Memorie dal nulla – Seconda parte. La tentazione di vivere – III

A quella prima mail ne seguirono molte altre. Veronica divenne ben presto una presenza fissa nella mia vita e non ci volle molto perché riconoscessi in lei la mia donna ideale. Era lei, Veronica, che cercavo da una vita, lei e nessun’altra. Era il suo volto che avevo cercato ovunque, in strada, in treno, in biblioteca, in un’aula universitaria. Finalmente avevo trovato la mia donna, sì, ma troppo tardi, quando tutto era ormai deciso per entrambi. Mi sentivo come un vedovo al quale è concesso di scambiare lettere dall’aldilà con la moglie defunta. Non potevo sperare di ottenere qualcosa di più (uno sguardo, un sorriso, una carezza) e mi accontentai, per la prima volta nella mia vita.
Fino a quel momento, da ogni donna incapace di amarmi ero fuggito a gambe levate, offeso e umiliato: o tutto o niente. Da Veronica invece, pur avendo più di una volta la tentazione di concludere il nostro rapporto epistolare, non scappai. Innanzitutto nel suo caso non si trattava di incapacità, ma di impossibilità di amarmi, e poi non potevo proprio rinunciare alla prima e unica persona che mi apprezzava per quello che sono, con i miei pochi pregi e i miei molti difetti, che non mi faceva pesare la mia diversità, che si interessava al mio io più profondo, al mio egoismo, che riteneva ingiusti tutti i miei fallimenti, che aveva in ogni mail una parola dolce e consolante, per me, aspro e inconsolabile. Veronica ben presto mi divenne necessaria e così, per la prima volta nella mia vita, accolsi una sfumatura tra il bianco e il nero, una porzione tra il niente e il tutto. Accettai un compromesso insomma.
Non ho mai amato una donna in un modo così puro e disinteressato, senza desiderio. Sì, mi innamorai presto di Veronica. Era inevitabile. Per quanto mi trovassi già fuori della vita, nella morte, svuotato di tutto, non potevo restare indifferente a Veronica. Le dichiarai il mio amore con delicatezza e disinteresse, senza chiedere nulla in cambio, e lei lo accolse come un dono prezioso.
Eppure, lo confesso, non mi ero mai sentito così solo e disperato come in quel momento, dopo aver conosciuto Veronica. D’accordo, avevo deciso, contro ogni aspettativa, di accontentarmi, di farmi bastare la nostra corrispondenza e mai sarei andato oltre, mai avrei attentato al suo matrimonio, alla sua famiglia, che aveva costruito con enormi sacrifici, non lo avrei fatto per nessuna ragione al mondo, ma sapere dell’esistenza della mia donna ideale e non solo non poterla avere, ma neppure poterla vedere, parlare con lei, sfiorarla appena, mi rodeva nel profondo come un tarlo. Ancora una volta, e nel modo più crudele, ero costretto a fare i conti con il mio destino di impossibilità e di abbandono. In alcuni giorni la nostra corrispondenza mi diventava persino odiosa e insopportabile, vedevo in essa nient’altro che un’atroce beffa del destino e desideravo di farla finita, ma rinunciare a Veronica significava rinunciare all’unico bagliore di luce nella mia notte permanente. Una notte stellata è tutt’altra cosa rispetto a una notte completamente nera. Cosa sarebbero le notti di Van Gogh senza stelle?
Era come se ci conoscessimo da sempre, come se ci fossimo ritrovati dopo esserci persi di vista per qualche anno. L’intimità era sgorgata spontanea, naturale, potevamo confessarci senza temere giudizi da parte dell’altro e ci sentivamo al sicuro. Non mi ero mai aperto in quel modo con nessuno, neppure con Pietro, e la stessa cosa valeva per Veronica. Rappresentavamo un porto sicuro l’uno per l’altra, un rifugio certo.
Conoscevo Veronica da sempre, sì, l’avevo immaginata innumerevoli volte e cercata ovunque. Era apparsa proprio quando iniziavo a credere che la mia donna ideale non esistesse, non potesse esistere, ma era tutto deciso per noi. Per me era particolarmente frustrante non poterla incontrare neppure in sogno, perché è nel sogno che, nella mia condanna all’impossibilità, ho sempre trovato conforto. Tre, quattro mesi dopo la sua prima mail le domandai in dono una fotografia e Veronica me ne inviò una scattata per l’occasione. Potei finalmente ammirarla, ammirare i suoi lunghi capelli del colore del rame, i suoi occhi verdi, la sua pelle chiara (una bellezza preraffaellita), ma neppure la sua immagine bastò per sognarla. Avevo bisogno della sua voce, del suo sorriso, di qualche suo gesto caratteristico, della sua presenza fisica insomma, per ritrovarla in sogno.
Veronica invece mi sognò. Camminavo in una città deserta, assolata, dai contorni netti e dai colori decisi (un paesaggio dechirichiano), e scrivevo. Lei mi osservava da lontano, mi seguiva con lo sguardo in attesa di un incontro programmato da qualcuno (qualcuno voleva che ci incontrassimo assolutamente, a tutti i costi), ma all’improvviso una folla impetuosa apparsa dal nulla la afferrava, la inghiottiva e la trascinava via da me, lontano, impedendo così di incontrarci. Mi scrisse di essersi svegliata di soprassalto, in preda all’angoscia e con il presentimento che il nostro incontro non ci sarebbe mai stato neppure nella realtà. Le risposi che in quel qualcuno vedevo il destino, mentre nella folla feroce che la trascinava via da me la vita. Un’interpretazione piuttosto banale, d’accordo, scontata, ma che rappresentava alla perfezione la nostra situazione. Non avrei saputo trovare un’immagine migliore.
