguinante matematica che regola la nostra condizione» [72]. Tutto ciò che è, tutto ciò che esiste, uomini, animali, piante, minerali, è destinato a scomparire, a fare ritorno in quel nulla dal quale è uscito per un puro capriccio del caso e l’universo stesso, in tutta la sua incommensurabile, e proprio per questo claustrofobica, vastità, è destinato alla distruzione, come annuncia Leopardi in conclusione del Cantico del gallo silvestre, il momento più cupo e severo non solo delle Operette morali, ma dell’intera produzione leopardiana:

Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro meravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna; parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi [73].

Il solo scopo dell’essere, di ogni essere, è morire, e per quanto l’uomo si dia da fare, corra di qua e di là, esplori e inventi, generi nuove vite, si dedichi ai propri sogni e alle proprie speranze, al perseguimento del piacere e alla ricerca della felicità, sudando e soffrendo, è sempre e comunque alla morte, «solo intento della natura» [74], che infine approda. È la distruzione il fine di ogni singola particella dell’universo, che vi si affretta «con sollecitudine e celerità mirabile» [75].
Alla luce del destino mortale dell’uomo, ogni sua singola azione, dalla più insignificante alla più grandiosa, dalla scrittura di questo testo alla conquista dello spazio, appare vana, fine a se stessa, priva di significato e inconsistente, inutile come un miraggio. Viviamo nell’illusione di avere un senso, di perseguire uno scopo, di essere parte di un disegno grandioso, divino oppure umano, mentre in realtà siamo niente, del vuoto travasato nel vuoto e tutto, noi stessi e ogni nostro atto, non è altro che vanità. È spaventoso constatare ogni maledetto giorno come nel nome del niente si spargano sangue e violenza. Più un individuo è inutile e impotente, più si crede necessario e grande, e le redini del mondo sono in mano a Erostrati che ce l’hanno fatta. Quando un giorno finalmente ci renderemo conto di tutto questo, della nostra miseria, della nostra insignificanza, della nostra inutilità, sarà troppo tardi e non avremo più tempo per rimediare.
Privato delle sue antiche, aristocratiche certezze e incapace di desiderare, Tolstoj si aggrappa, prima di giungere alla fede, alla scienza sperimentale e alla scienza speculativa, ovvero alla filosofia, ma non trova conforto, non trova la risposta alle sue terribili domande e questo perché la ragione «rende impotente colui che l’usa, e tanto più quanto maggiore uso ei ne fa, e a proporzione che cresce il suo potere, scema quello di chi l’esercita e la possiede, e più ella si perfeziona, più l’essere ragionante diviene imperfetto: ella rende piccoli e vili e da nulla tutti gli oggetti sopra i quali ella si esercita, annulla il grande, il bello, e per così dire la stessa esistenza, è vera madre e cagione del nulla, e le cose tanto più impiccioliscono quanto ella cresce; e quanto è maggiore la sua esistenza in intensità e in estensione, tanto l’esser delle cose si scema e restringe ed accosta verso il nulla» [76]. All’insensatezza e al nulla, una volta scoperte, non c’è scampo e, ancor prima della conversione, è possibile ricondurre proprio a questa spaventosa e distruttiva scoperta il secondo Tolstoj, il Tolstoj davvero grande, nato dalle ceneri dell’aristocratico, effimero e superficiale autore di Guerra e pace e Anna Karenina.
Insensatezza, morte, distruzione, nulla, vanità e oblio:

Non resta più ricordo degli antichi,
ma neppure di coloro che saranno
si conserverà memoria
presso coloro che verranno in seguito [77].

L’uomo si affanna, fatica sotto il sole e per cosa? Quale utilità ricava dai suoi sforzi? Tutto resta e si ripete così com’è, senza che ci sia alcuna novità sostanziale, prima di svanire per sempre. Una generazione scompare, una nuova generazione nasce; il sole sorge, tramonta e poi sorge di nuovo; il vento soffia, gira e rigira e sopra i suoi eterni giri ritorna:

Ciò che è stato sarà
e ciò che si è fatto si rifarà;
non c’è niente di nuovo sotto il sole [78].

