L’escluso – meno 9

In compagnia di Margherita ho passato altre due sere. Per due sere con la sua miracolosa presenza ha alleviato il mio calvario. Abbiamo parlato di tutto. Poi la caviglia si è sgonfiata e lei ha ricominciato a correre e ad allenarsi. Ora ci incontriamo, scambiano due chiacchiere al volo, come stai come non stai, e lei riparte. Mi sfugge e mi dispiace. Mi sfugge e non riesco a trattenerla.
Questa sera sono uscito con l’intenzione di parlarle. A tutti i costi. Dovevo sapere di che morte morire. Ci incontriamo, ci salutiamo, in modo ancor più freddo del solito. Lei neppure si ferma, rallenta solo il passo. Sta per ripartire ma la afferro per un braccio e le dico che ho urgente bisogno di parlarle.
– Va bene, ma devo tornare a casa e fare la doccia, perché così rischio di ammalarmi e non mi va, non me lo posso permettere. Vediamoci al parco di fronte casa mia. Sono io che devo parlarti, – e scappa via, a velocità doppia rispetto alla sua solita andatura.
Mi avvio verso casa di Margherita e fantastico su cosa debba dirmi. Mi trascino e immagino di tutto. Immagino così tanto che perdo la cognizione del tempo. Immagino così tanto che la mia testa esasperata mi fa persino pena.
Arrivo al parco e trovo Margherita già pronta. Seduta su una panchina, fuma nervosamente. Lei fuma le sigarette tradizionali, Winston Blue. Mi siedo accanto a lei.
– Eccomi qua. Scusa se ti ho fatto aspettare ma a volte mi perdo dietro ai miei pensieri, – le dico tirando fuori dalla tasca del giubbotto il pacchetto di tabacco, le cartine e i filtri. In pochi secondi la sigaretta è pronta ma aspetto ad accenderla. La tengo nel palmo della mano.
– Cosa devi dirmi di così importante? – mi domanda Margherita.
– Niente. Era solo una scusa per passare un po’ di tempo con te, – rispondo abbozzando un sorriso.
– Io invece devo parlarti davvero.
– Sentiamo.
Margherita schiaccia la sigaretta sulla suola spessa degli stivali e inizia a giocherellare nervosamente con il filtro. Io accendo la mia sigaretta artigianale e inizio a fumarla con avidità. Scuoto velocemente la gamba destra. La curiosità mi rende nervoso. Assai di rado mi è capitato di avere le orecchie così spalancate, così avide di parole. Ho la sensazione vivida che questa notte Margherita possa decidere gran parte del mio destino. Scuoto la gamba destra ancor più velocemente e fumo la sigaretta con maggiore avidità.
– Prima di tutto devi sapere che ciò che sto per dirti, oltre alla mia famiglia, lo sa solamente la mia migliore amica. Non l’ho mai detto a nessun altro e non so perché abbia deciso di dirlo anche a te. Non lo so, davvero, ma sento la necessità di farlo.
– Non lo sai? – la interrompo guardandola negli occhi, che tiene incollati a terra, sul brecciolino.
– No, non lo so. Non possiamo sapere sempre tutto, anche se a te possa sembrare strano. Ci sono cose nella vita di cui non possiamo conoscere le ragioni. Il fatto davvero curioso è che la necessità di raccontarti la mia storia mi è esplosa dentro nel momento in cui stasera mi hai preso per il braccio. È scaturita da quel contatto. Non saprei dirti di più.
– Va bene, mi basta.
