Memorie dal nulla – Prima parte. Il nulla – VI

L’impossibilità di chiudere gli occhi e naufragare nel sogno, nell’illusione, nella menzogna ha condizionato irrimediabilmente la mia attività di scribacchino ignoto. Non sono mai stato un tipo fantasioso, non ho mai avuto una grande immaginazione e così, nei miei libercoli, mi sono sempre ritrovato a fare i conti con me stesso, con la consapevolezza, con il nulla.
Può colpirmi un fatto di cronaca, a tal punto da suscitare in me l’impulso di indagarlo e svilupparlo in un racconto o in un romanzo, ma non riesco mai a spingermi oltre questo impulso. Sono troppo ingombrante per me stesso. Sono la prigione di me stesso, dalla quale non sono capace di evadere. Così la mia scrittura è condannata a uno stucchevole autobiografismo e al nulla. In trentuno anni non ho fatto altro che ripetere sempre le stesse cose, le stesse verità secolari espresse già innumerevoli volte e in modo peraltro decisamente migliore, come un pappagallo inascoltato. Inizio a esserne stanco, credetemi. Sta diventando umiliante parlare ai muri. Terminate queste pagine, mi sforzerò di deporre la penna per sempre, lo giuro solennemente, e se per farlo sarò costretto a tagliarmi entrambe le mani, lo farò. A pensarci bene, potrei ricavarne un doppio vantaggio: niente più scrittura e invalidità permanente! Per non farmi dare del pazzo potrei spacciare la mutilazione volontaria per un incidente di lavoro. È facile in campagna. Non è poi così improbabile perdere il controllo della motosega. Non credete che possa farlo? Credete che mi manchi il coraggio? Ma voi, signori miei, non conoscete la disperazione come la conosco io.
A proposito di fatti di cronaca, qualche giorno fa mi ha colpito questa singolarissima notizia: l’arresto, a Roma, di un ladro di ceneri. L’uomo, di quarantanove anni, già dieci anni fa era stato fermato per il furto di alcune immagini funerarie femminili al cimitero del Verano.
– Cerco la mia donna ideale, – si è giustificato. Immagino che abbia pronunciato queste parole con una ingenuità disarmante, come se il suo comportamento fosse naturale e comprensibile, o quantomeno scusabile.
Proviamo ad abbozzare il racconto di questo nostro Orfeo contemporaneo, proviamo a indagare le ragioni del comportamento di quest’uomo così singolare e interessante, che voi benpensanti giudicate senza dubbio, in modo sbrigativo e semplicistico, uno psicopatico, e la madre della giovane di cui ha rubato le ceneri, comprensibilmente, un pericoloso criminale da rinchiudere per sempre in carcere.
Orfeo vive in un appartamento di Casal Bertone con la madre. Il padre è morto diversi anni prima, stroncato da un infarto. A trentanove anni Orfeo non ha un lavoro, forse non ne ha mai avuto uno. Di lavorare non ha bisogno, perché la pensione della donna, per quanto modesta, basta e avanza per entrambi. Alla madre di Orfeo, segnata per sempre dalla morte del marito, cui ha innalzato una sorta di altarino in salotto, circondando la foto del defunto di fiori finti, la presenza del figlio è necessaria, colma il vuoto lasciato dal marito. Inoltre Orfeo la aiuta nelle faccende di casa e la accompagna ovunque: al supermercato a fare la spesa, alla posta a ritirare la pensione, allo studio medico a ritirare le ricette, al cimitero a deporre fiori freschi sulla tomba del marito, due volte alla settimana. Orfeo non ha una vita sociale, non ha amici, non ha una donna e sta bene così, accanto alla madre. Non desidera niente di più, non immagina neppure una vita diversa. Nel suo stato di emarginazione si sente perfettamente a suo agio, anche perché è vittima di una timidezza che rasenta la stupidità. Quando sono in giro, è sempre la madre a parlare, lui si limita a dei saluti pronunciati a mezza bocca. L’unico suo passatempo è rappresentato dalla televisione, dal cinema, dove va, sempre con la madre, una volta ogni due settimane, a vedere commedie italiane sciocche, ma divertenti, e dalla ricerca della donna ideale.