Non c’è niente che arresti questo millenario processo di produzione e distruzione, nel quale l’uomo non è altro che una minuscola parentesi con i suoi regni, con i suoi imperi, con le sue sanguinose guerre mondiali, combattute tutte nel nome del niente. La storia umana non è altro che una sterminata distesa di cadaveri:

ed ecco da traverso
piena di morti tutta la campagna,
che comprender nol pò prosa né verso;
da India, dal Cataio, Marrocco e Spagna
el mezzo avea già pieno e le pendici
per molti tempi quella turba magna.
Ivi eran quei che fur detti felici,
pontefici, regnanti, imperadori;
or sono ignudi, miseri e mendici.
U’ sono or le ricchezze? u’ son gli onori
e le gemme e gli scettri e le corone
e le mitre e i purpurei colori?
Miser chi speme in cosa mortal pone
(ma chi non ve la pone?), e se si trova
a la fine ingannato è ben ragione.
O ciechi, el tanto affaticar che giova?
Tutti tornate a la gran madre antica,
e ‘l vostro nome a pena si ritrova.
Pur de le mill’ è un’utile fatica,
che non sian tutte vanità palesi? [79]

Tutto viene dal nulla e tutto torna nel nulla, non c’è scampo, come non c’è scampo al dolore e all’infelicità, immanenti alla condizione umana e, più in generale, alla condizione di ciò che è, di tutto ciò che è: «Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl’individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi» [80]. Non c’è niente di più chiaro, evidente, palpabile dell’«infelicità necessaria di tutti i viventi» [81], e se questa infelicità, che ho sempre percepito fisicamente oltreché spiritualmente, sentendomela addosso, non è vera, allora tutto è falso e dovremmo davvero lasciar perdere questo e ogni altro discorso, come dichiara Eleandro [82].
Anelando all’impossibile, desiderando quella «felicità ignota ed aliena dalla natura dell’universo» [83], l’uomo non fa altro che aggravare la sua condizione naturalmente, necessariamente miserevole: al dolore e all’infelicità non c’è rimedio. Per questo motivo Farfarello non può esaudire la richiesta di Malambruno, non può renderlo felice neppure «per un momento di tempo» (neppure «per un momento di tempo», capite? è devastante il dramma che si cela dietro questa impossibilità), perché ciò è tanto possibile «per un momento, anzi per la metà di un momento, e per la millesima parte; quanto per tutta la vita» [84]. Come non è possibile essere felici, non è possibile non essere infelici, perché l’infelicità è indissolubilmente legata al nostro amor proprio, al quale siamo incapaci di rinunciare. L’amor proprio alimenta il desiderio di felicità, quel desiderio assurdo, innaturale che non può essere in alcun modo soddisfatto e che dunque rende impossibile la liberazione dall’infelicità. L’uomo è così condannato, per sua stessa natura, all’infelicità, che lo perseguita dal primo all’ultimo dei suoi giorni, e Malambruno, finalmente consapevole di ciò, giunge alla terribile conclusione che «il non vivere è sempre meglio del vivere» [85]. Farfarello può offrirgli solamente la morte («se ti pare di darmi l’anima prima del tempo, io sono qui pronto per portarmela» [86]), l’unica soluzione possibile alla nostra condizione di dolore e infelicità: vivere è soffrire.
L’uomo non ama la vita, bensì la possibilità di felicità offerta dalla vita, o meglio, dal restare-in-vita. Ma l’una esclude l’altra e il piacere, di cui tanto ci riempiamo la bocca e che rincorriamo ogni giorno come ossessi, non è che un oggetto speculativo e irreale, un desiderio, un’aspirazione e non un fatto, un concetto, un’idea e non un sentimento. Il piacere non esiste. Crediamo di godere o di aver goduto, ne parliamo con entusiasmo e superbia agli altri, tentando di persuadere innanzitutto noi stessi, ma si tratta solamente di un’illusione, di una convinzione falsa e fantastica come il sogno. Vivere è utile tanto quanto sognare. Il piacere è sempre passato o futuro, mai presente, il che «è quanto dire è sempre nulla» [87]. Raccontiamo, a noi stessi e agli altri, di aver goduto, condividiamo le nostre aspettative e diciamo che godremo, mai che stiamo godendo. Un dramma senza fine, senza soluzione, perché il fine ideale della vita umana è proprio il piacere, ovvero la felicità, e mancando sempre del suo fine la nostra esistenza è permanentemente imperfetta e dolorosa: «il vivere è di sua propria natura uno stato violento» [88]. Così, tra il sogno e l’illusione, consumiamo la nostra vita, senz’«altra utilità che di consumarla» [89]: ecco lo scopo dell’esistenza umana, il motivo per cui ogni sacrosanto mattino ci svegliamo e ci facciamo carico del peso della vita. Viviamo per esaurirci, nient’altro.
Il destino di distruzione, di infelicità, di dolore riguarda indistintamente tutti gli esseri, uomini, animali e piante, ma la coscienza rende la condizione umana la più penosa e miserevole di tutti: essere un uomo significa, o almeno dovrebbe significare, non avere scampo, fare i conti ogni giorno, in ogni circostanza con la propria miseria, la propria insignificanza, la propria impotenza. Nessuno status è felice, la miseria è un male incurabile che riguarda tutti gli uomini, senza distinzioni e non c’è patrimonio che tenga. Inoltre non esiste condizione così miserevole da non poter peggiorare, perché la natura non ha «posto alcun termine ai nostri mali» [90]: al peggio non c’è mai fine, la miseria è un abisso senza fondo.
Il destino mortale, la condanna permanente al dolore e all’infelicità, rendono la nascita una vera e propria tragedia. Già nel momento archetipico del parto la vita rivela il suo carattere drammatico: l’uomo nasce a fatica, con dolore e la nascita è un pericolo per il neonato e la madre. Pena e tormento sono le prime sensazioni provate dal nascituro, divelto suo malgrado dal grembo materno: il freddo pungente che irretisce le membra, l’aria che brucia i polmoni, la luce che strappa gli occhi. E già i genitori lo consolano dell’essere venuto al mondo, senza che nessuno gli abbia mai domandato se lo volesse oppure no. La nascita è il danno irrimediabile, «l’accidente mortale» [91] che imprime all’esistenza umana il suggello della tragedia e sin dal primo istante di vita del neonato i genitori devono sforzarsi di redimere e alleviare il danno arrecato al figlio generandolo. La vita è male, perché tutto ciò che è, è male, perché l’ordine delle cose è fondato nel male [92], e ciò che nell’uomo raggiunge l’evidenza e la drammaticità massime, in realtà riguarda, ancora una volta, ogni essere vivente:

