Non voltarti – X-XIII

X

Sonia e Alessio si rividero alcuni giorni dopo. Sonia aveva invitato Alessio a cena a casa sua, un piccolo appartamento di quarantacinque metri quadri, ma grazioso e luminoso.
“Questa donna ha mandato all’aria il suo matrimonio a causa dei miei testi, testi che mai nessuna casa editrice ha preso in considerazione,” pensò Alessio ritrovandosi Sonia davanti agli occhi. Gli sorrideva sulla porta. Qualcosa in quel momento si spezzò dentro di Alessio, qualcosa che fino a quel momento aveva fatto attrito, lo aveva trattenuto al di qua. Era come se nella sua diga interiore si fosse aperta una crepa dalla quale iniziava a passare acqua, una crepa che si allargava attimo dopo attimo, permettendo ad una quantità d’acqua ogni secondo maggiore d’invadere il suo deserto.
Alessio portava con sé una bottiglia di vino rosso e una copia del Demone di Lermontov. Per lui, abituato a frequentare gli appartamenti provvisori, trascurati e bui delle prostitute, era emozionante entrare nella casa, la vera casa di una donna, in cui tutto era a misura di donna. Si guardava attorno con curiosità, soffermandosi su ogni particolare, come se volesse rubarlo. Era la prima volta che metteva piede nell’appartamento di Sonia, eppure si sentiva a casa, come se vi fosse già stato centinaia di volte, come se fosse la sua casa. Una sensazione strana e piacevole.
Alessio guardava Sonia destreggiarsi con agilità e leggerezza nel suo piccolo ambiente e sorrideva. Avrebbe voluto avvicinarsi a lei, stringerla a sé, per la prima volta. La trovava bellissima, più del solito, e per questo motivo Alessio tentò sin da subito di evitare gli specchi, o qualunque altra superficie che riflettesse la sua immagine, ricordandogli brutalmente la sua meschinità, la sua pochezza. Se fosse accaduto, sarebbe scappato a gambe levate da Sonia, troppo bella per lui.
– Fai come se fossi a casa tua, – disse Sonia. – Puoi scegliere la musica, se ti va.
– Va bene. Ti piace la musica elettronica?
– Sì.
Alessio scelse Closer to grey, l’ultimo album dei Chromatics, una band americana che aveva scoperto grazie al film Drive di Refn (no, non era solo mattoni russi dell’Ottocento). Drive era uno dei suoi film preferiti, anche se non avrebbe saputo spiegare il perché. Di certo la colonna sonora aveva avuto il suo peso nella valutazione positiva di Alessio, che aveva un rapporto strano, complicato con il cinema, di amore e odio. Riteneva che fosse troppo facile fare colpo sul pubblico con un film, e quando qualcuno in sua presenza definiva il cinema un’arte, storceva il naso. Aveva la stessa opinione della fotografia: troppo facile scattare una foto, molto, ma molto più difficile realizzare un dipinto, e ricordava sempre le parole di Dostoevskij nell’Adolescente, dove lo scrittore sostiene che un pittore, per realizzare un buon ritratto, un ritratto fedele all’originale, deve necessariamente cogliere l’essenza del soggetto, penetrarne l’anima, secondo un processo d’indagine psicologica del tutto assente nella fotografia. Di tutto questo, partendo dai Chromatics, Alessio parlò a Sonia.
Mentre apriva la bottiglia di vino e osservava di sottecchi Sonia, ad Alessio venne in mente che negli ultimi giorni non aveva pensato a Melissa, neppure per un momento, ma soltanto a lei, a Sonia, che ora gli appariva sotto una nuova luce, una luce pura e tenera, che fugava tutti i suoi dubbi e i suoi timori.
“Lei è come la pioggia,” pensò Alessio in quel momento, mentre apriva la bottiglia di vino e osservava di sottecchi Sonia, dopo essersi reso conto che negli ultimi giorni non aveva pensato neppure un secondo a Melissa, come se Melissa non esistesse più, ma soltanto a lei, a Sonia.
“Sì, lei è come la pioggia, lava via la polvere”.

XI

Terminata la cena, Sonia e Alessio sedevano sul divano. Alessio aveva accavallato le gambe, mentre Sonia le teneva sul divano, piegate di lato. Si era tolta le scarpe, i calzini ed era rimasta a piedi nudi. Alessio doveva lottare con tutte le sue forze per non cedere alla tentazione di ammirarli quei piedi, di divorarli con gli occhi, e aveva una voglia irrefrenabile di afferrare una mano di Sonia e stringerla nella sua, ma non osava farlo. Alla fine fu Sonia a prendergli la mano, come se avesse letto nei suoi pensieri: le loro dita s’intrecciarono, così, naturalmente, quasi senza volerlo. Alessio sorrise a Sonia, di un sorriso pieno di gratitudine per aver realizzato il suo desiderio.