La mia donna ideale esisteva, aveva un nome, un cognome, un volto, un corpo e viveva lassù, a Milano, vicina a Pietro, a poche ore di treno da qui, ma era sposata, aveva un marito, persino una figlia e non potevo raggiungerla. Era vicinissima a me, la sentivo sempre al mio fianco, le parlavo in continuazione, seppur in silenzio, le leggevo i miei testi, come desiderava, ma, al tempo stesso, era lontana, lontanissima da me, distante migliaia e migliaia di anni luce. Mi scriveva parole dolci, amorevoli, consolanti, piene di ammirazione, di comprensione, di conforto, di speranza e intanto abbracciava e baciava un altro uomo, il padre di sua figlia. Per questo motivo non mi sono mai sentito così solo e disperato come in quel momento, così in balia di me stesso, senza un appiglio intorno. Se ci fossimo incontrati in altre circostanze, come avremmo dovuto, Veronica mi avrebbe salvato, avrei messo in discussione tutto per lei, avrei lottato per lei. Lei sarebbe stata la cura alla mia malattia mortale, la consapevolezza, la soluzione al nulla, avrebbe riempito il mio vuoto cosmico con la sua presenza. La sua sensibilità, la sua empatia, la sua intelligenza, la sua forza e il suo coraggio mi avrebbero arricchito e reso un uomo migliore.
A volte mi domandavo se la mia non fosse soltanto l’ennesima illusione, se la mia mente esasperata, prostrata non avesse creato una donna che in realtà non esisteva. Poi però rileggevo le mail di Veronica, ne ricevevo di nuove e ogni dubbio si dissolveva: era lei, proprio lei la mia donna ideale. Certo, io ero tutto nei miei testi, nelle mie mail, intero e nudo, lei no, non conoscevo che una sua parte, ma bastava. Veronica era molto di più, lo sapevo bene, ma a me non era concesso conoscerla nella sua totalità, sebbene mi avesse confessato cose che non aveva mai confessato a nessuno. Doveva bastarmi e mi bastava, anzi, era persino troppo. Spesso mi sono sentito piccolo e insignificante (ancora più piccolo e insignificante del solito), davanti a lei, un insetto. Tutte le idee di Veronica erano passate al vaglio dell’esperienza, era una donna in carne e ossa forgiata dalla vita, aveva conosciuto il dolore, la gioia e la responsabilità del parto, ogni giorno doveva fare i conti con obblighi familiari e lavorativi. Io invece ero un uomo astratto, un uomo di carta rintanatosi nel suo buco ai margini della vita. Veronica aveva deciso di vivere, nonostante tutto, io no e questa differenza mi pesava, facendomi sentire uno sciocco rispetto a lei, l’unica persona capace di ispirarmi un affetto profondo, sincero, incondizionato.
Credevamo di essere simili e invece ci accorgemmo presto di essere completamente diversi. Fu lei, naturalmente, a trovare la parola giusta per descrivere il nostro rapporto, la nostra affinità spirituale nonostante le profonde e incolmabili differenze: interdipendenza. Lei era il giorno, io la notte, lei la vita, io la morte, ma non può esistere il giorno senza la notte, né la vita senza la morte, e viceversa. Provavo una sensazione di completezza, di totalità mai provata prima e amavo Veronica come la notte amerebbe il giorno se avesse una coscienza. Non saprei descrivere meglio il mio amore per lei e non credo mi capirete, ma non importa. Quando le scrivevo queste cose lei mi comprendeva (non poteva non comprendermi) e solo questo conta.
Se avessi avuto delle ambizioni, degli obiettivi nella vita, le parole di Veronica sarebbero state uno stimolo straordinario. Grazie a lei infatti iniziavo a comprendere il significato di una parola a me ignota fino a quel momento, la parola autostima. Veronica si prendeva cura del mio ego, lo nutriva, lo coccolava, come mai nessuno aveva fatto prima di lei. Io ricambiavo le sue attenzioni, il suo affetto donandole la parte migliore di me stesso, che credevo di aver perduto per sempre e che invece risorgeva a contatto con lei. Tra di noi avveniva una sorta di trasfusione: passavo a lei quel poco di buono che ancora resisteva in me, ma liberandomene per sempre. Se avessi potuto iniziare una nuova vita accanto a lei, con lei, per lei, la mia parte migliore avrebbe sovrastato la peggiore e preso il sopravvento, perfezionata e arricchita da Veronica. Ma questo non poteva accadere e allora mi liberavo di quei pochi bagliori di luce sopravvissuti alle tenebre regalandoli a lei, e sprofondando così sempre più a fondo nell’oscurità.
La sostanza delle cose non cambia, mai, in nessun caso, e niente avrà mai un senso, ma un conto è fronteggiare la vita da soli, senza un appiglio intorno e disarmati, senza poter distogliere lo sguardo dal nulla neppure per un istante, un conto è fronteggiarla in compagnia di una persona che amiamo e che ci ama, quella persona che attendiamo da una vita e che cerchiamo ovunque. Io l’avevo trovata, ma troppo tardi. Dico a voi ciò che dissi a lei: se ci fosse stata la possibilità di incontrarla, di conoscerla di persona, magari andando a trovare Pietro a Milano (niente di più naturale), avrei detto no. Se mi fosse stata accanto in carne e ossa, come avrei potuto resistere al desiderio irrefrenabile di baciarla? Avrei rovinato tutto, tradendo la sua fiducia e mettendola in grande imbarazzo. Meglio restare così, lontani centinaia e centinaia di chilometri l’uno dall’altra e scambiarsi una mail alla settimana. D’accordo la porzione, d’accordo la sfumatura, ma dover trattare Veronica come una persona qualunque, come un’amica (Dio che parola terribile!) e non come la mia donna ideale, sarebbe stato davvero troppo.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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