L’escluso – meno 6

Ho reagito. Ho reagito ma in maniera scomposta. Ho reagito ma in maniera scomposta come ogni volta che decido di reagire.
Non conosco mezze misure. Mai. O bianco o nero. O caldo o freddo. O tutto o niente.
Ho reagito a Margherita e a tutto quello che questo nome si trascina dietro in maniera scomposta. Violenta. Come un calciatore che, dopo aver subito un fallaccio o un insulto, reagisce rifilando una capocciata all’avversario che lo ha steso o irriso. In stile Zidane insomma. Rosso diretto e non meno di tre giornate di squalifica. Sono stato calciatore e amo il calcio ma non questo calcio. Il calcio degli anni Novanta. Il calcio di Zidane e di Ronaldo ma quello vero. Il calcio non esiste più. Il calcio è morto. Come non esiste più ed è morta la letteratura. C’è ancora qualcosa di vivo in questo maledetto mondo? La stupidità e l’ignoranza, quelle non moriranno mai.
Anche l’inverno ha reagito in questi giorni. Le temperature si sono abbassate. Grosse nuvole nere gravide di pioggia sono state portate dallo scirocco. Sono state ammucchiate nel cielo dallo scirocco. Poi lo scirocco se n’è andato. Le nuvole sono rimaste ed è piovuto. È piovuto e le temperature si sono abbassate. Un rigurgito d’inverno. Benedetto, implorato. Non è piovuto molto ma è meglio di niente. Non è ancora abbastanza ma è meglio di niente.
Ho riacceso il camino. Non ho bruciato solo legna. Ho bruciato anche carta. Era notte fonda e i miei genitori dormivano da un pezzo. La pioggia picchiettava sui muri. Ho preso tutti i miei quaderni e li ho bruciati. Ho ravvivato il fuoco e li ho gettati nel fuoco. Ho preso tutte le tracce del mio passaggio su questa terra e le ho bruciate. Non resta più niente di me.
È stato il mio primo tentativo di reazione. Farmi del male per distogliere l’attenzione da Margherita e da tutto quello che questo nome si trascina dietro. Appunti, articoli, saggi, diari, poesie, racconti, romanzi. Non resta più niente. Osservavo le fiamme danzare come odalische rosso-bluastre attorno ai quaderni e poi aggredirli, infine divorarli ma non vedevo solo della carta bruciare. Non vedevo solo della carta annerire e infine incenerirsi. No. Vedevo altro. Vedevo bruciare interi momenti della mia vita e decine di persone reali e immaginarie. Un autodafé in piena regola. Niente da invidiare all’inquisizione spagnola. Niente. Non resta più niente.
Ora mi sento come svuotato. Ora mi sento come si sentirebbe una bottiglia d’acqua da due litri svuotata se avesse coscienza. Ora alle mie spalle ho quello che mi sta davanti, quello che mi attende: il vuoto. Non ho un futuro e non ho più neppure un passato. Quei quaderni contenevano la mia storia e ora non esistono più quindi la mia storia non esiste più.
Non ho provato niente distruggendo la mia storia. Il mio sguardo gelido e smorto osservava con indifferenza le fiamme voraci cibarsi della carta imbrattata d’inchiostro. Non ho provato niente e neppure quel dolore nel quale speravo di trovare rifugio dal pensiero di Margherita e da tutto quello che questo nome si trascina dietro. A proposito, mentre i quaderni bruciavano c’era Margherita con me. Mi stava accanto ed era delusa. Con il solo sguardo mi rimproverava di aver distrutto la mia storia. Lei che la sua storia la custodisce e la tramanda. Come una parabola. Come un poema. Io l’ho accolta e tramandata a Tom ed Elvis.
– Ma come, io ti ho raccontato la mia storia e tu distruggi la tua? Avresti potuto farmela leggere prima, – sembrava dire lo sguardo inquisitore di Margherita che mi stava accanto.
Non ho provato neppure a giustificarmi. Il danno ormai era fatto e non si poteva tornare indietro. Allora lei ha scosso la testa ed è scomparsa.
Così bruciare, distruggere non è servito a niente. Ho dovuto escogitare altro. Reagire in un altro modo ma non meno scomposto, come sempre.
Al culmine dell’esasperazione mi sono messo in macchina e ho solcato avanti e indietro la Nettunense in cerca della compagnia femminile giusta. Per punirmi e dimostrare a me stesso di non meritare Margherita e di non meritare neppure il suo ricordo.