– Quale viaggio vorresti fare? – domandò Sonia riprendendo un discorso avviato a tavola.
– Mi piacerebbe andare a Pietroburgo, – rispose Alessio, – visitare l’ultima casa e la tomba di Dostoevskij.
– Sarebbe un’ottima ragione per rimettersi in gioco.
– E pensare che se in questo momento se avessi la possibilità di andare a Pietroburgo, non potrei farlo. Una sciocchezza, certo, persino offensiva se paragonata al dramma delle vittime, ma che dimostra l’assurdità della guerra in Ucraina. Non immagini quanto mi amareggi vedere la Russia, che ho sempre considerato una sorta di patria spirituale, nelle mani di un simile tiranno. Meglio cambiare discorso. A te quale viaggio piacerebbe fare? – domandò Alessio, che non distoglieva lo sguardo dalla mano di Sonia, intrecciata alla sua.
– Io vorrei tornare a Parigi, e non solo per visitarla, ma per viverla. Parigi è una città che richiede tempo e pazienza. Tu ci sei mai stato?
– Sì, purtroppo solo per pochi giorni, cinque, sei al massimo. Ho tentato di vedere quante più cose possibili e sono tornato a casa distrutto. Quei giorni a Parigi mi hanno completamente svuotato. Non ci ho capito molto, era una corsa continua. Anch’io ci tornerò soltanto se avrò la possibilità di restarci per qualche settimana.
– Sì, è la cosa migliore. Anche perché viaggiare non è semplicemente prendere un aereo e passare qualche giorno in un luogo.
– Concordo. La facilità degli spostamenti ci ha fatto dimenticare completamente il senso più profondo del viaggio, che è quello di entrare nel tessuto di un luogo, di una città, di un paese, di una cultura, o almeno credo.
Alessio avrebbe voluto aggiungere che detestava il cosmopolitismo turistico, dozzinale dei nostri giorni, e avrebbe voluto parlare del primo, forsennato viaggio di Dostoevskij in Europa, e del suo terribile frutto letterario, quelle Note invernali su impressioni estive che sono un pugno nello stomaco per noi cosiddetti occidentali, ma non lo fece, per timore di risultare pedante e annoiare Sonia.
– Comunque, quando parli di Dostoevskij ti si illuminano gli occhi, – disse Sonia, come se avesse letto di nuovo nel pensiero di Alessio.
– Dostoevskij è molto più che un semplice scrittore per me, è un vero e proprio credo. E poi, l’ho scoperto pochi giorni fa, sfogliando L’idiota in cerca di una citazione sulla pena di morte, io nei libri di Dostoevskij mi sento a casa. Non credo che nella storia dell’uomo sia esistito un artista e un pensatore che abbia indagato così in profondità il mistero uomo. Del resto, lo dice anche Nietzsche: Dostoevskij è l’unico che mi abbia insegnato un po’ di psicologia, anche se si tratta di qualcosa di molto più profondo che della semplice psicologia, – disse Alessio costringendosi a non andare avanti. Avrebbe potuto parlare di Dostoevskij, di cui portava sempre con sé l’immagine, conservata nel portafogli, per ore e ore, ma, di nuovo, temeva di tediare Sonia. Ancora non aveva capito che Sonia lo avrebbe ascoltato per intere giornate, di qualunque argomento avesse parlato.
– Mia madre, che, come me, fa l’insegnante, mi ha iniziato da bambina alla letteratura, e credo avessi non più di dieci anni quando lessi per la prima volta, in un’antologia, un brano di Dostoevskij, tratto dai Fratelli Karamazov. Era il passo in cui viene raccontata la folle impresa di Kolja, che si sdraia sui binari e attende che il treno gli passi sopra. Quel brano mi sconvolse, e ancora oggi, se ci penso, mi viene la pelle d’oca. Mi domandavo come un ragazzino della mia età potesse essere così coraggioso e, al tempo stesso, matto, mettendo a repentaglio la propria vita per fare colpo sugli altri. Tutta eccitata da quella lettura, domandai a mia madre di cosa parlasse quel libro e chi fosse quel tale Dostoevskij. Chissà come pronunciai il suo nome! – disse Sonia e scoppiò in una risata fresca e fragrante, gioiosa, rumorosa e colorata come un fuoco d’artificio.
– Cosa rispose sua madre? – domandò Alessio ridendo a sua volta.
