L’escluso – meno 11

A volte la tentazione di sparire è così forte che già mi vedo morto, ma morto davvero e non mezzo morto come adesso. Vedo il mio cadavere penzolare a una trave della veranda, oscillare come un pendolo di carne accarezzato dallo scirocco. Ma vedo anche mia madre che rientra a casa dopo essere andata a fare la spesa e scoprire il mio corpo senza vita. La vedo spalancare gli occhi, sorpresa, stordita e inorridita, lasciar cadere a terra le buste e sbiancare di colpo, farsi cadaverica, ancor più cadaverica di me già cadavere. Ma soprattutto la sento gridare e il suo è un grido terribile, disumano, che sfascia i timpani e mette in fuga gli uccelli spaventati. Il suo volto sfigurato, massacrato dall’urlo mi sta davanti agli occhi e il suo urlo mi rimbomba nelle orecchie fino a sfondarle. Solo Cristo deve aver gridato in quello stesso modo disumano, sulla croce, accusando il suo Dio d’averlo abbandonato. Vedo, sento e provo una gran pena per quella povera disgraziata di mia madre e la tentazione di sparire si dilegua lasciando spazio al dispiacere. Il dispiacere di dover sopravvivere a tutti i costi.
So che non dovrei lamentarmi perché c’è sempre qualcuno che sta peggio di te, che si trova in mezzo a una strada in questo preciso istante e non ha neppure una casa dove rintanarsi e piangere in santa pace, lontano da occhi indiscreti. Lo so e infatti non mi lamento, ma è dura anche per me. Ogni giorno più dura. Avessi almeno il sonno. Ora sono sempre stanco. Sempre. Muovo pochi passi e già mi fanno male le gambe. Ma continuo a trascinarmi la notte. La forza della disperazione finisce sempre per mettermi in moto. Procedo piano come un vecchio catorcio arrugginito che sembra poterti abbandonare da un momento all’altro. La disperazione è il mio carburante. Tra l’altro la notte leggo sempre meno. Ormai me ne mancano pochissimi di quei libri fondamentali che meritano davvero di essere letti, si contano sulle dita di una mano, ma non si tratta di questo. Il fatto è che non ci sto con la testa. Le righe si accavallano, si confondono e perdo il senso del passo che stavo leggendo. Provo a tornare indietro ed è pure peggio. Una patina, come una nebbia, copre le righe, le nasconde ai miei occhi e al mio cervello. Allora devo smettere, devo abbandonare il libro. Spengo tutto e mi butto sul letto, bocconi, fissando per ore e ore un punto imprecisato nel buio.
Mi sento morire ma senza morire. O meglio morendo troppo lentamente, secondo le leggi di natura. Talvolta mi sorprendo a pregare il caso che ponga fine in fretta a questa agonia. Una tegola, un ramo spesso, una macchina. Quando avviene mi rimprovero e mi do del vigliacco.
Dell’insonnia non ho parlato a nessuno, neppure ai miei genitori. Neppure agli unici due amici che mi sono rimasti e che vedo non più di una volta a settimana. Ci beviamo una birra nel solito locale di Nettuno in via Carlo Cattaneo, chiacchieriamo, facciamo una partita a briscola. Tom fa l’operaio in una fabbrica a Pomezia, Elvis sta per diventare medico. Tom è il tipico uomo della strada e ogni volta che ci vediamo mi rompe le palle perché non ho trovato ancora un lavoro.
– Vai a fare il barista, o il cameriere. Basta che ti dai una mossa, così ti stai buttando via, – mi dice spintonandomi. Lo fa con affetto, lo dice perché ci tiene a me, perché mi vuole bene.
Elvis invece è diverso, capisce perché me ne sto così, immobile, e al massimo mi consiglia di fare le analisi perché i miei occhi gialli e spruzzati di sangue non gli piacciono. Un giorno gli parlerò della mia insonnia.
L’ultima volta che ci siamo visti Tom, chissà perché, ha sentito il bisogno di spronarmi più del solito, con più vigore e convinzione del solito. Al termine della partita a briscola mi ha fatto un vero e proprio discorso. Io lo ascoltavo e sorridevo e sorrideva pure Elvis che su queste cose la pensa come me.