– Soffro di gravi disturbi del comportamento alimentare. Tutto è iniziato quando avevo diciassette anni, un pomeriggio come un altro, dopo la scuola. Per l’ennesima volta negli ultimi giorni avevo litigato con Giulio, il mio ragazzo, ma questa volta per telefono. Gli ultimi giorni litigavamo sempre. Io urlavo e lui urlava sopra di me, ancora più forte. Tentava di sopraffarmi, di imporsi, come aveva sempre fatto da quando stavamo insieme. Ero arrabbiata e nervosa, perché sapevo bene che tra poco sarebbe finito tutto tra di noi, che quelle continue e violente litigate stavano segnando la fine della nostra storia. Avevo finito di pranzare da poco, i miei genitori erano tornati a lavoro, mia sorella guardava la televisione. Mi sono chiusa in bagno ed è stato facile vomitare. È stato facile e naturale, anche se non ci avevo mai pensato prima. È stato facile, naturale e rilassante. Sì, rilassante. Mi sono sentita svuotata, come se mi fossi liberata di tutta la rabbia e di tutto il nervosismo accumulati negli ultimi giorni. Dopo aver vomitato mi sono lavata il viso, i denti, guardandomi allo specchio mi sono data una sistemata ai capelli e sono tornata in camera, come se niente fosse. La giornata è proseguita normalmente, come tutte le altre. Io e Giulio ci lasciammo una decina di giorni dopo. Non era mai stato gentile, affettuoso con me e io ero convinta che fosse giusto così. Era normale che mi insultasse e che fosse violento. Era normale che mi afferrasse con forza e cattiveria per il collo, che mi stringesse alla gola e mi sbattesse contro il muro, come se volesse conficcarmi nella parete. Era normale che mi gridasse con quanto fiato aveva in corpo che ero una pazza e che gli avevo rovinato la vita. Era normale che maledisse il giorno in cui mi aveva incontrata. Perché io ero gelosa, maniacale, ossessiva, morbosa. Ero piena di ansie, di insicurezze, di paure, ero frustrata, insoddisfatta e glielo facevo pesare. Lo tormentavo. Sì, era normale, perfettamente normale che lui reagisse in quel modo brutale. Così ero sempre io a chiedergli scusa, a inginocchiarmi ai suoi piedi implorandolo di non lasciarmi, giurando e spergiurando che avrei smesso di tormentarlo con le mie ansie, le mie insicurezze, le mie paure, che non gli avrei più riversato addosso le mie frustrazioni e le mie insoddisfazioni. Inginocchiata ai suoi piedi lo imploravo di non lasciarmi e piangevo come una bambina. Sì, era normale, era così che doveva andare. Giulio non voleva più saperne di me, mi aveva lasciata e io avevo di colpo smesso di avere fame. Ma dovevo mangiare, dovevo sedermi a tavola con i miei genitori, con mia sorella e mangiare. Dovevo farlo. Ma dopo pranzo loro tornavano a lavoro, mia sorella si lasciava assorbire dalla televisione e io mi rinchiudevo in bagno. Era facile vomitare. Bastava infilarsi il medio e l’indice in gola, premere l’altra mano sullo stomaco ed era fatta. Tutto qui. Un’operazione semplice e pulita. La cicatrice sulla mano, su questa mano consumata ora dai pugni, sembrava una banale scottatura, niente di più. Nessuno avrebbe sospettato nulla, mai. Nessuno sospetta mai nulla. Sembra sempre che le cose avvengano all’improvviso, senza un motivo, ma non è così, non può essere così. Dietro un evento, dietro un fatto, inconsciamente o meno, c’è sempre una gestazione lunga e nascosta. Se non la vediamo non significa che non ci sia. Niente avviene all’improvviso, niente. Sarebbe troppo semplice. Ogni fatto è un parto. Dopo l’esame di maturità ho deciso di lasciare Nettuno. Non sapevo cosa volevo fare della mia vita, non sapevo cosa volevo diventare, ma sapevo che volevo andare via da qui, che volevo fuggire da questo paese e da questa casa, a tutti i costi. Era un bisogno impellente, fisiologico. Se non lo avessi fatto sarei impazzita. Non sopportavo più i miei genitori, soprattutto mia madre, e mia sorella. Mi sentivo sola, abbandonata, messa da parte, incompresa, offesa, come mai mi era capitato prima e intanto continuavo a vomitare regolarmente dopo i pasti, senza pormi il problema di