– Rispose che Dostoevskij era uno dei più grandi scrittori di sempre, forse addirittura il più grande, ma che per leggere e capire I fratelli Karamazov ero ancora troppo piccola.
– Quando li hai letti per la prima volta?
– A diciotto anni, se non ricordo male, per la prima e finora ultima volta. Tu quante volte li hai letti?
– Ho perso il conto, quattro, cinque volte.
– E qual è il Karamazov in cui ti riconosci di più?
– Bella domanda… Diciamo che in me, come in ogni uomo in fondo, c’è qualcosa di tutti e tre i fratelli.
– Il sacrificio più grande che hai fatto per amore di Dostoevskij?
– Vorrei risponderti: fare due lunghi viaggi in aereo per visitare la sua casa e la sua tomba, perché l’aereo è un mezzo che detesto, che mi mette angoscia e mi fa stare male al solo pensiero. Fosse per me, ci andrei a piedi, o al massimo in treno, in Russia. Comunque, non essendo stato ancora a Pietroburgo, direi che il sacrificio più grande che ho fatto per amore di Dostoevskij è stato leggere Sanguina ancora di Paolo Nori.
– L’ho conosciuto proprio in questi giorni, dopo la polemica scoppiata in seguito alla decisione assurda dell’università Bicocca di cancellare il suo corso su Dostoevskij, e mi sembra un bel tipo.
– Lo è, senza dubbio, e lo ammiro. Nori è un grande studioso e traduttore di letteratura russa, il problema è che, oltre ad essere uno studioso e un traduttore, è anche uno scrittore, e come tutti gli scrittori contemporanei combina disastri. In Sanguina ancora trovi frasi del genere: «Dostoevskij somiglia a Jovanotti, ma più vecchio». Ecco, quando leggo simili obbrobri, a me sanguinano gli occhi. Comunque è vero che Dostoevskij apre ferite che non smetteranno mai di sanguinare, ha avuto una grande intuizione e lo invidio molto per questo.
– Perché non hai studiato lingua e letteratura russa? È un peccato.
– Me lo sono chiesto decine di volte… Probabilmente per pigrizia. Anch’io, sebbene in piccola parte, sono affetto da oblomovismo. Ma va bene così, perché se avessi studiato lingua e letteratura russa non avrei scoperto autori per me fondamentali, come Kleist e Michelstaedter. Secondo il principio del suicidio e della scarsa notorietà, probabilmente avrei fatto la mia tesi di laurea in russo su Garšin.
– Non lo conosco.
– È un autore poco noto, reperire delle traduzioni italiane dei suoi racconti è difficilissimo. Magari un giorno te ne parlerò.
– Come hai scoperto Dostoevskij?
– Sei proprio certa di volerlo sapere?
– Certo, perché?
– Perché potrei dilungarmi…
– Dilungati quanto ti pare, mi piace ascoltarti.
– E va bene. Donna avvisata… Conobbi Dostoevskij per puro caso, come Nietzsche. Scusami, ma proprio non riesco a non essere didascalico ed è questa la mia rovina. A proposito, uomo didascalico potrebbe essere una valida definizione alternativa a quella di uomo superfluo… Comunque, avevo sedici anni e non avevo mai letto un libro in vita mia, oltre ai testi scolastici, naturalmente. Studiavo quel tanto che bastava per arrivare alla sufficienza e non avevo altri interessi oltre al calcio e alle ragazze (era l’epoca del mio primo amore, a causa del quale rischiai di essere bocciato, ma questa è un’altra storia). Le professoresse di Storia e di Lettere ci avevano portato in gita a Roma, ai Fori Imperiali, se non ricordo male. In attesa del treno di ritorno, ci avevano costretto ad andare in libreria, luogo per me completamente sconosciuto, una sorta di tempio della noia dal quale mi tenevo a debita distanza. Bighellonando per i corridoi, mi fermai davanti allo scaffale dei Classici, all’epoca molto più ampio e ricco di oggi, stupito del fatto che esistessero libri così voluminosi. Come poteva un uomo avere tante cose da dire? Era inconcepibile per me, che vivevo tutto con immediatezza e semplicità. Non credevo che nella vita ci fosse bisogno di troppe parole, la mia stessa storia si poteva racchiudere in una, due pagine al massimo. Iniziai ad afferrare uno dopo l’altro i libri più grossi, soppesandoli, leggendo titolo e autore. Mi fermai quando mi capitarono tra le mani I demòni (naturalmente allora lessi dèmoni) di Dostoevskij. Mi attirò la copertina: raffigurava un uomo di mezza età, in penombra, dai lunghi e folti baffi, lo sguardo intenso, penetrante. Provai un brivido incontrando quello sguardo: era come se mi chiamasse. Nella mia ignoranza, immaginai che fosse un