Ho riaperto una delle pagine più nere della mia vita. La prostituzione è la mia maledizione. Vi ricorro sistematicamente da quando ho diciotto anni. Per necessità e non per scelta, sia chiaro, anche se la necessità non mi giustifica e io non voglio giustificarmi. Ho perduto la verginità nel modo più schifoso e mi pesa rievocare di nuovo quel momento ma devo farlo. Per punirmi, per umiliarmi. Ancora una volta. L’ennesima.
Era inverno. Il cielo era coperto. Un cielo d’acciaio. Grigio, duro, gelido. Avevo compiuto da poco diciotto anni. Non so per quale fottuto motivo ma quella mattina mi svegliai con l’idea fissa di dover avere entro la fine della giornata il mio primo rapporto sessuale. Ricorrendo al denaro. Come cazzo ho potuto non rendermi conto del delitto che stavo compiendo, verso me stesso e verso la povera donna che avrei pagato? Ancora oggi non so dare una risposta a questa domanda che ancora oggi mi perseguita.
A pochi metri da casa mia c’è una strada che taglia il bosco ed è un mercato a cielo aperto di carne umana. Decine di schiave, soprattutto nigeriane, svendono il loro corpo per pochi spiccioli. Uno scandalo. Uno scandalo di cui sono stato complice e più di una volta. Non solo la prima volta. Affittai la prima schiava nigeriana che mi capitò sott’occhio e c’intrufolammo nel bosco. Ebbi il mio primo rapporto sessuale tra rovi e sterpi e con il fango fino alle caviglie. Durò pochi minuti e furono i peggiori della mia vita. Tutto qui?, mi domandai dopo aver finito.
Della povera disgraziata ricordo ben poco. Ricordo che indossava un maglione di lana di colore rosso e che, quando se lo alzò, mi apparve sulla sua schiena d’ebano una lunga e frastagliata cicatrice che la attraversava da una parte all’altra di sbieco. Una frustata, forse. Lì per lì neppure me ne accorsi. I dettagli riaffiorarono dopo, parecchi giorni dopo. In quei momenti ero come incosciente. Agivo meccanicamente.
Una storia così vergognosa che a volte mi domando se sia accaduta davvero o sia solo il frutto della mia mente esasperata.
Ma è proprio così che ho avuto il mio primo rapporto sessuale, sotto quel cielo d’acciaio, grigio, duro e gelido come l’acciaio, nel bosco, tra rovi e sterpi e con il fango fino alle caviglie, perché era piovuto fino a un’ora prima e pioveva anche allora. Una pioggerellina sottile e inconsistente che neppure arrivava a terra ma svaporava a mezz’aria.
In quel giorno si è infranto il mio sogno d’amore. Da quel giorno il sesso è diventato per me una violenza. Una violenza a cui sono ricorso decine e decine di volte pur essendo perfettamente consapevole di commettere una violenza, a me stesso e alla povera donna che avrei pagato. Non l’ho mai voluto, non l’ho mai desiderato e non ne sono mai andato fiero ma non potevo fare altrimenti. Non potevo fermarmi. Sono stato costretto. Il mio maledetto destino di solitudine mi ha costretto ad approfittarmi della disperazione di decine e decine di povere donne impalate ai cigli delle strade o ingabbiate in appartamenti presi in affitto per poche settimane. Italiane, nigeriane, albanesi, romene, bulgare, venezuelane, colombiane, brasiliane, argentine, cinesi. Ho fatto mio mezzo mondo. Mezzo mondo mi grava sulla coscienza e la schiaccia.
Non ho mai cercato solo sesso. Ho sempre cercato altro oltre l’effimero e inutile appagamento carnale. Mi sono sempre sforzato di scavare nella violenza e trovare un affetto. Come Margherita. Non sono mai stato un cliente gelido, distaccato, indifferente. Ho sempre pagato più del compenso pattuito e delle mie povere donne ho sempre voluto conoscere la storia ed è inquietante che quasi tutte loro, nel novanta percento dei casi, avessero questo aspetto in comune: essere madri, essere finite sulla strada nell’ultimo, estremo, disperato tentativo di offrire ai loro figli un futuro migliore, di regalare ai loro figli una vita migliore di quella delle loro madri. Un paradiso non esiste e non può esistere ma se esistesse tutte loro finirebbero lì.