un nome, di una definizione, io che sin da bambina amavo tanto le parole. Della bulimia non avevo mai sentito parlare e non sapevo cosa fosse. Il mio era semplicemente un vizio, o una cattiva abitudine, niente di più. Avrei voluto parlarne a mio padre e a mia nonna, le due uniche persone di cui mi fidavo davvero e che avrebbero potuto capirmi. Ma poi mi dicevo che no, non avrebbero potuto capirmi neppure loro, che i loro sguardi, anche se non lo avessero voluto, mi avrebbero giudicato e io non lo avrei sopportato. Del mio vizio mi vergognavo, di parlarne non ne avevo il coraggio. Così lasciai Nettuno e mi trasferii a Bologna. Roma era troppo vicina, avevo bisogno di una soluzione drastica, radicale. Strinsi da subito molte amicizie, molte più di quante ne avessi strette fino a quel momento in vita mia. Sì, strinsi da subito molte amicizie, troppe. Uscivo tutte le sere e mi trascinavo per feste e locali fino all’alba. Non frequentavo le lezioni, i miei professori non sapevo neanche che aspetto avessero, se fossero uomini o donne, e non studiavo. La studentessa modello del liceo che aveva superato gli esami di stato con uno splendido novantacinque non c’era più, non esisteva più, era morta. Ero cambiata, ero un’altra persona e i miei genitori non ne sapevano nulla, non sospettavano nulla. Lontani centinaia di chilometri, credevano che andasse tutto bene. Ero cambiata perché volevo cambiare, perché cercavo una nuova me stessa e una nuova vita. Sì, volevo iniziare una nuova vita, lontano dalla famiglia e da Giulio. Volevo fare tutto quello che mi andava di fare, senza limiti, senza costrizioni. Volevo essere finalmente libera e mi sentivo libera. Avevo finalmente distrutto tutti gli schemi nei quali ero stata costretta e vivere e a crescere nei primi diciannove anni della mia vita. Uscivo tutte le sacrosante sere e bevevo, bevevo, bevevo, come se non fossi nata per fare altro che rigurgitare alcol. Andavo a letto con ragazzi che conoscevo poco o non conoscevo affatto e a cui non importava niente di me. Per loro ero solamente un piacevole svago, un corpo di cui servirsi per qualche giorno, per qualche ora e nient’altro. Per loro ero solamente un pezzo di carne e mi illudevo che anche loro per me fossero la stessa cosa. Sapevo fin troppo bene che non era così, che non poteva essere così. Mi concedevo con facilità nel disperato tentativo di colmare un vuoto cosmico, nel disperato tentativo di trovare un appiglio, un affetto stabile, duraturo, nel disperato tentativo di trovare un uomo che mi amasse davvero e non mi abbandonasse come mi aveva abbandonata Giulio. Volevo trovare un uomo che mi sostenesse e mi comprendesse, un uomo su cui contare davvero, a cui aggrapparmi nei momenti più bui. Nel mio primo anno a Bologna presi dieci chili. A Natale tornai a casa e tutti mi dicevano che stavo bene. Tutti mi dicevano che ero ingrassata e che stavo bene con quei chili in più addosso. Del mio corpo non me ne fregava niente. Pensavo solo alla mia nuova libertà. Avevo distrutto tutti gli schemi, quegli schemi asfissianti che mi avevano intrappolato per anni. Ero libera, potevo fare tutto quello che volevo, potevo essere tutto quello che volevo, indossare la maschera che preferivo. Potevo mangiare intere confezioni di biscotti formato famiglia, potevo svuotarmi un intero barattolo di Nutella da mezzo chilo. Potevo bere fino a stordirmi, fino a stare male, fino a svenire. Avevo decine di amici, avevo l’alcol, il sesso, le feste, il divertimento sfrenato. Ero libera ed ero diventata finalmente una donna. A casa, a scuola, con Giulio non mi ero mai sentita una donna, ma una bambina. Ora sì ed ero consapevole della mia forza. Potevo scoparmi tutti i ragazzi che volevo e poi mandarli a fare in culo. Fingere di mandarli a fare in culo, perché in realtà ogni ragazzo, andandosene, era come se si portasse via un pezzo di me. Dopo le vacanze di Natale, tornata a Bologna, ho conosciuto Gabriel. Pensavo che anche lui sarebbe scomparso come tutti gli altri, ormai ero rassegnata a questo esito e mi sforzavo