ritratto di quel tale Dostoevskij. Girai il libro e lessi quello che c’era scritto sul retro della copertina. Da una parte si parlava del testo e venivano utilizzato espressioni come «scienza della distruzione», «il più grande nichilista della letteratura», in riferimento a Stavrogin, parere che peraltro non condivido, perché considero il Mefistofele di Goethe il più grande nichilista letterario, «il libro definitivo sulla vastità del male». Espressioni che catturarono subito la mia attenzione, anche se, ciò che mi attirò di più fu il trafiletto dedicato a Dostoevskij, alla sua vita, in particolar modo la notizia della sua condanna a morte commutata ai lavori forzati proprio davanti al plotone d’esecuzione. «Racconta il suo tempo e tutti i tempi. Vive una vita viscerale. Muore all’improvviso, famoso»: terminava così il trafiletto biografico. «Racconta il suo tempo e tutti i tempi»: questa frase si impresse nella mia testa. Mi domandavo come un autore russo dell’Ottocento potesse parlare del mio tempo, dunque, in un certo senso, anche di me, e faticavo a credere che potesse essere possibile. Iniziai a sfogliare il libro, a caso, soffermandomi soprattutto sui nomi dei personaggi, così strani: fu quello il mio primo contatto con la letteratura russa. La professoressa di Lettere, che sbirciava alle mie spalle, incuriosita forse dal fatto che fossi l’unico studente con un Classico in mano, mi consigliò di lasciar perdere. Disse che ero ancora troppo piccolo per quel libro, e le sue parole rappresentarono la spinta decisiva per acquistarlo. I divieti hanno sempre funzionato al contrario con me. Se qualcosa mi viene vietato, allora lo faccio, se vengo esortato a farlo, allora mi tiro indietro. Non avevo abbastanza soldi, così chiesi un piccolo prestito a un compagno di scuola e comprai il mio primo libro. Iniziai a leggerlo subito, appena fuori dalla libreria, e il ritratto di Dostoevskij all’epoca della scrittura dei Demòni, che apre l’Introduzione, mi colpì nel profondo. Provai subito una sorta di affetto verso quel cinquantenne dal passo pesante, che camminava lentamente, strascicando i piedi come se portasse ancora i ferri che, per quattro anni, lo avevano legato in Siberia, la cui fisionomia sofferente ricordava quella di un soldato degradato o di un malato evaso da un ospedale, piuttosto che la fisionomia di uno scrittore affermato, che a Dresda, vittima di una miseria nera, incalzato dai creditori, cercava conforto e pace nella Pinacoteca, dinanzi alla Madonna Sistina di Raffaello o a un quadro di Lorrain nel quale trovava l’ideale rappresentazione del mito dell’età dell’oro, che alla sera si rinchiudeva nel suo studio e, una sigaretta dopo l’altra, scriveva fino alle cinque del mattino, dormendo poi di un sonno tormentoso, funestato dagli incubi e affatto riposante, che bruciava alla roulette il poco denaro che gli restava e sempre più spesso era abbattuto da violenti attacchi epilettici. Nella lettera a Peter Gast in cui racconta il suo primo, fortuito incontro con Dostoevskij (incontro gravido di conseguenze!), Nietzsche scrive di aver provato la sensazione di essersi imbattuto in un parente, e qualcosa di simile provai anch’io leggendo quei pochi cenni biografici. Era come se qualcuno mi raccontasse la storia di un lontano prozio. Divorai I demòni in due, tre giorni, qualcosa di impensabile per un non-lettore come me, leggendo a scuola, durante le lezioni e la ricreazione, sull’autobus che mi riportava a casa, persino la notte: in quei giorni dormii pochissimo. Non riuscivo a staccarmi da quel libro: era un incantesimo. Fu allora che scoprii la letteratura e la mia vita non fu più la stessa. Compresi che c’era qualcosa sotto la superficie, qualcosa che non si vedeva, ma che era importantissimo, grandioso e terribile. E fu per me naturale, spontaneo affiancare alla lettura la scrittura. Sì, subito dopo aver letto I demòni iniziai a scribacchiare anch’io, fissando sulla pagina tutte le piccole scoperte quotidiane che facevo su me stesso e sugli altri, tutti i dubbi e le domande che mi venivano in mente guardandomi attorno. Compresi che niente era semplice e immediato come avevo sempre creduto, che ogni persona nascondeva un intero mondo dentro di sé, un mondo che volevo scoprire e conoscere. Ma basta parlare di me e di Dostoevskij, ho paura di farti addormentare.