– Ti servirebbe come il pane una donna. Se avessi una donna la smetteresti di crearti problemi che non esistono, ma è proprio questo tuo atteggiamento remissivo, arreso che ti impedisce di conoscere una donna. Ti stai buttando via e devi darti una mossa. Hai trent’anni e non sei più un ragazzino. Le lauree non ti servono a niente? Va bene, accettalo e vai avanti, volta pagina e vai avanti. Rimboccati le maniche e vai a fare il barista o il cameriere, ma fai qualcosa, qualunque cosa. Se continui così, se perseveri in questo stato d’inerzia va a finire che ti ritrovi morto senza aver vissuto. Devi darti una svegliata, devi rimboccarti le maniche, come hanno sempre fatto i tuoi genitori, e darti da fare, lavorare, conoscere gente nuova. Così la smetterai finalmente di farti quelle tue fottute pippe mentali che ti stanno rovinando, che ti stanno mangiando come tarli. Hai scoperto che la vita fa schifo e va bene, ma cosa dovremmo fare? Dovremmo smettere di vivere e ammazzarci tutti? Ti dico una cosa: se avessi la possibilità di rinascere, di rivivere la mia vita per filo e per segno, con tutti i dolori e tutte le delusioni, be’, io rinascerei. Cosa ti manca? Hai la salute, hai l’intelligenza, hai genitori che non ti hanno mai fatto mancare nulla, che si sono fatti in quattro per te, si sono sacrificati e hanno lavorato come muli per permetterti di studiare quello che tu volevi studiare. Pensa a tutti gli uomini che non sono fortunati come te, che si trovano in mezzo a una strada e non sanno come arrivare a fine mese o sono malati e costretti in un letto d’ospedale.
– A me dell’umanità non me ne frega un cazzo, – ho risposto a Tom irritato dalle sue allusioni ai sacrifici dei miei genitori.
– Non è vero che non te ne frega un cazzo, non è vero. Tenti di convincertene ma non è vero. Tu non sei questo, tu sei il ragazzo che a diciott’anni mordeva la vita come se non ci fosse un domani, come se dovesse morire un’ora dopo, – ha replicato Tom, con fervore, accalorandosi.
– Quel ragazzo è morto e sepolto, – gli ho detto a denti stretti, ancora più irritato.
Io a Tom voglio bene, lo conosco da quindici anni e lo rispetto, rispetto la sua storia e le sue idee. Ha conosciuto presto il dolore, perdendo il padre ch’era ancora un bambino, ma io e lui apparteniamo a due mondi diversi che non s’incontreranno mai.
– Dimmi che non ti piacerebbe trovare una donna, forza, dimmelo, – torna a incalzarmi Tom che ci si era messo proprio di tigna quella sera e iniziavo a capire anche il perché, forse: il mio aspetto fisico, la mia magrezza sempre più accentuata doveva averlo spaventato, anche se non me l’avrebbe mai detto.
– Certo che mi piacerebbe, – rispondo puntando i gomiti sul tavolo, deciso a far valere le mie ragioni. – Mi piacerebbe eccome, Tom, ma partiamo dall’elemento più banale, l’aspetto fisico. Sono alto un metro e mezzo, sono secco come un chiodo e non ho più un capello in testa. Con la mia triste figura come posso trovare una donna decente? Poniamo pure che io riesca a trovarla, nonostante il mio aspetto, poniamo che avvenga un miracolo. Oltre alla semplice ed effimera soddisfazione sessuale troverei altro? No. Perché non voglio formare una famiglia, non voglio sposarmi, non voglio figli, non voglio rinunciare alla mia libertà, ai miei spazi. Non voglio rendere conto a nessun altro oltre me. Non voglio deludere nessun altro oltre me ed è già fastidioso deludere sistematicamente i miei genitori.
– Le tue sono solo chiacchiere, chiacchiere che andrebbero in fumo in un attimo se trovassi una donna. Diglielo anche tu, Elvis.
– Sai bene che su questo argomento la penso come Fausto, – risponde Elvis dandomi ragione e deludendo Tom nel profondo.
– Cazzo, io non vi capisco. Ci provo, giuro, ma non vi capisco. Se non campate per formare una famiglia e mettere al mondo nuove vite secondo il più elementare e primario istinto umano, la conservazione della specie, che campate a fare?
Elvis si limita a fare spallucce e si alza per andare al cesso. Tom lo segue con lo sguardo scuotendo la testa. Io vorrei citare Nietzsche ma Tom mi ferma.
– Basta con la tua filosofia, – mi implora agitando una mano in aria. – Io parlo della vita vera e non di filosofia, – aggiunge schermendosi, rabbuiandosi.