di ignorare il dolore che ne derivava. Ma Gabriel voleva me, me sola. Gli piacevo, ma non so, ancora oggi a volte mi domando se ci abbia creduto davvero. Siamo stati innamorati, ma non l’ho mai amato davvero. No, non l’ho mai amato davvero, lo so per certo. Abbiamo convissuto per un anno. Passavamo giornate intere a letto, non uscivamo mai. Un giorno mi sono guardata allo specchio, quasi per sbaglio, e mi sono domandata cosa fossi diventata. Ero grassa, come una scrofa. Dovevo dimagrire, assolutamente. Iniziai a fare attenzione ai valori nutrizionali dei cibi. Riuscivo a perdere un chilo a settimana. Gabriel mi diceva di mangiare, di farla finita con quella storia ridicola, che non ero affatto grassa e andavo benissimo così. Ma Gabriel era troppo impegnato con la tesi per parlarmi con convinzione, per investire il suo tempo su di me e convincermi davvero a farla finita con quella storia ridicola. Le sue erano obiezioni di circostanza, pronunciate solo per cancellare il silenzio imbarazzante di un momento. Se ne stava tutto il giorno davanti al computer, tra la scrittura della tesi e le partite della sua squadra di basket. Gabriel era americano e in quel periodo il computer era diventato un prolungamento del suo corpo. Quando facevamo l’amore avevo la fastidiosa sensazione di fare l’amore anche con quel computer. Gabriel non faceva più molto caso a me e io vivevo in bagno. Vivevo all’interno di quello spazio stretto, claustrofobico, asfissiante come un tribunale kafkiano. Era cambiato tutto, di nuovo. Io ero cambiata, di nuovo. Il cesso era tutto per me in quel momento. Mi portavo in bagno i libri e gli appunti e li poggiavo sulla tavoletta del cesso. Dedicavo tutte le mie energie ai valori nutrizionali, tutta la mia attenzione a cosa mangiare e cosa no. Allo studio riservavo le poche energie residue e non bastavano. Volevo studiare, a volte lo desideravo più di ogni altra cosa, ma non ci riuscivo. Allora fingevo di studiare. Afferravo i libri, li aprivo e li sfogliavo, ma senza leggerli, soffermandomi per qualche secondo su uno schema, su un’immagine, e poi procedendo oltre. La tavoletta era abbassata quando fingevo di studiare, si alzava quando vomitavo ricacciando fuori quel poco che avevo deciso di mangiare dopo ore e ore di calcoli, di addizioni, di sottrazioni, di moltiplicazioni, di divisioni. Io che odiavo la matematica da quand’ero bambina. Lo spazio stretto, claustrofobico, asfissiante del bagno, mentre dentro mi divorava il senso di colpa e la percezione dell’inutilità e dell’insensatezza della mia esistenza mi schiacciava e mi stordiva. Infine avvenne. Era un pomeriggio di primavera, la Pasqua era alle porte e Gabriel non c’era, era andato a giocare a basket. Ero sola in camera. Me ne stavo seduta sul letto, con le gambe incrociate e non cercavo valori nutrizionali, ma bighellonavo per internet. Poco prima avevo tentato di vomitare dei biscotti, ma non ci ero riuscita. All’improvviso ho sentito il mio corpo staccarsi da me. Non lo controllavo più. La testa era una cosa e il corpo un’altra, due entità separate. Avevo bisogno di aiuto. Sentivo le braccia e le gambe tremare. Osservavo le mie mani tremare ed ero inerme. Il corpo non mi ubbidiva più. Avevo bisogno di aiuto. Riuscii a trascinarmi fuori dalla camera, a raggiungere il corridoio, dove incontrai delle mie compagne. Le implorai di chiamare l’ambulanza. Il primo attacco di panico. Il primo di una lunga serie. Dio che fatica.
Margherita si ferma, sospira. Un sospiro lungo e profondo. Appoggia la schiena alla panchina e accavalla le gambe. Riprende fiato. Si accende una sigaretta.
Io lotto, lotto con tutto me stesso con la tentazione di afferrarle la mano e stringerla forte. Lotto e guardo ostinatamente a terra. Non posso spostare il mio sguardo su di lei, non posso e non devo. Guardo il brecciolino ma senza vederlo, e lotto, e attendo.
Margherita fuma in silenzio. Ricomincia a parlare solo dopo aver terminato la sigaretta. La sua voce sconfigge la mia tentazione. Ho il sospetto che se la toccassi rovinerei tutto.