in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna
è funesto a chi nasce il dì natale [93].

Il non-essere è meglio che l’essere e in queste terribili condizioni l’uomo sembra nascere solo ed esclusivamente per conoscere quanto sarebbe stato molto più conveniente, molto più vantaggioso non nascere: «Dimandato a che nascano gli uomini rispose per ischerzo: a conoscere quanto sia più spediente il non esser nato» [94]. Il socratico Filippo Ottonieri anticipa l’atroce verità formulata dal saggio Sileno (fondamentale notare come entrambi i personaggi ridano), nietzschiano custode della saggezza dionisiaca, ovvero di quel sentimento del tragico represso sotto e attraverso la luminosa e inautentica maschera dell’apollineo:

L’antica leggenda narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde infine tra le mani, il re domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile, il demone tace; finché, costretto dal re, esce da ultimo fra stridule risa in queste parole: “Stirpe miserabile ed effimera, figlia del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto” [95].

Eppure, nessuno dei pensatori e degli scrittori consapevoli della verità di Sileno si uccide, o almeno non esplicitamente per questo motivo. I suicidi di Kleist, di Weininger, di Michelstaedter sono l’esito naturale di un precoce esaurimento esistenziale, in cui l’elemento filosofico gioca certamente un ruolo importante, ma non è esplicitamente dichiarato. Nella storia del pensiero occidentale esiste un solo, vero filosofo del suicidio: Philipp Mainländer, pseudonimo di Philipp Batz. Devoto e quasi fanatico discepolo di Schopenhauer, di cui reinterpreta radicalmente il pensiero, Mainländer, peraltro influenzato in modo decisivo da Leopardi, pone alla base della propria riflessione speculativa il sileniano principio morale secondo il quale il non-essere è meglio che l’essere. Al contrario del suo illustre maestro, Mainländer individua la cosa in sé non nella «volontà di vita», bensì nella «volontà di morte», comune a tutti gli esseri, Dio compreso, la cui morte, o meglio, il cui suicidio dà origine al mondo. Il mondo nasce dalla volontà divina di passare dall’essere al nulla, dalla «autocadaverizzazione di Dio». Da ciò deriva la concezione del mondo come manifestazione di questa volontà di autoannullamento. Il filosofo vede ovunque nell’universo il desiderio profondo di un assoluto annichilimento e sente invocare, attraverso le sfere celesti, la redenzione, possibile attraverso la morte.
Mainländer fonda una sorta di ateismo scientifico, sostituendo alle tradizionali religioni della redenzione, come il Buddhismo e il Cristianesimo, la sua Filosofia della redenzione – è questo il titolo della sua prima e unica opera. Dopo averne ricevuta la prima copia a stampa si impicca, nella notte tra il 31 marzo e il 1 aprile 1876, a trentacinque anni. Mainländer è l’unico pensatore occidentale a fondare una filosofia sulla verità di Sileno, una filosofia che non si limita a teorizzare, ma che, con una coerenza feroce, mette in pratica subito dopo aver ottenuto la certezza della pubblicazione della sua opera, redimendo innanzitutto se stesso.