– Macché, mi interessa la tua storia e potrei ascoltarti per ore, davvero. Comunque, io solitamente non fumo dentro casa, ma credo sia giusto fare un’eccezione stasera.
Alessio era un uomo taciturno, di poche parole, schivo, a tratti persino selvatico. Non amava parlare, non amava mettersi in mostra e attirare l’attenzione su di sé. Parlare lo metteva in difficoltà (preferiva di gran lunga scrivere), ma non quella sera, accanto a Sonia. Perché quella sera, accanto a Sonia, in quell’appartamento così familiare, Alessio, incredibile ma vero, si trovava a proprio agio, come se avesse finalmente trovato, dopo trent’anni di vana, fallimentare ricerca, il proprio posto. Sonia lo avrebbe potuto ascoltare per ore e Alessio per ore avrebbe potuto parlare, lui che, al massimo, aveva parlato per un quarto d’ora, venti minuti durante gli esami universitari e le discussioni delle tesi di laurea.

XII

– Le tue debolezze? – domandò Sonia dopo aver acceso la sigaretta.
– Cosa intendi per debolezze? – chiese a sua volta Alessio, che accanto a Sonia non sentiva alcun bisogno, neppure quello di fumare, ma che accese comunque la sigaretta, per fare compagnia a Sonia.
– Le cose sciocche di cui non riesci a fare a meno.
– Il calcio, probabilmente. Le tue?
– Lo shopping e… – esitò per un istante Sonia, – i videogiochi.
– I videogiochi? – domandò Alessio sorridendo, sorpreso da quella singolare risposta.
– Sì, provo quasi vergogna a confessarlo, ma sono una nerd. In camera da letto ho una vera e propria postazione da gioco. Almeno un’ora al giorno la passo lì.
– Non lo avrei mai detto… Non credevo che esistessero delle nerd così belle.
– Scemo.
– Lo penso davvero.
– Va bene. La tua paura più grande?
– L’insonnia. La tua?
– La morte di mia madre. La cosa che ti rasserena di più?
– La solitudine. Quando sono solo, nella mia stanza, in compagnia dei miei libri, mi sento perfettamente tranquillo, in pace con me stesso e con il mondo intero, non ho bisogno d’altro. È quando sono con gli altri che iniziano i problemi.
– A me rasserenano il mare e i bambini, la loro freschezza, la loro vitalità, persino le loro grida. Potrei passare ore osservando e ascoltando un bambino. Credo che il principale interesse dell’uomo dovrebbe essere quello di proteggere i suoi figli dalle sofferenze, ad ogni costo. Non dovremmo pensare ad altro.
– Condivido. Ci pensi mai alla maternità?
– Ci penso spesso… E tu, alla paternità?
– La procreazione, come puoi facilmente immaginare, è quanto di più lontano dal mio pensiero, ma a volte ci penso, lo confesso. Sogno spesso mio figlio, è uno dei miei sogni ricorrenti. L’ultima volta che l’ho sognato è stato qualche settimana fa. Aveva pochi mesi e lo tenevo in braccio, nudo, mostrandolo a tutti con orgoglio. Soltanto una volta, se non ricordo male, insieme al figlio ho sognato anche la madre. Era incinta e la abbracciavo, li abbracciavo, prima di andare in guerra.
– La persona di cui ti fidi di più e quella di cui ti fidi di meno.
– Mia madre e me stesso.
– Copio e incollo. La persona di cui ti fidavi di più, oltre a tua madre, e che ti ha deluso.
Alessio avrebbe voluto rispondere Melissa, ma decise di non farlo.
– I miei due migliori amici, – fu questa la sua risposta alternativa.
– Perché?
– Perché entrambi hanno lasciato che il loro io animale prendesse il sopravvento sul loro io spirituale.
– Nel mio caso, la persona che mi ha deluso di più è stata Pietro, quando ho sospettato che mi tradisse con una sua collega. Non lo ha fatto, lo so con certezza, ma lo avrebbe fatto se ne avesse avuto l’occasione, e non cambia molto, anzi, non cambia niente. Hai ritrovato la fiducia nei tuoi migliori amici?
– Io non ho più amici. Melissa si è portata via tutto, – rispose Alessio rabbuiandosi di colpo. Alla fine, per quanto si fosse sforzato di ricacciarlo indietro, il nome di Melissa era saltato fuori. Era una fottuta persecuzione. Sonia si avvicinò ad Alessio e gli accarezzò una guancia. Alessio chiuse gli occhi, lasciandosi cullare da quella delicata carezza.