– Quella sera, dopo il primo attacco di panico, chiamai mio padre e gli raccontai tutto. Piansi a dirotto e, tra un singhiozzo e l’altro, gli raccontai tutto. Quella confessione mi costò molte lacrime, ma non potevo fare altro. Era un pianto liberatorio il mio. Come era stato liberatorio vomitare la prima volta. Avevo bisogno di aiuto. Avevo bisogno dell’aiuto dell’unica persona al mondo sulla quale potessi contare davvero, perché anche nonna, nel frattempo, se n’era andata. Papà mi consigliò di tornare a casa per un po’ e io accettai. Non sapevo cos’altro fare. Ma la mia vita a casa era un inferno. Le sedute con lo psichiatra mi infastidivano, le trovavo inutili. Lui mi diceva di parlare, parlare, parlare e io parlavo, parlavo, parlavo. Ero sospettosa, recalcitrante, ma parlavo, ricevendo cosa in cambio? Cenni del capo a cadenza fissa, sistematica, robotica. Il rumore secco, meccanico, impersonale, gelido, indifferente, disarmonico dei polpastrelli sulla tastiera del computer. Sarebbe stato molto più consolante, molto più umano il suono lieve della punta della penna su un foglio di carta. E poi ricette mediche, farmaci, dosaggi. Nient’altro. I conflitti con mia madre erano quotidiani, puntuali e sanguinosi. Dopo i pasti, dopo la colazione, il pranzo e la cena chiudeva a chiave il bagno e la dispensa. Glielo aveva consigliato lo psichiatra. Andava a lavoro e io, come una belva, mi attaccavo con foga a ciò che restava nel frigorifero, a ciò che mia madre lasciava nel frigorifero perché non sarebbe venuto in mente a nessuno di mangiarlo: un barattolo di miele da un chilo e un panetto di burro da duecentocinquanta grammi. Sua figlia poteva essere così avvelenata? Quando poi tornava a casa e scopriva che mi ero avventata persino sul miele e sul burro andava su tutte le furie. Ma durava poco, perché scoppiava subito a piangere, disperata. Con le lacrime agli occhi mi domandava perché non fossi normale, perché non fossi come tutte le mie amiche. Mi domandava cosa avesse fatto di male per meritarsi un simile castigo. A volte mi faceva una gran pena e promettevo a me stessa di smetterla. Altre volte invece, al culmine dell’esasperazione, la odiavo per avermi messo al mondo e le scoppiavo a ridere in faccia. Era una guerra tra poveri. A casa non facevo niente, me ne stavo tutto il giorno a letto e i giorni erano tutti uguali. Non c’era alcuna differenza tra la domenica e il lunedì. Me ne stavo a letto e contavo le ore che mi separavano da un pasto all’altro. Ore lente, lentissime, che colavano e si perdevano nel nulla come le gocce di un lavandino spanato. Intanto Gabriel si era laureato e per festeggiare ce ne andammo una settimana a Lanzarote. La vacanza fu un disastro. Avevo deciso di farla finita con Gabriel, non avevo nessuna voglia di andare in vacanza con lui e mi resi volontariamente intrattabile. Non mi feci sfiorare neppure una volta. Volevo che mi lasciasse, ma con mia grande sorpresa non lo fece. Allora lo feci io, al ritorno da Lanzarote. Decisi di tornare a Bologna. Mi abbuffavo e vomitavo meno di frequente. Lo psichiatra mi dava fiducia e diminuiva il dosaggio dei farmaci. Conobbi un nuovo ragazzo e con lui fu diverso, ma davvero. Mi ascoltava, mi consigliava delle letture, mi portava in libreria, mi faceva ascoltare canzoni, mi regalava libri. Andrea si faceva strada dentro di me adagio, a piccoli passi, come i libri che mi regalava. Ogni suo libro faceva centro, e intanto Andrea entrava sempre più a fondo dentro di me, facendosi spazio, catturando il mio interesse e le mie attenzioni. È stato Andrea a farmi scoprire Bolaño. Mi rifugiavo nelle pagine dello scrittore cileno e mi sentivo al sicuro, erano come gli abbracci rassicuranti di mio padre e di mia nonna. Andrea mi riconsegnò alla scrittura. Quella scrittura verso la quale già le maestre alle elementari mi spingevano. Andrea leggeva con interesse e attenzione tutti i miei testi e mi diceva che ero brava, che avevo talento, che se avessi smesso di scrivere avrei fatto un torto a me stessa e agli altri. Perché anche gli altri avrebbero trovato talentuosa la mia scrittura, non solamente lui, che mi voleva bene. Andrea mi rendeva felice. Mi sentivo amata, ma, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a ricambiare completamente il suo affetto. Ero fredda e avevo freddo, tanto freddo. Perché Andrea mi nutriva e avevo smesso di mangiare. Non c’era più alcun bisogno di mangiare. Lui mi diceva che ero bella e volevo essere davvero bella per lui, glielo dovevo, almeno questo. Volevo raggiungere quell’ideale di bellezza che avevo sempre inseguito. Un ideale magro. Fu semplice per me e in poco tempo