Memorie dal nulla – Prima parte. Il nulla – VII

Viviamo in un tempo terribile. Nell’accezione negativa del termine, è questo il vero Medioevo. Ovunque dominano l’incoscienza, la povertà di spirito, la stupidità e trionfa la barbarie. Non abbiamo imparato niente dalla storia, niente. Ci illudiamo di vivere in un mondo privo di quelle piaghe secolari che hanno segnato la storia del genere umano, ma non è così. Per noi lavorano sempre gli schiavi e siamo schiavi noi stessi. Scegliamo i nostri rappresentanti politici, ma viviamo sempre in un regime, il più potente e subdolo dei regimi: la democrazia. Ovunque regnano l’ineguaglianza, l’ingiustizia, la disonestà. L’ultra-capitalismo ha trasformato questa povera terra in una macchina e in una discarica. Il superfluo, spacciato per necessario, orienta e indirizza le nostre vite, le nostre scelte. L’uomo non è mai stato così distante dall’essenziale come oggi. Non è mai stato così vuoto come oggi.
Guardatevi dentro per una volta, indagatevi. Cosa vedete? Niente, ma un niente pieno zeppo di cose false e stupide. Quelli che credete siano valori non sono che pregiudizi, quelli che credete siano pensieri non sono che parole altrui assorbite passivamente, senza farci troppo caso. Parlate, parlate, parlate, ma senza dire niente, sospesi tra la rettorica del male e la rettorica del bene, tra Trump e Greta, Salvini e le ONG, schiavi dell’apparenza, cui riducete ogni momento della vostra vita.
Sì, ai miei occhi dalle palpebre recise è proprio terribile quest’epoca degli chef. Questa attenzione esasperata al cibo, alla cucina è forse la manifestazione più evidente della nostra inessenzialità. Non capirò mai come un uomo possa spendere centinaia e centinaia di euro per mangiare in un ristorante stellato, io che mangio per necessità, mai più dello stretto necessario. La cucina è la forma d’arte della nostra epoca e questo la dice lunga sul decerebramento culturale in atto. Non accenno neppure all’ambito di mia competenza, la letteratura, perché qui la situazione è ancora più drammatica. La letteratura italiana è morta, punto, non c’è altro da aggiungere.
Questo nostro maledetto belpaese ha un avvenire cupo davanti a sé, un avvenire d’ignoranza, di povertà, di violenza. Non c’è speranza per un paese in cui milioni di cittadini si stordiscono ogni giorno con dosi poderose di tivù spazzatura. Non c’è speranza per un paese privo di cultura, in cui i pochi laureati non hanno un futuro certo davanti a loro e brancolano nel buio, elemosinando un impiego qualunque. Non c’è speranza per un paese incapace di valorizzare l’immenso patrimonio artistico che ha la fortuna di possedere, grazie al quale dovrebbe campare di rendita. Non c’è speranza per un paese che, di fatto, con buona pace dei nazionalisti, dei sovranisti non è mai esistito davvero, se non nelle carte geografiche, frantumato in migliaia e migliaia di micro-realtà che non sono neppure capaci di comprendersi tra di loro. Dovremmo distruggere tutto, radere al suolo tutto, ma proprio tutto e ricominciare da zero per avere una speranza. Ma non è possibile e così naufraghiamo felici e contenti verso il completo disastro.
Mi guardo attorno, per qualche istante mi costringo alla tortura della televisione, vi osservo e vedo ovunque incoscienza, povertà di spirito, stupidità, ma di quelle cattive, aggressive, preludio della tragedia. Certo, nel mio odio disperato e disperante nei confronti del genere umano, non dovrei attendermi né, soprattutto, augurarmi niente di diverso, ma è comunque fastidioso assistere a questo triste e macabro spettacolo, di cui non ho mai voluto essere complice (per questo motivo non ho mai preso in considerazione l’ipotesi dell’insegnamento, nonostante gli studi), di persona.
Veniamo da una pandemia che ha mietuto migliaia di vittime, che ci ha costretti per mesi e mesi a stare chiusi in casa, e cosa abbiamo capito, cosa abbiamo imparato? Niente. Il virus ci ha mostrato tutta la nostra fragilità, tutta la nostra caducità e invece di fare i conti con essa, di imparare finalmente a convivere con il nostro destino di mortali, ci voltiamo dall’altra parte, immergendoci di nuovo nei nostri sciocchi affanni quotidiani come se niente fosse, con rinnovata incoscienza e ignoranza. Il virus ci ha mostrato tutta l’inadeguatezza di questo sistema ultra-capitalistico che ci divora, ci riduce a meri numeri da soggiogare e sfruttare, e invece di cambiarlo, di distruggerlo per sempre recuperando una dimensione esistenziale più autentica, essenziale, ci lasciamo assorbire, sedurre, annichilire di nuovo, senza opporre resistenza, come se non ci fossero alternative. Osservando le immagini impressionanti dei camion militari pieni di bare siete inorriditi, sì, ma solo per un istante, tornando presto a lasciarvi incantare dalle chiacchiere dei politici senza scrupoli, abbracciando ridicole teorie complottistiche. Quelle immagini avrebbero dovuto imprimersi nei vostri cervelli come un monito solenne, come un anatema terribile, ma nei vostri cervelli è il vuoto, un vuoto che sapete riempire solo di menzogne. Ognuno ha ciò che si merita e voi meritate questo mondo, con i suoi tiranni e i suoi regimi. Io merito il nulla e infatti ho il nulla.