– Scusami, non volevo rovinare questo momento, sono uno stupido, – disse Alessio dopo qualche secondo di pausa.
– Non devi scusarti, – lo rassicurò Sonia.
– Posso confessarti una cosa? Magari riuscirò a farmi perdonare.
D’accordo, Alessio non credeva, non voleva credere che Sonia, malgrado tutto, potesse nutrire per lui un sentimento più profondo e intimo dell’amicizia, ma non doveva essere piacevole per lei sentirlo parlare sempre di Melissa. Quelle parole tristissime gli erano uscite di bocca senza che se ne accorgesse, ed era davvero dispiaciuto di averle dette.
– Puoi dirmi tutto quello che vuoi, lo sai, – disse Sonia sorridendo di quel suo sorriso dolce e rasserenante come un giardino in primavera, fiorito, colorato, profumato.
– Prima di cena, mentre aprivo la bottiglia di vino e ti osservavo di sottecchi, mi sono reso conto che negli ultimi giorni non ho pensato a Melissa neppure per un istante, come se fosse improvvisamente scomparsa dalla mia mente. È la prima volta che mi accade da più di due anni, da quando la conosco, e lo devo a te. Perché è a te che ho pensato in questi ultimi giorni. Credo di avere persino lasciato a casa, sulla scrivania, il segnalibro origami… Nella mia storia con Melissa non ci sono mai stati momenti come questo, e ora capisco che la nostra relazione è stata soltanto un’illusione, per entrambi.
– Spesso le illusioni sono le nostre prigioni più terribili, – disse Sonia avvicinandosi ad Alessio e accoccolandosi a lui, la testa poggiata sulla sua spalla.
Alessio le baciò i capelli e si lasciò avvolgere dal loro profumo. Odoravano di pesche e di mare. Un vago sospetto d’amore iniziò a insinuarsi dentro di lui, ed era naturale, perché mai nessuna donna, neppure Melissa, era stata così affettuosa con lui, aveva cercato un contatto fisico così stretto.
– Ora tocca a te fare delle domande, – disse Sonia chiudendo gli occhi. Le piaceva riposare accanto ad Alessio, aggomitolata a lui, come se non avesse cercato altro nella sua vita.
– Come hai scoperto di avere la vocazione dell’insegnamento? – domandò Alessio.
– L’insegnamento è una vocazione, o meglio, una missione di famiglia, ce l’abbiamo nel sangue. Mia nonna è stata un’insegnante, mia madre è un’insegnante, io sono un’insegnante, – rispose Sonia con orgoglio. – Sai, mia nonna è stata una delle persone più importanti della mia vita, forse la più importante in assoluto. Quando se n’è andata, due anni fa, ho provato un dolore inesprimibile. Prima di morire mi ha regalato il suo diario, scritto negli ultimi mesi di vita, ed è forse la cosa di maggior valore in questa casa, quella a cui tengo di più. Mi piacerebbe se lo leggessi anche tu, un giorno. Dedicò il suo ultimo pensiero alla pandemia, allora scoppiata da poche settimane, vedendo già oltre, immaginando la ripartenza, la ricostruzione, il ritorno alla vita, come accaduto nel secondo dopoguerra. Era una visionaria… Almeno ha avuto una morte serena: una sera è andata a letto, si è addormentata e non si è svegliata più. A volte mi manca così tanto… Sapeva rassicurarmi con un semplice sguardo. Se fosse ancora viva, le parlerei di te e ne sarebbe felice.
“Io parlo di libri e d’illusioni, lei parla di vita… Maledetta superfluità,” pensò Alessio con amarezza, baciando ancora una volta i capelli di Sonia, teneramente.
– Sarei davvero felice di leggere il diario di tua nonna, – disse Alessio, senza spingersi oltre. Temeva di dire delle banalità e allora decise di ricominciare con le domande, chiedendo a Sonia quale fosse la sua canzone.
Disorder dei Joy Division, – rispose Sonia, gli occhi sempre chiusi. – È stata una sorta di inno della mia adolescenza. Ho smesso di ascoltarla quando ho deciso di reprimere la mia parte più complessa, fragile, disordinata e nevrotica. Ho ricominciato ad ascoltarla, quasi tutti i giorni, dopo aver letto i tuoi testi. La tua?
Prospettiva Nevskij di Battiato. I libri che ti rappresentano di più?