persi dieci chili. Quando mi rividero, i miei ci rimasero di stucco. Mia madre non riusciva neppure a guardarmi, talmente ero magra. Eravamo al punto di partenza e io dovetti ricominciare da capo, ancora una volta. Trovammo un accordo, una via di mezzo, perché di rinunciare del tutto alla presenza di Andrea non avevo nessuna intenzione: sarei tornata a casa ogni due settimane, avrei incontrato la nutrizionista e la nuova psichiatra. Questa volta era una donna e nello sguardo di Elena c’era dolcezza. Quella dolcezza che avevo visto solo nello sguardo indulgente e tenero di mia nonna. Neanche questa volta avevo intenzione di collaborare, perché mi piacevo così com’ero, magra, corrispondente al mio ideale di bellezza, ma la dolcezza dello sguardo di Elena mi convinse a tentare, come se fosse mia nonna a chiedermelo. Sono stata in cura da Elena per tre anni ed è stato un percorso duro, faticoso, impervio, doloroso. È stata una scalata. Ma una scalata che intraprendi senza saper scalare, imparando a scalare strada facendo, senza protezioni che ti sostengano e ti salvino da un’eventuale caduta. E puoi cadere a ogni passo. Ho dovuto fare i conti con ogni Margherita che ero stata. Ero circondata da specchi, ogni specchio rifletteva una me del passato e io la ascoltavo. Sono stata costretta ad ascoltare e comprendere le ragioni di ognuna di loro. Sono stata costretta a odiarle tutte, a venire alle mani con tutte. Ci siamo pestate, ci siamo graffiate. Ci siamo sputate in faccia e poi ci siamo abbracciate. Abbiamo pianto e poi riso insieme, delle nostre sofferenze, delle nostre paure, delle nostre debolezze. Sì, è stato un percorso duro, faticoso, impervio, doloroso, ma ne è valsa la pena. Ora sorrido ripensandoci. Ogni volta ringrazio Elena ripensandoci. E ringrazio mia nonna, che aveva quello sguardo dolce che ho ritrovato in Elena, che mi ha permesso di dare fiducia a Elena. Non ho più avuto ricadute e il rapporto con mia madre è migliorato. Abbiamo un rapporto normale ora, pacifico, sereno. Ma la svolta vera è stata la scoperta del pugilato. Mi ha convinto mio padre a iniziare, dopo la laurea triennale, dopo che avevo deciso di fermarmi un anno per ragionare e decidere del mio futuro e avevo iniziato a fare la cameriera per mettere qualche soldo da parte. Il gesto, questo gesto, – e Margherita stringe forte la mano destra tirando un pugno nel vuoto, – mi permette di esprimermi meglio della scrittura, meglio della parola. La parola non mi aveva salvato, anzi, aveva alimentato la mia solitudine, aveva ampliato a dismisura la mia distanza dal mondo e dalle altre persone. Grazie al pugilato ho capito che il corpo è una risorsa, la risorsa più importante che ho e che non ha senso tentare di imprigionarla in ideali plastici. Perché il corpo è innanzitutto movimento, è innanzitutto azione e ora detesto più di ogni altra cosa stare ferma. Ho una continua smania di movimento e di azione. Grazie al pugilato ho smesso di guardarmi allo specchio e ho iniziato a spostare il mio sguardo altrove, intorno a me. Ho iniziato a relazionarmi meglio e di più con gli altri. Finalmente mi sento viva… Finalmente percepisco la mia presenza fisica nel mondo, la mia energia. Da quando ho scoperto il pugilato lotto, lotto ogni singolo giorno. Suona la sveglia, scendo dal letto e inizio a lottare. Contro il mio demone e in difesa di me stessa, in difesa della nuova Margherita, che devo proteggere a tutti i costi. Perché il mio demone è sempre lì, in agguato, pronto a saltarmi addosso e non posso permettermi di abbassare la guardia. Ogni volta che colpisco il sacco o un avversario colpisco il mio demone e lo indebolisco. Ogni volta che percorro un chilometro di corsa aggiungo un chilometro di distanza tra me e il mio demone. Ho ancora fame, sì, ma fame d’amore, di un amore che sia dialogo, confronto, sostegno, calore, un amore totale e totalizzante, eterno, senza tempo. Un amore che in ventotto anni non ho mai incontrato, non ho mai conosciuto di persona, ma che so esiste da qualche parte. Esiste, ne sono certa, lo sento nel profondo della nuova me stessa. E anche se non dovessi incontrarlo, se non dovessi conoscerlo di persona non fa niente, avrò sempre la mia nuova me stessa da proteggere. Sì.
Una trasfusione di dolore. Il racconto di Margherita è una trasfusione di dolore, alla quale non ero pronto. Ora il suo dolore si è mescolato al mio formandone uno nuovo. La mia immaginazione non poteva spingersi a tanto. Che fare? Che dire? Ho bisogno del contatto. Provo ad afferrarle la mano ma lei la ritrae.
– Margherita, ti prego. Ci sarà un motivo se hai sentito la necessità di raccontarmi la tua storia.