Quanto scritto finora giace nel fondo di ogni uomo: anche un semplice pastore, privo di cultura, è capace di giungere a queste verità, che definirei istintive [96]. Eppure nulla cambia, non avvengono sconvolgimenti interiori e tutto procede come sempre, gli uomini proseguono imperterriti nella loro marcia verso il niente, senza porsi domande. Vivere è la sola cosa che conta, vivere comunque e a ogni costo. La vita è una sola e troppo breve per lasciarsi irretire anzitempo dal nulla. Meglio illudersi, illudersi di godere, di gioire, di valere qualcosa e tirare avanti. Che si fotta la coscienza!
Vivere a tutti i costi: per fare ciò agli uomini conviene necessariamente credere che la vita sia bella, abbia un valore, un senso e meriti di essere vissuta, credere dunque non ciò che è vero, ma ciò che fa più comodo. E via così ad accumulare strati su strati di menzogne, di illusioni, di sciocchezze, di ideologie sovrastrutturali sotto le quali nascondere, seppellire la nostra miseria, la nostra insignificanza, la nostra inutilità, la nostra impotenza, la nostra insufficienza. È su queste menzogne, su queste illusioni, su queste sciocchezze, dunque sul vuoto che l’uomo erge le sue gloriose civiltà, destinate tutte, prima o poi, a crollare sotto il loro stesso peso e a scomparire nel nulla (credete forse che per la nostra civiltà sia diverso? siete davvero così ingenui?). Il genere umano non ammetterà mai a se stesso di non sapere niente, di essere niente e di non avere alcuna speranza. Chi vuole vivere, comunque vivere deve necessariamente ignorare, rimuovere, nascondere a se stesso la propria parte più buia, spaventosa, dionisiaca e fingersi sano e integro, forte e sapiente, ma la salute è in realtà malattia, l’integrità è in realtà abiezione normata, la forza è in realtà debolezza e la sapienza in realtà illusione. In tanta meschinità, in tanta disonestà intellettuale, all’uomo consapevole non resta che il riso. Fallito ogni tentativo di recidere le palpebre agli uomini, egli non può fare altro che ridere dei suoi simili e del loro presunto amore per la vita.
Non ho mai voluto essere un persuasore di morte. Sono stato semplicemente così ingenuo, così idealista da sognare un’umanità libera nella consapevolezza e ricondotta all’essenziale. Per questo motivo dovrei imparare a ridere innanzitutto di me stesso, e poi anche degli altri. È nell’ordine naturale delle cose che gli uomini reprimano le verità negative e si trascinino avanti alla buona, illudendosi e spalleggiandosi, ignorando l’insensatezza della vita e il proprio destino mortale fino a quando il caso glielo permetta, il nulla, la vanità, il dolore, l’infelicità, l’irrimediabile tragedia che si cela dietro una nascita. All’interno di questo ordine fondato sulla menzogna, l’anomalia non è l’uomo incosciente, l’uomo del comunque vivere, ma l’uomo consapevole, destinato a restare inascoltato e a morire solo. Le sue verità non sono per questo mondo che va e deve andare avanti, nonostante gli inquietanti scricchiolii. La sua «favola della vita» è destinata a concludersi presto e il solo pensiero che il corpo possa sopravvivere allo spirito per chissà quanti anni ancora, lo riempie d’angoscia. Ogni suo pensiero finisce per concentrarsi sulla morte e, come Tristano-Leopardi, non scambierebbe nessuna fortuna con una fine istantanea: «Se mi fosse proposta da un lato la fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro netta da ogni macchia, dall’altro di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi, morir oggi, e non vorrei tempo a risolvermi» [97].