Orfeo vive di amore, un amore puro, ideale, quasi artistico, che sogna di poter regalare, un giorno, alla donna dei suoi sogni. Tutta la sua vita, fin dall’adolescenza, è finalizzata a quest’unico scopo. Ma la realtà non è mai all’altezza del sogno e infatti Orfeo, nelle sue relazioni con le donne, non ha ricavato che delusioni cocenti e sofferenze. Per appagare gli istinti sessuali è stato costretto più volte a ricorrere alle prostitute, e ogni volta è stata una tortura. Perché un sognatore come Orfeo del piacere carnale non se ne fa nulla, e dopo l’orgasmo è vittima di un rimorso profondo e dolorosissimo che dura per giorni e giorni: innanzitutto gli dispiace di aver abusato della disperazione di un essere umano costretto a vendere il proprio corpo per tirare avanti, in secondo luogo gli sembra di tradire la sua donna ideale, che deve pur esistere da qualche parte.
Deve esistere, sì, deve trovarsi in qualche angolo di Roma, o addirittura di Casal Bertone, distante magari pochi metri da casa sua. Tuttavia, per quanto Orfeo cerchi, non riesce a trovare la sua donna. La ricerca fallimentare lo fa soffrire e questa sua sofferenza reiterata lo conduce alla consapevolezza che lei non esiste, non può esistere. A trentanove anni Orfeo ha perduto ogni speranza, è rassegnato al proprio destino di solitudine e si fa cupo e triste.
– Che c’hai? Che hai fatto? Che ti è successo? – gli domanda la madre, notando il cambiamento.
– Niente, mamma, tranquilla, sono solo un po’ indisposto, – la rassicura Orfeo, sforzandosi di sorridere. Ma le sue labbra si piegano, si storcono in una smorfia di dolore che tradisce tutta la sua amarezza.
La madre sospira, per niente persuasa dalle rassicurazioni del figlio, e torna a guardare la televisione. Nella sua disperazione Orfeo guarda, ma non vede, e al cinema non ride più. Si macera lentamente nella sua rassegnazione, divenendo ogni giorno più cupo e triste. Le palpebre recise, in ogni donna ora vede solo ciò che non è e non sarà mai: la sua donna.
Durante una visita al cimitero del Verano, alla tomba del padre, Orfeo è trafitto da un’idea. Un’illuminazione rischiara il suo animo cupo, riportandolo alla vita: la donna ideale non esiste, d’accordo, ma forse è esistita. Da questo momento inizia la sua ricerca nel regno dei morti. Armato di cacciavite, si reca quasi ogni giorno al Verano e stacca i ritratti delle donne defunte che più gli piacciono. Lo fa perché a casa può osservarle indisturbato per ore e ore, metterle a confronto, escludendone una in favore di un’altra. A ogni volto Orfeo dona un corpo, una voce, un carattere, una storia. Riporta tutte queste donne in vita insomma. E tutte lo amano, tutte lo ringraziano per questo miracolo. Alcune foto le porta con sé, al supermercato, alla posta, dal medico ed è come se accanto avesse, oltre alla madre, anche la sua donna. Diviene persino più espansivo e socievole: se la madre è in fila al banco dei salumi, va lui a prendere il pane, discutendo amabilmente con la persona che lo serve, parlando del più e del meno, del tempo, della Lazio, della Roma.
Orfeo non è mai stato felice come in questo momento, gli sembra di aver trovato non una sola donna ideale, ma un esercito di donne ideali, che lo apprezzano e lo amano per quello che è, per la sua timidezza, per la sua riservatezza, per la sua goffaggine. In ciò che fa, nel furto delle immagini dalle tombe, non vede niente di male. Il suo sconfinato desiderio d’amore lo ha condotto al di là del bene e del male, della morale comune. Orfeo pensa solo alla sua felicità, che vede finalmente realizzata. Certo, ogni volta che la madre bussa alla porta della sua camera trema e si affretta a nascondere nel cassetto della scrivania le immagini, perché sa che la donna non approverebbe il suo comportamento, come nessun altro, ma basta essere prudenti, non esagerare, e nessuno verrà mai a sapere niente.
