Memorie dal nulla – Prima parte. Il nulla – II

Non provo nessun piacere, nessuna soddisfazione a scrivere queste cose, credetemi. Non è un malriposto sentimento di vendetta a ispirare queste pagine. Non devo vendicarmi di nessuno, o al massimo solo di me stesso. Del resto, per il mondo e per il novantanove virgola nove periodico percento dell’umanità io non esisto, non sono mai esistito, né esisterò mai. Ormai non esisto più neppure per me stesso. Sono un lemure, uno di quegli spiriti della morte cui resta quel tanto di muscoli e di tendini che basta perché possano muoversi, seppur a stento, e non sembrino scheletri trasparenti e non cadano a terra. Niente più di questo.
«L’uomo, che a trent’anni non ha raggiunto il suo sogno, invano si crede grande», è scritto in un dramma cinese della fine del XIV secolo. So che molti di voi, leggendo le mie parole, hanno avuto questo pensiero, anche se, di certo, espresso in modo ben più grossolano. Si tratta di un equivoco, perché, ci tengo a ribadirlo, non mi ritengo né mi sono mai ritenuto migliore di voi, di nessuno di voi, neppure del più barbaro. Non sono stato capace di essere all’altezza delle mie ambizioni, è vero, ma questo non mi ha condotto alla superbia, anzi, al contrario, non ha fatto altro che sprofondarmi di più nella consapevolezza e nel nulla. Se fosse possibile, credetemi, la smetterei di scrivere, e spero di riuscirci un giorno, godendo almeno di questo sollievo prima di scomparire, ma la scrittura è radicata in me come un vizio, e il vizio, benché non arrechi più godimento, è la sola cosa più forte della consapevolezza. L’uomo consapevole non può vivere, ma non smetterà di fumare se è un fumatore, di bere se è un alcolizzato. Può, semmai, raddoppiare la quantità giornaliera di sigarette e di alcol, per accelerare la fine.
Chiedere di vivere a un uomo consapevole sarebbe come chiedere di vivere a un malato terminale: un’assurda crudeltà, o una crudele assurdità, fate voi. Non immaginate quante volte, soprattutto in giovinezza, quando provavo un’invidia feroce nei confronti dei miei coetanei così spensierati e leggeri, io abbia maledetto me stesso a causa della consapevolezza! Non saprei spiegare perché questa disgrazia sia capitata proprio a me, perché, sin dall’adolescenza, mi sia circondato esclusivamente di libri portatori di verità negative, iniziando presto, troppo presto a distruggere tutto ciò che mi stava intorno, a isolarmi, emarginarmi, escludermi. Potrei dire che si tratta di una condanna, di una maledizione che pendeva sul mio capo ancor prima di venire al mondo, e dalla quale sarò libero solo con la morte, ma non basta. Deve esserci dell’altro e vorrei indagarlo, così, tanto per ammazzare il tempo.
L’uomo del sottosuolo, uno dei miei tanti fratelli maggiori, dichiara che l’unica causa della consapevolezza è la sofferenza. Ora, non ho sofferto più degli altri (la mia vita è segnata da una sola, grande, irrimediabile tragedia, ma comune a tutti gli esseri, la tragedia della nascita, e da tutta una serie di piccoli drammi piuttosto banali, direi persino dozzinali), ma ho sentito la sofferenza più degli altri, a causa di un’ipersensibilità che non ho mai riscontrato in nessuna delle innumerevoli persone che ho conosciuto e che rappresenta, questa sì, un’autentica maledizione, trattandosi di un aspetto caratteriale, legato indissolubilmente alla mia natura. Ho sempre sentito e subito tutto in un modo, come dire, amplificato, esasperato: l’ansia degenerata in angoscia, ma un’angoscia così profonda e arresa da non tradire nessun sintomo visibile (all’università, durante gli esami, apparivo sempre il più tranquillo, imperturbabile, mentre dentro di me era la morte); il disprezzo in odio, ma un odio feroce, omicida (se avessi avuto anche solo il sospetto che potesse servire a qualcosa, mi sarei fatto terrorista); la malinconia in mestizia, ovvero uno stato di afflizione persistente, cupo e invincibile, al di là della sofferenza, caratterizzato da una amarezza rassegnata, sottomessa a se stessa; il dolore in disperazione, l’unico sentimento sopravvissuto alla devastazione prodotta dalla consapevolezza, e che credo di conoscere meglio di chiunque altro, nella mia condizione di vuoto prematuro; la paura in una solenne promessa di distruzione; la responsabilità in senso di colpa, ma un senso di colpa spinto fino al parossismo, all’ossessione, da martire; la noia in un sentimento del nulla fisico, materiale, tangibile. Forse è questa la chiave.
Di certo dall’ipersensibilità è scaturita la mia propensione all’assolutezza, al radicalismo, all’intolleranza, l’incapacità di accogliere sfumature tra il bianco e il nero, porzioni tra il niente e il tutto. Sì, per me è sempre stato tutto bianco o nero, mai grigio. Non potendo avere tutto, mi sono sempre gettato a capofitto, persino con entusiasmo, nel niente. Non sono mai stato capace di essere mediocre, tiepido, ho sempre detestato con tutto me stesso il compromesso. Per questo motivo non potrei mai accettare di lavorare per qualcun altro, di sprecare le poche energie che mi restano per arricchire qualcun altro, come vorrebbero, in sostanza, i miei genitori. Di certo non ho la natura del tiranno, ma neppure quella dello schiavo. Sono troppo consapevole per ricoprire uno di questi due ruoli, ai quali, in sostanza, si riduce l’intera umanità.
Sono certo che la stragrande maggioranza di voi, leggendo queste parole, mi giudicherà un parassita qualunque, uno scansafatiche come tanti. Potrei limitarmi ad alzare le spalle e proseguire per la mia strada (non ti curar di loro, ma guarda e passa), ma, lo ripeto, non voglio che sorgano equivoci tra di noi, di nessun genere. Ebbene, signori benpensanti, io non sono un parassita, perché non posso essere neppure un parassita: sono niente e basta. Dubito che possiate comprendermi, del resto io stesso non ho più alcuna fiducia nelle parole, ma almeno dovete riconoscermi di averci provato. Forse con un esempio vi sarà possibile compiere un passettino in più verso la comprensione.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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