L’escluso – meno 14

Sono un uomo finito. Ho compiuto da poco trent’anni ma sono un uomo già finito. Del resto l’età non conta. Conta ciò che si ha e io non ho niente. Non ho un lavoro, non ho una donna, non ho più lo straccio di un sogno e neppure una vaga speranza. Non sono più capace d’illudermi né di desiderare. Faccio fatica persino a ricordare. Da qualche mese ho perso pure il sonno e il sonno era l’ultima consolazione che mi restava. Me l’aspettavo, sapevo che prima o poi sarebbe successo, ma all’insonnia non si è mai preparati. È sempre un trauma.
Quello che riflette lo specchio è tutto quello che mi resta: un corpo piccolo, smunto, dimagrato. Da mussulmano. Mi osservo e non è un bello spettacolo. Non lo è mai stato e ora meno che mai. Le guance si fanno sempre più scavate. Gli occhi sempre più infossati e sotto le occhiaie sempre più profonde e nere. Sembrano tatuate. Sulla fronte ampia, troppo ampia troppo presto, è ancora ben visibile il segno lasciato dalla bottigliata. Il bernoccolo non si è ancora assorbito del tutto, ma almeno non fa più male. Lo tocco e non sento niente.
Mi spoglio. Le costole si fanno sempre più evidenti, come bassorilievi. Posso afferrarle una a una. Sembra che vogliano strappare il sottile strato di pelle che le ricopre ed erompere fuori. Penso alla ferita inferta a Cristo crocifisso. Alla punta acuminata della lancia che squarcia la carne impolverata e abbrustolita dal sole cocente di Gerusalemme. Io sul costato non ho ferite ma grossi lividi bluastri e violacei che faticano a scomparire quasi si fossero affezionati, effetto dei calci dopo la bottigliata che mi ha steso a terra. Spalanco le braccia come Cristo crocifisso. Salgo sulla bilancia. La lancetta schizza di qua e di là, traballa e infine si arresta sul numero cinquanta. Cinquanta chili spaccati: non sono mai stato così leggero da quando ho completato lo sviluppo. Eppure mangio tre volte al giorno, colazione, pranzo e cena, ma il mio corpo sembra non assimilare più nulla. Mangio ed è come se non mangiassi. Mi sto dissolvendo, giorno dopo giorno.
Ecco dunque tutto quello che mi resta: un sacco di carne, ossa e sangue da cinquanta chili. Non ho altro. Anche nella testa ormai è il deserto. Quelle tre o quattro idee più o meno originali che avevo concepito sono morte e non resta più niente. Una terra desolata e improduttiva.
Rinchiuso tra le quattro pareti della mia camera, pareti scrostate e annerite dalla muffa che ne ha divorato la tinta celeste, getto uno sguardo fuori.
Lo scirocco strappa. Strappa le nuvole dopo averle ammucchiate riducendole a brandelli come vecchi stracci. Strappa le chiome arruffate degli ulivi e i fiori precoci degli albicocchi spargendoli ovunque come neve. Strappa gli echi, i latrati dei cani, i canti degli uccelli e i loro voli incerti. Strappa il bucato steso al sole opaco, malato, anemico. Strappa le lenzuola che sbattono e schioccano e s’attorcigliano ai fili sospesi, invisibili. Strappa il profumo dell’ammorbidente concentrato sparso nell’aria strappata. Strappa le antenne dai tetti storti, le banderuole su di giri, le lamiere arrugginite delle baracche e dei pollai. Strappa i muri, li scrosta, li scortica rabbioso, strappa l’edera ad essi avvinghiata, strappa, strappa, strappa. Strappa la terra, la prosciuga ancora e di più come se non fosse già abbastanza riarsa, assetata, raggrinzita. La scartavetra in profondità, uno strato dopo l’altro frantumato in polvere, fino a riportarne in superficie il fuoco. Strappa il mare che si dimena e sbraita furioso bestemmiando spuma e sale. Strappa le poche palme sopravvissute alla piaga del punteruolo rosso venuto chissà da dove. Effetti collaterali della globalizzazione. Strappa lo scirocco. Mi strappa. Come un pezzo di carta. Strappa i sogni, le speranze, le illusioni, i desideri, i ricordi. È un incubo.
La vita è un incubo quando i giorni della settimana, i mesi e gli anni sono tutti uguali e non c’è niente di nuovo oltre a una ruga e a un capello bianco. Quando non c’è differenza tra il giorno e la notte, tra la vita e la morte.