– Va bene, ma non chiedermi altro.
– Io non ti chiederò mai nient’altro. Saperti, questo solo mi basta.
Le prendo la mano e la stringo forte. È fredda, ma la mia lo è ancora di più.
– Sei gelato, – sussurra Margherita lanciandomi uno sguardo.
– Lo sono sempre, anche d’estate, anche quando fuori ci sono quaranta gradi. Sono un animale a sangue freddo, un rettile.
Che dire? Raccolgo i pensieri sparsi, li ammucchio e poi li ordino. Analizzo le sensazioni, tento di dare loro una veste linguistica, comunicativa. Non è semplice. Non è affatto semplice dimostrarsi all’altezza di una simile storia. Ma devo provarci, non posso tirarmi indietro. Non posso e non voglio. Margherita mi ha donato il suo dolore, io l’ho accolto nel mio. Il suo dolore si è mescolato al mio. Ora Margherita è dentro di me e ci resterà per sempre.
– La tua storia mi ha distrutto, – dico finalmente, dopo parecchi minuti di silenzio, passati a osservare le nostre mani fuse in una, come il nostro dolore.
– Perché? – mi domanda Margherita, guardandomi con preoccupazione.
– Non lo so e lo hai detto tu stessa, non possiamo sapere sempre tutto. Il fatto è che, ascoltando la tua storia, mi sono sentito chiamato in causa in prima persona. La tua storia non riguarda solo te e le persone che hanno sofferto il tuo stesso dolore, che sono affette da gravi disturbi del comportamento alimentare, dalla bulimia, dall’anoressia. La tua storia riguarda anche me e ogni altro uomo sulla faccia della terra. La tua storia è universale. Io non ho semplicemente ascoltato la tua storia, l’ho vissuta. Io ho sentito e sento il tuo dolore in ogni singola fibra del mio corpo, in ogni muscolo, in ogni nervo. E mi sento ridicolo, come ogni volta che sono costretto a fare i conti con una vicenda esistenziale davvero dolorosa, fisicamente dolorosa, non solo cerebralmente dolorosa come la mia. Quante volte mi sono lamentato per niente, senza averne motivo. Quante volte mi sono creato dei problemi perché non ne avevo di reali. Ascoltare e vivere la tua storia è stato come avere una resa dei conti con me stesso.
– Non essere duro con te stesso, perché non sei il solo. La verità è che soffrire ci piace, anche quando non abbiamo nessun motivo per soffrire. E poi non è affatto detto che i tuoi dolori cerebrali, o meglio, spirituali, siano meno gravi dei dolori fisici. Dovresti solo sforzarti di mettere in discussione il tuo pensiero, invece di rifugiarti in esso ritenendolo l’unico giusto. Non può essere tutto o bianco o nero, o freddo o caldo. Così non fai altro che isolarti dal mondo e dalle persone. Mi stupisco persino che tu mi abbia rivolto la parola l’altra sera.
– Io per te metterei in discussione tutto. Mi sembra di averti cercata da sempre. Ascoltandoti ti ho amata come non ho mai amato nessuna donna in vita mia, – le confesso a bassa voce, lo sguardo scaraventato a terra, come se avessi confessato un peccato mortale.
– Stai esagerando, mi stai idealizzando. Io sono una persona come tutte le altre, non ho niente di speciale. Non ho sofferto più degli altri. Come puoi dire una cosa simile? Parliamo per la quarta volta e mi conosci appena. Come puoi dirmi così presto di essere disposto ad amarmi? Hai esagerato e la tua esagerazione mi irrigidisce.
Margherita libera la sua mano dalla mia e si alza dalla panchina. Si sgranchisce le gambe e fa qualche passo.
– Si è fatto tardi, – dice avviandosi verso l’uscita del piccolo parco ingombro di giochi per bambini. Mi alzo anch’io e la seguo. Non può finire così. Non questa notte. Me lo impongo. È un imperativo morale.
– Margherita, aspetta, ancora una parola. Permettimi di dirti ancora una parola, una sola, poi ti lascerò andare e non ti disturberò più, promesso.
Margherita si ferma e si volta verso di me. Io la raggiungo. Lei è già sulla strada, io invece resto sul marciapiede. Siamo a un metro di distanza l’uno dall’altra.