– Domanda complicata… Non so se ci siano libri che mi rappresentano, di certo ci sono testi e autori che hanno segnato le varie vasi della mia vita. Per esempio, il libro della mia infanzia è L’occhio del lupo di Pennac, uno scrittore francese contemporaneo, che mi ha fatto scoprire l’empatia. Durante gli anni del liceo, invece, ho subito fortemente il fascino del decadentismo, di un testo come Controcorrente di Huysmans e di un autore come D’Annunzio…
– No, D’Annunzio no, ti prego… – intervenne Alessio, interrompendo Sonia. Come detestava D’Annunzio! Era mai uscita dalla penna del vate una sola parola sincera, spontanea? Alessio credeva di no.
– Purtroppo sì. Come tutti gli autori italiani d’inizio Novecento, Michelstaedter compreso, anch’io sono passata per il tirocinio dannunziano… Anch’io ho messo il piacere davanti a tutto e credo che dei retaggi di quel periodo siano ancora piuttosto vivi in me. Poi fu la volta di Nietzsche, che elessi mio profeta. All’università la scoperta di Thomas Mann fu una vera e propria rivelazione. Opere come Tonio Kröger e, soprattutto, La montagna incantata, mi hanno segnata nel profondo, formandomi, educandomi. Ultimamente, un autore che ho apprezzato moltissimo è Camus. Mi riconosco nel suo pensiero meridiano, misurato. Ora tocca a te.
– Uno dei libri che meglio mi rappresenta lo hai già citato tu, ed è Tonio Kröger. Anch’io, come Tonio, sono rimasto sempre fuori dalla pista da ballo e ho visto gli occhi azzurri danzare, e come lui considero la scrittura non un dono, ma una maledizione e una malattia. So fin troppo bene cosa vuole dire Mann quando dichiara che per scrivere, e per creare in generale, bisogna essere morti. Gli altri libri sono Le notti bianche e le Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij, Diario di un uomo superfluo di Turgenev, Il lupo della steppa di Hesse e Pentesilea di Kleist, tragico trionfo della dismisura.
– Altre curiosità?
– Che cosa siamo noi due? – domandò a bruciapelo Alessio, che iniziava a provare un’attrazione irresistibile verso Sonia, alimentata dal contatto fisico, e voleva capire come comportarsi, se assecondare quell’attrazione, abbandonarsi ad essa oppure soffocarla sul nascere, ritirarsi e andare via, probabilmente per sempre.
– Spetta a te deciderlo, – rispose Sonia riaprendo gli occhi e fissandoli in quelli di Alessio.
– Che vuoi dire?
– Voglio dire che io, al contrario di Nasten’ka, non ti chiedo di non innamorarti di me.
– Davvero? – domandò Alessio incredulo. I suoi occhi brillarono, come brilla il cielo notturno attraversato da una meteora.
– È te che attendevo, – disse Sonia sorridendo, – è te che ho sempre cercato, sin da ragazzina, – aggiunse guardando Alessio con intensità, come se attraverso lo sguardo volesse trasmettergli tutto ciò che le ribolliva dentro.
– Io… – balbettò Alessio, incerto se proseguire oppure no, – io…
– Tu? – lo esortò Sonia, quasi con timore.
– Ho paura, Sonia, – confessò infine Alessio, distogliendo lo sguardo, voltandolo dall’altra parte.
– Non voltarti, – disse Sonia, costringendo Alessio con delicata fermezza a guardarla negli occhi. – Non voltarti… – ripeté a bassa voce. – Non ti chiedo di rimuovere il passato, ma di dargli il giusto peso, e di giudicarlo da un punto di vista diverso. Ciò che è stato, tutte le delusioni e le sofferenze che hai vissuto impreziosiscono questo momento, lo rendono ancor più straordinario. Devi andare oltre, Alessio, devi lasciarti andare. Non è ancora finita, abbiamo una nuova storia da scrivere, insieme. Nei tuoi testi citi spesso il mito di Orfeo. Ebbene, sai qual è stato l’errore di Orfeo? Non coinvolgere Euridice. Orfeo avrebbe dovuto chiudere gli occhi e lasciarsi guidare da Euridice. Avrebbe dovuto chiedere a Euridice di essere il suo sguardo. Non voltarti, Alessio, lascia che io sia il tuo sguardo, lascia che ti guidi fuori dal tuo abisso. So di potercela fare, ne sono certa, ma devi volerlo tu. Lo vuoi?
– Io… Sì, lo voglio, – sussurrò Alessio e fu come se un lungo incantesimo si spezzasse di colpo ed egli sentisse rifluire dentro di sé la vita. Pronunciando quel sì, Alessio risorgeva alla vita, la sentiva rinascere in ogni singola fibra del suo essere, fisica e metafisica. Allora baciò Sonia come se volesse assorbirla in sé e, al tempo stesso, come se volesse disperdersi in lei. Per la prima volta nella sua vita, sentì di essere amato.