NOTE

[70] Lev Tolstoj, La confessione, traduzione di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli, Milano 2019, p. 33.

[71] Ivi, p. 29.

[72] Albert Camus, Il mito di Sisifo, cit., p. 17.

[73] Giacomo Leopardi, Cantico del gallo silvestre, in Id., Operette morali, cit., 576-577.

[74] Ivi, p. 576.

[75] Ibidem.

[76] Giacomo Leopardi, Zibaldone, cit., pp. 627-628.

[77] Qoelet, in La sacra Bibbia, edizione ufficiale della C.E.I., a cura della Unione editori e librai cattolici italiani, Roma 1999, p. 629.

[78] Ivi, p. 628.

[79] Francesco Petrarca, Trionfo della Morte, in Id., Trionfi, a cura di Guido Bezzola, Rizzoli, Milano 1997.

[80] Giacomo Leopardi, Zibaldone, cit., p. 898.

[81] Giacomo Leopardi, Dialogo di Timandro e di Eleandro, in Id., Operette morali, cit., p. 583.

[82] Ibidem.

[83] Giacomo Leopardi, Storia del genere umano, in Id., Operette morali, cit., p. 496.

[84] Giacomo Leopardi, Dialogo di Malambruno e di Farfarello, in Id., Operette morali, cit., p. 511.

[85] Ivi, p. 512. Corsivo mio.

[86] Ibidem.

[87] Giacomo Leopardi, Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, in Id., Operette morali, cit., p. 530.

[88] Ivi, p. 531.

[89] Ivi, p. 532.

[90] Giacomo Leopardi, Detti memorabili di Filippo Ottonieri, in Id., Operette morali, cit., p. 559.

[91] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, cit., p. 128.

[92] «[…] che epiteto dare a quella ragione e potenza che include il male nell’ordine, che fonda l’ordine nel male? […] che sperare quando il male è ordinario? dico, in un ordine ove il male è essenziale?» (Giacomo Leopardi, Zibaldone, cit., p. 1000).

[93] Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, in Id., Canti, cit., p. 164.

[94] Giacomo Leopardi, Detti memorabili di Filippo Ottonieri, in Id., Operette morali, cit., p. 559.

[95] Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, traduzione di Sossio Giametta, Adelphi, Milano 2018, pp. 31-32.

[96] Un pastore o un contadino, come Berto nel Podere di Tozzi: «Da qui in avanti, non vorrei essere né meno un signore. L’uomo è sempre stato male, per quello che capisco io, fino da Adamo» (Federigo Tozzi, Il podere, introduzione e note di Luigi Baldacci, Garzanti, Milano 2018, p. 86).

[97] Giacomo Leopardi, Dialogo di Tristano e di un amico, in Id., Operette morali, cit., p. 606.

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