Ogni prostituta si trascina dietro una storia tragica, una storia che meriterebbe di essere conosciuta, diffusa, tramandata, come la storia di Margherita. Dalla mia colpa, da tanta violenza ho provato a tirare fuori del buono. Ho provato a essere la voce delle mie povere donne. Ho provato a farmi portavoce delle loro sofferenze. Ho lottato interi giorni e intere notti affinché tanto dolore non andasse del tutto sprecato e non si perdesse nel nulla della storia come se non ci fosse mai stato. A questo dolore ho provato a dare un senso ma ho fallito anche in questo.
È una tortura rigurgitare queste pagine. Sono il mio cilicio. Quante volte ho detto basta. Quante volte dopo aver pagato una povera disgraziata mi sono detto: questa è l’ultima. Non ho mai rispettato la mia parola. Quante volte ho creduto di aver toccato il fondo e invece poi ho dovuto accorgermi che non esiste nessun fondo. Poteva passare un periodo anche piuttosto lungo e io m’illudevo d’essere riuscito a rialzarmi ma ecco che ripiombavo nel fango. Una mano gigantesca mi afferrava e mi scaraventava di nuovo nel fango e ancora più in profondità, fin quasi a rischiare d’annegare. E così ero costretto a fare i conti per l’ennesima volta con i miei rimorsi, con i miei inutili lamenti. Con le mie lacrime di coccodrillo. Neppure una volta, neppure una ho provato piacere possedendo una donna disperata. Odio, nient’altro che odio verso me stesso e la mia fottuta debolezza.
– Hai la ragazza? – mi domandano sempre.
– No, se avessi la ragazza non sarei qui, – rispondo con un certo orgoglio.
– Mica è detto. La maggior parte dei clienti ha una compagna o una moglie e addirittura dei figli, – ribattono loro.
– Non sono quel genere di uomo, – mi difendo.
Loro allora mi guardano con sospetto e io comprendo subito che non mi credono. Non credono che io sia l’uomo che dico di essere. Forse non credono proprio alla possibilità dell’esistenza di un simile uomo.
Nella mia vita mi sono imbattuto in così tanto dolore. Da ragazzo non immaginavo che il mondo potesse contenerne tanto. Ho sempre voluto distinguermi da tutti per integrità morale e invece sono il peggiore di tutti. Ogni volta dopo una violenza promettevo a me stesso di redimermi e ogni volta ricadevo più in basso. Sono sempre stato solo. Mi hanno sempre abbandonato a me stesso. È questo il guaio. Anche in mezzo a una folla, anche insieme a Tom ed Elvis sono sempre stato solo e un uomo solo è sempre in cattiva compagnia. Solo in compagnia di Margherita non mi sono sentito solo. Eppure l’altra sera mi sono messo in macchina e ho solcato avanti e indietro la Nettunense proprio per uccidere Margherita e tutto quello che questo nome si trascina dietro. Ho trovato Florina, una ragazza romena di ventinove anni madre di due figli, mingherlina e bellissima. Ci siamo appartati in una stradina interna, buia e dimenticata e qui ho tentato di uccidere Margherita e tutto quello che questo nome si trascina dietro.
Per qualche istante ho creduto davvero di esserci riuscito, mentre riaccompagnavo Florina al suo lembo d’asfalto e lei mi raccontava la sua storia e io mi odiavo: bravo, complimenti, hai approfittato della disperazione di una giovane donna madre di due figli, proprio tu, che ti sei sempre ritenuto superiore a tutti. Poi però, mentre guidavo verso Nettuno e i rimorsi mi tormentavano, ma con meno intensità del solito e io tentavo di scoprirne la ragione, ho sentito una presenza familiare al mio fianco. Ho gettato uno sguardo alla mia destra e sul sedile del passeggero, lo stesso sedile dove pochi istanti prima avevo posseduto senza piacere Florina madre di due figli, ho visto lei, Margherita. Mi guardava e sorrideva, bonaria. Questa volta ha persino parlato.
– Io ti perdono, Fausto. Ti perdono perché sei debole come tutti noi e perché so che non lo farai più, – ha detto sorridendomi e poggiando la sua mano sulla mia, abbandonata sul cambio.
Allora ho capito. Allora ho capito che se voglio uccidere Margherita e tutto quello che questo nome si trascina dietro devo uccidere me stesso. Fin quando striscerò per questo povero mondo e le sue strade puntellate di dolore e di disperazione lei sarà con me e non potrò farci niente.

L'escluso , ,

Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

Precedente L'escluso - meno 7 Successivo L'escluso - meno 5