XIII

– Signore, mi scusi, signore, – si rivolse ad Alessio un’ignota voce femminile, risvegliandolo improvvisamente dal suo lungo torpore.
– Sì? – domandò lui, confuso e imbarazzato, osservando la donna che gli aveva rivolto la parola, una commessa della libreria, il volto coperto dalla mascherina.
– Stiamo per chiudere.
– D’accordo, – disse Alessio, stropicciandosi gli occhi e avvicinandosi con lentezza alla cassa, per pagare e andare via.
Per quanto tempo era rimasto fermo davanti allo scaffale dei Classici, immerso nelle sue fantasie? Ore e ore…
Uscito dalla libreria, si lasciò cadere su una panchina, sfinito dal lungo, ininterrotto fantasticare. Era come se la sua mente fosse andata in stand-by, permettendo all’immaginazione di fluire liberamente, senza incontrare ostacoli razionali. Era sera ormai. Alessio posò la busta con i libri sulla panchina e si guardò intorno, disorientato. C’era poca gente in strada e faceva freddo. O forse no, forse il freddo era dentro di lui, attaccato alle sue ossa. Dove si trovava? Ah, sì, ora ricordava. Gli venne in mente una canzone, Il posto più freddo dei Cani, e la sua mente ricominciò a lavorare a pieno regime.
Alessio era triste, come poche altre volte nella sua vita, eppure sorrideva, di un sorriso amaro e inconsapevole. La tristezza se la sentiva addosso, come un peso, e dentro, come un veleno. Era ora di tornare a casa, ma non gli andava. Non gli andava di fare niente in realtà.
– Sonia… – sussurrò tra sé, con un’espressione ironica e beffarda sul viso.
Quel giorno, in libreria, Alessio non incontrò Sonia. Non incontrò nessuno. Solo era entrato in libreria, solo ne era uscito. Semplicemente, nella sua devastazione, nel suo vuoto, aveva immaginato che una donna, la sua donna, quella che aveva cercato ovunque da quando era un adolescente e che credeva di aver trovato in Melissa, ribattezzata Sonia in onore del personaggio letterario femminile che amava di più, la Sonečka di Delitto e castigo, gli si avvicinasse, gli rivolgesse la parola, lo riconoscesse, come mai gli era capitato nella sua vita. Stranamente indulgente con se stesso e con la propria immaginazione, causa, come in ogni uomo superfluo che si rispetti, di tanti disastri, Alessio non aveva respinto quella fantasia, non l’aveva recisa sul nascere, ma l’aveva accolta, cullata, coccolata, se ne era preso cura come qualcosa di prezioso, da custodire, da proteggere, e l’aveva fatta crescere dentro di sé, aveva lasciato che si sviluppasse liberamente, trovando in essa un insperato rifugio dal dolore, dalla solitudine, dalla disperazione.
Ma la commessa della libreria, una donna di mezza età dagli occhi castani, che spiccavano su quel volto quasi interamente coperto dalla mascherina, lo aveva riportato bruscamente alla realtà, ovvero al vuoto abissale nel quale Alessio era sprofondato da mesi, da quando Melissa, lei sì vera, lo aveva abbandonato. La realtà è sempre squallida e deludente, ma lo è soprattutto quando, usciti da essa per qualche ora, vi ritorniamo nostro malgrado. Abbandonato su quella panchina, solo e tremante, Alessio percepiva con una lucidità e una chiarezza devastanti tutto lo squallore della propria vita e non sapeva come uscirne. Non vedeva appigli attorno a sé. Si sentiva smarrito e alzarsi e camminare e mettersi al volante e tornare a casa gli sembrava un’impresa superiore alle proprie forze.
Un’idea improvvisa gli attraversò la mente restituendogli slancio. L’idea di riprendere la penna in mano, dopo molti mesi di silenzio, e scrivere ciò che la sua immaginazione, in un pomeriggio d’inattesa e inspiegabile libertà, aveva creato. La scrittura non avrebbe cambiato nulla, come sempre, ma almeno avrebbe permesso ad Alessio di sfuggire di nuovo per qualche ora dallo squallore della sua vita, di colmare almeno nella fantasia quel vuoto immenso che si era spalancato dentro di lui e attorno a lui dopo l’addio di Melissa, di trovare almeno degli istanti di tregua dal dolore, dalla solitudine e dalla disperazione.
– Sonia… – sussurrò di nuovo tra sé, ma senza quell’espressione ironica e beffarda sul viso, come se Sonia fosse davvero davanti a lui e con il suo sorriso tenero e carezzevole lo rassicurasse.

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