L’insonnia mi ha sorpreso come un agguato. Scoccata la mezzanotte indosso il pigiama e m’infilo sotto le coperte, ignaro. Gli occhi restano spalancati, come se mi avessero reciso le palpebre con un colpo netto e improvviso, senza lasciarmi neppure il tempo di provare dolore. Cambiare posizione non serve a niente. Decine di tentativi andati a vuoto. L’una, le due, le tre. Niente. Alle quattro scendo dal letto, accendo la lampada sulla scrivania e mi accomodo in poltrona. Attendo ancora un’ora, immobile, fissando il vuoto, incapace di pensare. Attonita la mente sputa di tanto in tanto monosillabi e nulla più. Alle cinque decido di rivestirmi, afferrare un libro e leggere, come se niente fosse. Va avanti da mesi.
Esisti solo tu. Mentre tutto tace e fuori dominano le tenebre alleate di predatori notturni e tu non puoi dormire esisti solo tu. Il peso della tua squallida esistenza te lo senti addosso e ti schiaccia. Te lo senti addosso e in ogni singola fibra del tuo corpo sfibrato. Non puoi farci niente. Puoi solo rassegnarti e fare finta che il sonno non esista. Oppure che si tratti di un lusso che costa troppo e che non puoi permetterti. Come la casa al mare, la vacanza alle Maldive, la macchina da trecento cavalli o un’escort di classe.
La notte ti succhia le energie e quando arriva l’alba sei distrutto manco fossi reduce da dieci ore di lavoro sui campi a raccogliere i pomodori sotto il sole spietato di luglio. Rassegnazione o no non fa differenza. La tua camera è diventata una cella e anche se la porta è spalancata e alle finestre non ci sono sbarre non puoi evadere. Al pavimento della tua camera ci sei incollato, ti sei fuso con esso, hai messo le radici. Radici profonde, che arrivano fino al centro della terra e dure come il ferro. Radici, catene. Indistruttibili. Sei intrappolato. L’insonnia è una trappola. Se ci caschi sei fottuto. Come Trevor Reznik o come Travis Bickle. Chissà, se fossi nato negli Stati Uniti sarei diventato anch’io un Travis Bickle o forse pure peggio di un Travis Bickle. Mi sarei ingozzato di cibo spazzatura sin dalla nascita. Avrei messo incinta una ragazzina di quindici anni poi mi sarei arruolato nell’esercito e sarei partito per l’Iraq. In Iraq una ragazzina di quindici anni incinta l’avrei ammazzata. Lui e il bambino e senza provare rimorso. O noi o loro perché loro non sono come noi, sono tutti terroristi e possono nascondere una cintura d’esplosivo anche sotto una pancia gonfia di un’altra vita. Tornato dall’Iraq avrei votato Trump. Poi avrei tentato d’ammazzarlo, deluso, tra le altre cose, dalla mancata costruzione del muro lungo il confine con il Messico. Avrei tentato ma non ci sarei riuscito e allora avrei ripiegato su una scuola. Avrei fatto strage di teenagers obesi e complessati tanto quanto me, futuri me. Quindi Trump, che avevo votato e che poi deluso avevo tentato di ammazzare ma senza riuscirci, avrebbe dichiarato che se i professori fossero stati armati non sarebbe accaduto nulla. Il sogno americano. Yes we can. Yes I could.
Mi tornano in mente le parole di un mio vecchio compagno d’università. Un tipo inquietante dalla faccia dura di fustagno.
– Cazzo, un film deve farmi arrapare, come Taxi Driver, – disse un giorno sogghignando, davvero arrapato, la saliva rappresa agli angoli della bocca.
Non ricordo il suo nome e forse non l’ho neppure mai saputo, ma ricordo che aveva uno sguardo esaltato e allucinato alla Bickle. La sua presenza mi metteva a disagio. Chissà che fine ha fatto. Chissà cos’è diventato. Non viveva a Nettuno ma ci veniva ogni fine settimana. Un paio di volte l’ho visto sbronzarsi da solo il sabato sera in qualche locale del borgo. Era un alcolizzato vero, di razza, nonostante la giovane età. Si vedeva e poi ho una certa esperienza avendo un padre che nelle vene ormai ha più alcol che sangue. La mattina si presentava all’università cogli occhi annacquati d’alcol, le pupille fluttuanti come piccoli pesci palla in due piccoli acquari pieni d’alcol. Aveva qualcosa di selvaggio, di primitivo nello sguardo e nella persona. Lo avrei visto meglio su un campo a zappare con foga la terra che seduto su un banco a prendere appunti. Un giorno gliel’ho detto e lui mi ha risposto che noi umanisti prima o poi faremo tutti quella fine.