– Saperti, questo solo mi basta, davvero. Essere venuto a conoscenza della tua esistenza, nient’altro. Se al mondo esistono ancora persone come te significa che non tutto è perduto, che c’è ancora una possibilità di salvezza per noi uomini. Perché tu non sei una persona come tutte le altre. Tu sei la donna più incredibile che io abbia mai conosciuto e te lo dico perché lo penso davvero, senza secondi fini, credimi. Saperti, questo solo mi basta. Uno scarabocchio come me non può neppure immaginare di conquistare l’amore di una donna bella come te. Non chiedo altro e quello che ti dico lo dico in modo del tutto disinteressato. E se te lo dico è perché non posso farne a meno, starei male, ancora più male, se non te lo dicessi. Non è vero che ti conosco appena. Io ti conosco da sempre e ti amo da sempre. Io non esisto più, sono un uomo finito che si trascina avanti a fatica aspettando la morte, e nient’altro. Non sono niente e non ho più niente, ma sono certo che grazie a te potrei ricominciare a vivere, potrei di nuovo sentirmi presente a me stesso, al mondo e agli altri. Sono sicuro di questo. Io non ho più sogni, non ho più speranze, non ho più illusioni e non ho più desideri. Ma dopo la prima sera in cui ci siamo conosciuti, in cui abbiamo parlato, io ho ritrovato il desiderio. Desideravo rivederti e parlarti ancora una volta. Non dormo da mesi, ma grazie al pensiero di te la notte senza sonno è stata meno spaventosa. L’insonnia non mi ha fatto paura. Tu potresti essere la mia svolta. Tu potresti essere per me quello che il pugilato è stato per te.
Taccio. Ho parlato con foga e sono stanco. Distolgo i miei occhi dai suoi occhi, imbarazzato, perché mi rendo subito conto che le mie ultime parole sono un disperato grido d’aiuto. Margherita è un appiglio e io mi ci sono aggrappato di peso.
– Fausto, abbiamo bisogno entrambi di amore, è evidente, ma di amori diversi. Io ho bisogno di un uomo solido, che mi dia certezze, che si prenda cura di me. Non sono ancora abbastanza forte per prendermi cura di una persona. Per te è lo stesso. Noi due, insieme, rischieremmo di essere deleteri l’uno per l’altra. E poi, pur volendo, non sarebbe possibile. Tra due giorni parto, mi trasferisco a Milano per lavoro. Finalmente inizierò a lavorare sul serio, finalmente potrò prendere in affitto una vera casa ed essere davvero indipendente.
Qualcosa dentro di me in quel momento si sfascia. Sento qualcosa dentro di me andare in frantumi. L’appiglio cede, precipito. La luce si spegne, tornano le tenebre. Il calore si esaurisce, sono di nuovo gelido. Tremo. Ho la pelle d’oca. Non mi sono mai sentito così solo come in quel momento. Ma devo farmi forza, devo mantenere un certo contegno e uscire di scena con dignità, come un pagliaccio che per tutto il tempo dello spettacolo si è umiliato ma che ora, andando via, deve ricordare al pubblico che anche lui è un uomo, che lo è sempre stato.
– Sono felice per te, Margherita. È una grande opportunità. Ti auguro il meglio, e soprattutto ti auguro di trovare quell’amore totale ed eterno che tanto desideri. Anch’io sono certo che esista da qualche parte e sono altrettanto certo che lo incontrerai, forse proprio a Milano. È stato bello conoscerti.
Mi volto e mi trascino via di lì. Devo scomparire in fretta. Devo dimenticare al più presto Margherita, il suo volto e la sua storia, anche se da questa notte resterà per sempre dentro di me, il suo dolore trasfuso nel mio.
Dopo qualche passo stentato, affaticato, lei mi chiama e io mi giro. Una piccola, piccolissima speranza mi germoglia dentro dopo la devastazione.
– Un consiglio, Fausto. Lo dico per te. Alla prossima donna che incontrerai, che conoscerai, non dichiarare subito di essere pronto ad amarla. Anche se lo senti, tienitelo per te e aspetta. Lascia passare qualche mese, perché l’amore è un processo lungo e faticoso. Quello che all’inizio ti sembrava amore potrebbe rivelarsi una semplice infatuazione, o magari il contrario. Lo dico per te. Buona fortuna per tutto.
Ecco tutta la mia vita: guardare ma non toccare, toccare, a volte, ma non gustare.
Respiro, cammino, mangio, bevo, parlo, ascolto, leggo, penso, scrivo, vengo pestato e accoltello. Ma è come se non esistessi. È come se non fossi mai esistito.

L'escluso , , , , , ,

Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

Precedente L'escluso - meno 10 Successivo L'escluso - meno 8