Orfeo immagina quando sua madre non ci sarà più e potrà ricoprire le pareti della stanza con le fotografie delle sue donne: che sogno meraviglioso! Addormentarsi circondato dagli sguardi amorevoli di tutte quelle defunte: che delizia! Le sue donne non lo abbandonano neppure nel sonno: Orfeo le sogna tutte le notti, una alla volta o tutte insieme, e mentre dorme sorride, felice e beato come un bambino. Ecco, passeggia con Sara a Villa Borghese, tenendola per mano, oppure osserva Roma dalla terrazza del giardino degli aranci in compagnia di Giulia, oppure è con tutte loro al mare, su una spiaggia di Ostia. Ogni notte regala ad Orfeo un sogno diverso e meraviglioso, di cui, al risveglio, conserva gelosamente il ricordo.
Ma l’uomo ha esagerato, nella sua ebbrezza amorosa si è fatto prendere la mano e ha rubato troppe immagini (un centinaio), da tombe troppo esposte, troppo recenti, così lo scoprono. Quando le autorità gli portano via il suo preziosissimo tesoro e con esso la felicità, Orfeo è preda di un dolore indicibile, insostenibile, mai provato prima, neppure alla morte del padre. Togliendogli quelle immagini è come se gli avessero strappato un pezzo del corpo ed egli si sente smarrito, spaesato, distrutto. Grazie alle sue donne il mondo aveva cambiato aspetto, era diventato più bello, come più colorato, mentre ora sprofonda di nuovo nel grigiore insignificante di prima. Inoltre gli pesa il giudizio della gente, cui si unisce anche la madre: tutti a Casal Bertone lo additano come un maniaco, un necrofilo e questo gli fa male. Orfeo non ha rubato una sola immagine per depravazione, neppure una. Tutti, per alimentare il loro macabro e ipocrita disprezzo, immaginano che nella sua stanza, con quelle foto di donne morte, abbia fatto chissà cosa, chissà quale schifezza, mentre egli non ha fatto altro che ammirare, con amore, devozione e commozione quei piccoli ritratti, come un collezionista d’arte.
– Bisognerebbe chiuderlo in manicomio quel porco squilibrato, – commentano tutti nel quartiere.
Orfeo non esce più di casa. Passa le giornate sdraiato sul letto, macerandosi nel suo dolore. Pensa persino di farla finita, di buttarsi giù dalla finestra, tale è la sua sofferenza, la sua vergogna. Non ce l’ha con nessun altro all’infuori che se stesso, si rimprovera duramente per avere esagerato, per non essere stato capace di accontentarsi. Non lo hanno arrestato, ma lo hanno affidato a uno psichiatra, che lo imbottisce di farmaci. Orfeo sprofonda così in una sorta di demenza silenziosa che lo riconcilia con il mondo: alienato in un mondo di alienati. Annichilito dalle pasticche, smette di soffrire, di sognare, di ricordare, naufragando nel nulla, subendo il tempo immobile nella sua stanza. Non è più un uomo, ma uno spettro. Non accompagna più la madre in giro per Casal Bertone, è sepolto vivo nella sua stanza.
Passano dieci anni, dieci anni di niente. Dopo aver terminato la cura, Orfeo è tornato a una vita più o meno normale, uscendo di casa di tanto in tanto: la gente dimentica in fretta. Chissà quanti altri bersagli hanno trovato in quei dieci anni le malelingue del quartiere, chissà quanti altri mostri da condannare senza appello! Certo, nessuno gli dà confidenza, tutti lo evitano, perché Orfeo è comunque marchiato a vita, come Caino, ma nessuno gli dice più niente, nessuno lo insulta o lo dileggia. Non è più andato al cimitero a trovare il padre, ma un esilio di dieci anni dal regno dei morti sembra alla madre una pena sufficiente. Del resto la donna è ormai vicina agli ottanta e ha bisogno di una mano, di un sostegno. Così convince Orfeo a tornare al Verano.
Non appena varca la soglia del grande cimitero, il nostro eroe è invaso dalla nostalgia. Torna con la memoria alle ore più felici della sua vita, in compagnia di quegli eterni volti femminili strappati alle tombe. Si costringe a camminare con la testa bassa, senza guardarsi attorno, per non sprofondare ancora di più nel rimpianto e nell’amarezza.