A me il cinema non mi ha mai arrapato. Io che dall’adolescenza mi cibo di libri col cinema ho sempre avuto un rapporto strano, piuttosto freddo e distaccato. Lo trovo troppo facile e guardo un film quando sono troppo stanco per leggere e per pensare. Ieri sera per esempio ero troppo stanco per leggere e per pensare e così ho rivisto per la trentesima volta Taxi Driver. E per la trentesima volta quel fottuto lieto fine mi è andato di traverso e ha rovinato tutto. Speravo che nel tempo intercorso tra la ventinovesima e la trentesima volta qualcuno avesse convinto Scorsese a cambiarlo ma niente. Quel fottuto lieto fine fa male più di tutto il resto. Travis che si permette persino il lusso di respingere Betsy. Ma per favore, ma chi ci crede. Anche se non è tanto una questione di verosimiglianza quanto di coerenza. Sceneggiatore e regista non sono stati coerenti fino in fondo, alla fine si sono rivelati degli ipocriti facendo di Travis addirittura un eroe. Il film è perfetto fino al momento in cui dopo la strage Travis rivolge la pistola contro se stesso e spara ma i proiettili sono finiti. Poi inizia la buffonata conclusiva. Ma è normale, in pochi sanno essere neri fino in fondo. La maggior parte alla fine scivola nel grigio e io il grigio non l’ho mai sopportato. Come neppure il mezzo o il tiepido. O bianco o nero, o tutto o niente, o freddo o caldo. È anche per questo motivo, soprattutto per questo motivo, che a trent’anni sono un uomo già finito. Non sono stato capace di essere all’altezza delle mie ambizioni? Va bene, ma preferisco fare la fame piuttosto che diventare schiavo di una multinazionale.
Scende la sera e lo scirocco se ne va, finalmente. Appollaiata sulla cima di un vecchio palo del telefono una civetta recita il suo canto funebre che si spande nella luce tenue del crepuscolo. Colonne di fumo grigio s’alzano dai comignoli dei camini accesi. Perché nonostante lo scirocco e gli alberi già in fiore è ancora inverno. È ancora inverno nonostante la terra sia dura come il cemento e abbiano iniziato ad annaffiare il grano. Con il grano già si guadagna poco, se poi devi pure annaffiarlo è triste davvero. Chissà quando tornerà la pioggia. Chissà se tornerà.
Scende la sera e lo scirocco se ne va, finalmente. Posso uscire fuori a fumare una sigaretta. Finalmente. La civetta canta e l’odore dei camini accesi punge le narici. Uno degli odori che amo di più. Tutto è immobile ora ma fuori di posto, disordinato. Qua e là giacciono pezzi di lamiera arrugginiti. L’erba dei campi piegata tutta da un lato come se una mano gigantesca l’avesse accarezzata. Nel cielo ogni secondo più nero e vuoto s’affacciano le prime stelle. Sorge discreta e timida la luna. Qualcuno in questo preciso istante sta morendo. Ora, proprio ora sta esalando l’ultimo respiro. Chissà quanti uomini sono morti da quando abbiamo messo piede su questa povera terra sfinita e dimagrata. Miliardi e miliardi. Non basterebbero forse venti terre a contenerli tutte. E ora dove sono? Che fine hanno fatto? Ingoiati dal nulla non sono più niente. Non importa cosa abbiano o non abbiano fatto, se siano stati utili o inutili, buoni o cattivi, simpatici o antipatici, belli o brutti, bianchi o neri. Sono spariti tutti, indistintamente. Di alcuni ricordiamo ancora oggi i nomi, certo, ma la sostanza non cambia. Quale conclusione se ne deve trarre? Io ho rinunciato a trarre conclusioni da ciò che vedo, sento, leggo e penso perché tanto non serve a niente e le cose non cambiano. Continuiamo a farci del male come se nulla fosse e come se ci piacesse. Be’, dico solo che a me non piace. A me piacerebbe sdraiarmi sul letto, chiudere gli occhi e dormire, dormire, dormire. Dormire per un giorno intero, per due giorni, per tre giorni, senza bere e senza mangiare. Dormire per sempre.
Il sonno era l’ultima consolazione che mi restava e non ho più neppure questa. Già prima dell’insonnia la mia vita era sciocca. Ora lo è diventata ancora di più e a volte ho il sospetto di essere già morto, di non essere più un uomo ma uno spettro, che si barcamena ancora per qualche tempo sulla terra prima di dissolversi del tutto nel nulla. E se a casa non c’è nessuno o se per la strada non incontro nessuno che possa dimostrarmi il contrario, allora il sospetto diviene certezza e le mie labbra esangui s’increspano fino a formare qualcosa di molto simile a un sorriso. Immagino.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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