Osservando quelle immagini, quella fila di mezzi militari colmi di feretri, lo confesso, non sono inorridito. Non c’è più niente che possa inorridirmi. Ho provato piuttosto un certo fascino, quel fascino che ho sempre provato dinanzi alla catastrofe, già da bambino. Ricordo per esempio quando, più di vent’anni fa, un vasto incendio distrusse gran parte della macchia mediterranea all’interno del poligono di tiro. Trascorsi l’intera notte sul tetto di casa osservando le fiamme alte, difficili da domare anche a causa del forte vento di scirocco. I miei genitori insistevano perché scendessi giù e rientrassi in casa, ma non ne volevo sapere e alla fine si arresero, lasciandomi lassù. Non potevo assolutamente smettere di ammirare quello spettacolo grandioso. Le fiamme non erano poi così lontane dalla mia casa, ma la paura era soffocata dall’eccitazione. Il fuoco distruggeva tutto ed io godevo di quella distruzione.
C’è qualcosa di malsano, forse persino di malvagio in questo, lo so, ma in ogni uomo si nasconde il seme della devastazione, che può attecchire e germogliare oppure restare sepolto per sempre. Comunque, da quel giorno di più di vent’anni fa, mi accompagna un sogno ricorrente: da un punto altissimo, irraggiungibile, assisto a uno spettacolo simile, ma ben più grande: un incendio immenso distrugge tutto, ma proprio tutto, persone e cose, indistintamente. Il fuoco divora qualunque cosa e non c’è scampo per niente e per nessuno, entra nella terra, la squarcia e riporta in superficie rovine antichissime, sconosciute, per distruggere anche queste. Da lassù osservo questa immane catastrofe e provo una soddisfazione incontenibile, un vero e proprio orgasmo, che mi fa rabbrividire dalla testa ai piedi, come se fossi io l’artefice di quel grandioso, sterminato autodafé. In questo mio sogno ricorrente ho sempre visto una rappresentazione radicale della mia sconfinata sete di libertà.
C’è stato un tempo in cui sognavo un’umanità libera, consapevole della propria miseria e dell’insensatezza della vita, in un mondo libero, senza istituzioni, senza governi, senza stati. La consapevolezza rendeva l’uomo migliore, perché lo liberava da tutte le menzogne, di cui smetteva finalmente di essere complice. Ogni sopruso, ogni ingiustizia, ogni violenza cessavano e l’essere umano iniziava finalmente a scrivere pagine di storia davvero degne, memorabili: pagine bianche, vuote. Allora ero così entusiasta delle mie idee che una volta, al primo anno d’università, partecipai persino a una riunione di anarchici. Parlavano di Bakunin, di rivoluzione e via dicendo. Al termine delle loro chiacchiere insulse mi feci coraggio e presi la parola.
– Voi parlate ancora di Bakunin e di rivoluzione, ma non è questa la vera strada dell’anarchia. La rivoluzione mira a un rovesciamento della condizione vigente per imporre nuove istituzioni, è dunque un’azione politica, ovvero anti-anarchica. La via autentica, davvero anarchica è quella della ribellione, che non parte dal rovesciamento della condizione vigente, ma dalla consapevolezza dell’uomo del proprio stato di miseria, di inutilità, di insignificanza, dalla consapevolezza dell’insensatezza della vita. La ribellione non è dunque una sollevazione di massa, una rivoluzione appunto, ma un moto di disobbedienza del singolo, che lo conduce alla libertà, a non farsi governare dagli altri, ma a governarsi lui stesso. Il prototipo del rivoluzionario è Cesare, un dittatore, mentre il prototipo del ribelle è Cristo. Recidete le palpebre agli uomini, rendeteli consapevoli, fate in modo che si sollevino individualmente, innanzitutto contro se stessi, e li condurrete alla libertà. Allora non esisteranno più istituzioni, governi, stati, si sgretoleranno da sé, senza che ci sia bisogno di spargimenti di sangue. Basta la parabola.
Alcuni di loro scoppiarono persino a ridere e io me ne andai, infuriato soprattutto con me stesso. Come potevo pensare che avrebbero compreso le mie parole? Tuttavia feci breccia nel cuore di una ragazza, che mi fermò all’uscita della facoltà.
– Non sei il solo a pensarla così. Io la penso come te e le tue parole mi hanno emozionato, davvero, – mi disse sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Mi innamorai di lei all’istante. La ringraziai e le proposi di pranzare insieme.
– Mi dispiace, ma il mio ragazzo mi aspetta, – rispose. Non l’ho più vista in vita mia.
In ogni caso, il mio sogno di libertà andò presto in frantumi. Compresi che presupponeva, come conditio sine qua non, una fiducia sconfinata nel genere umano, quella stessa fiducia che animava Cristo, ancor più della fede in Dio. Io nell’uomo non ho mai avuto fiducia e con il tempo ho capito che non vuole essere liberato, ma sfamato quel tanto che basta, niente di più. Ho provato a renderlo consapevole, ma è stato un tentativo vano e sciocco, come quell’intervento alla riunione di anarchici. Se penso a tutto l’inchiostro che ho versato inutilmente in questi anni, provo la stessa rabbia provata allora, e diretta anzitutto a me stesso.
Ho voluto liberare l’uomo, ma l’uomo è sempre stato, è e sarà schiavo, nocivo per se stesso, per gli altri e per questa povera terra, di cui è la malattia mortale, il cancro. Mi domando se il mondo ci sopravviverà. Tendo a credere di no, talmente è radicato in esso il male-uomo, il virus-uomo.

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