Nonostante questo suo sforzo titanico, qualche sguardo intorno gli scappa, è inevitabile, e proprio uno di questi sguardi fuggiaschi si arresta su di lei, la donna che ha sempre sognato, morta a neppure vent’anni. Orfeo prova a strapparsi da quella immagine, vorrebbe fuggire via a gambe levate e rifugiarsi nella sua stanza, al sicuro dalla tentazione, ma non ci riesce. Una forza misteriosa e indefinibile lo tiene incollato a quella fotografia e dentro di lui scoppia la tempesta, quella tempesta d’amore repressa a colpi di pasticche. Dopo dieci anni di nulla, Orfeo torna alla vita, risorge, e con lui risorge anche la giovane donna morta ad appena vent’anni.
– Ci rivedremo presto, amore mio, – sussurra Orfeo alla sua donna, prima di lasciare il cimitero.
Orfeo sa. Sa di non potersi più accontentare di una semplice immagine e sa a cosa andrebbe incontro assecondando il suo ardente desiderio d’amore. Di nuovo la condanna e la vergogna, di nuovo l’emarginazione e i farmaci, forse addirittura il carcere questa volta. È perfettamente consapevole delle conseguenze che lo attendono, ma come potrebbe resistere a questo supremo, definitivo richiamo d’amore? Come? Questa domanda, insieme alla tempesta interiore scaturita alla vista di quella immagina miracolosa, gli toglie il sonno. Sdraiato sul letto, immerso nel silenzio solenne della notte, pianifica la propria felicità. Non può attendere ancora molto, perché il suo desiderio si è trasformato, nel giro di poche ore, in un’esigenza fisica, come bere, mangiare, respirare. Non riesce a dormire, ma non gli importa, impegnato a pregustare la gioia imminente.
La notte successiva sgattaiola fuori di casa. Ha con sé uno zaino, che contiene una torcia e un piede di porco. S’intrufola nel cimitero e gli basta la tenue luce della luna per orientarsi, perché il Verano lo conosce come le sue tasche. Forza la tomba della giovane e afferra l’urna contenente le ceneri. Il suo animo è in subbuglio, il cuore gli batte all’impazzata, come se volesse sfasciare la cassa toracica ed erompere fuori, ma Orfeo agisce con precisione, senza lasciarsi travolgere dall’ansia, come un tombarolo consumato.
– Amore mio… ti cerco da una vita e finalmente eccoti qui! Ora che ti ho trovata, vieni via con me, – sussurra Orfeo baciando con ardore l’urna funeraria, quello stesso ardore con il quale Pigmalione dovette baciare la statua di Galatea.
Orfeo ripone il preziosissimo scrigno nello zaino e lascia il cimitero, senza voltarsi mai. Rientrato a casa si mette subito a letto, portando con sé, sotto le coperte, l’urna, che abbraccia con forza, come se tentassero già di strappargliela via. Scoppia a piangere e le sue lacrime irrefrenabili inzuppano il cuscino.
Terminiamo così il racconto, con questa immagine struggente, e risparmiamo al nostro povero Orfeo il dolore successivo alla gioia immensa.
Potrebbe venirne fuori qualcosa di interessante, non trovate? Qualcosa dal discreto valore artistico, filosofico e morale, dunque inedito nell’attuale panorama editoriale italiano, dominato dai generi.
Nella mia vita ho capito che quel poco che ancora oggi conserva un valore universale, capace di trascendere spazio e tempo, di imporsi ben al di là della contingenza, si trova nel fango. La pulizia, la bellezza, la presunta normalità e le ridicole reazioni ad essa, quelle pretese di anticonformismo che finiscono per rientrare tutte nella norma, sono inconsistenti e vuote, mere apparenze prive di sostanza e di valore. Tutto ciò che brilla non è altro che bigiotteria. La vera ricchezza si nasconde sotto uno spesso strato di sporcizia, di diversità, di emarginazione. Per questo motivo ho sempre trovato interessanti i reietti, i cosiddetti pazzi, le prostitute e noiosi tutti gli altri, tutti voi, sbiadite copie l’uno dell’altro, privi di contenuti, automi, marionette, sagome di cartone, cadaveri incapaci di concepire una sola idea originale, succubi e complici del tempo che vi è toccato in sorte, tutti intenti a rifuggire quella morte che in realtà vi ha già agguantati. Nella vostra incoscienza e nella vostra arroganza non vi accorgete neppure di imputridire.

Memorie dal nulla , , , ,

Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

Precedente Memorie dal nulla - Prima parte. Il nulla - V Successivo Memorie dal nulla - Prima parte. Il nulla - VII