– Senti, Tom, io apprezzo che ti preoccupi per me, davvero, ma non sto così male come può sembrare. È solo un momento un po’ così, passerà, – lo rassicuro, sforzandomi di sorridere.
– Io certe cose te le dico solo per il tuo bene, – dice Tom rabbonito dalle mie parole, forse persino tranquillizzato.
– Lo so e lo apprezzo.
Torna Elvis e cambiamo discorso. Elvis è albanese. È nato a Tirana. I genitori si sono trasferiti in Italia quando aveva un paio d’anni. È davvero fenomenale e lo invidio. Ha una forza di volontà straordinaria, allo studio ha sempre affiancato il lavoro, da quando era un ragazzino. Va a lezione, sostiene gli esami, corre qua e là a dare ripetizioni di tutte le materie e la sera fa il bartender in un locale di Anzio. Da bambino ha sconfitto la meningite e ora soffre di narcolessia, che si è diagnosticato praticamente da solo. Le pasticche che prende, quasi delle anfetamine, lo rendono nervoso, suscettibile, talvolta persino paranoico e quando è in cura devi prenderlo con le pinze e maneggiarlo con attenzione. Elvis è davvero forte e potrebbe essere un grande scienziato, ma è il primo a nutrire sospetti verso quella scienza che ha abbracciato.
Tornato dal cesso Elvis ha iniziato a parlarci di una serie tv che aveva visto in quei giorni su Netflix, la storia di Theodore Kaczynski, ribattezzato Unabomber, legandoci poi Il mondo nuovo di Huxley e vari progetti scientifici sul genoma umano. Non saprei riportare il suo discorso perché non ne ho le competenze, ma la conclusione più o meno era questa: siamo in pericolo, rischiamo sul serio di ritrovarci tra qualche anno nel mondo immaginato da Huxley.
Elvis sa essere persuasivo e convincente quando vuole, e dopo aver terminato il suo discorso ho avuto davvero la sensazione che non tra qualche anno, ma già ora ci trovavamo in quel mondo immaginato da Huxley con gli uomini creati in provetta a seconda delle caste.
– Io non capisco, ci penso e ci ripenso, giorno e notte, ma proprio non capisco, – dico come pensando a voce alta e Tom ed Elvis mi guardano incuriositi. – Non capisco come possiamo farci fottere così facilmente, senza dire neppure a, senza muovere neppure un dito. Potremmo stare così bene senza tutte queste sovrastrutture che ci impongono e ci soffocano, ci schiacciano, senza governi, senza multinazionali capitanate da uomini spietati che ci riducono in schiavitù arricchendosi senza ritegno. In fondo abbiamo bisogno di poco, ma lasciamo che il superfluo ci venga imposto come necessario. A che serve prendere la macchina se possiamo spostarci a piedi o in bicicletta? A che serve ingozzarci di robaccia quattro volte al giorno? A che serve quell’affare? – e indico il telefono che aveva tirato fuori Tom in quel momento.
– È utile, – mi risponde Tom con un’ingenuità disarmante.
– Sì, utile, non necessario come ti fanno credere, – puntualizzo. – Sembra proprio che senza un telefono non si possa sopravvivere e noi ci caschiamo con tutte le scarpe, felici di cascarci, col sorriso stampato sulla faccia. Basterebbe eliminare tutto questo superfluo che ci impongono come necessario. Siamo tutti come storditi, frastornati, rincoglioniti insomma, incapaci di concepire un’idea originale, che sia davvero nostra, che sia davvero frutto della nostra testa. Parliamo, parliamo, parliamo senza posa, ma senza dire nulla. Ci siamo allontanati dalla nostra essenza, abbiamo svenduto quel poco di buono che avevamo in cambio di un benessere solamente apparente. Perché basta parlare dieci minuti con una persona per capire che in realtà non sta affatto bene, che sotto la cenere cova un rancore potente e spaventoso. Siamo tutti dei poveri disgraziati, tutti, nessuno escluso, e quando lo capiremo sarà troppo tardi. Da noi hanno eliminato il problema della fame perché hanno imparato dalla Storia che la fame è la prima ragione del malcontento e della rivolta. Ci ingozzano così noi ce ne stiamo buoni. Quanto mi piacerebbe veder bruciare tutto, cose e persone, indistintamente, godermi per un po’ lo spettacolo e poi bruciare anch’io.
– Un giorno anche questo mondo andrà a puttane e ne nascerà uno nuovo, migliore, forse, – interviene Elvis suggellando la mia tirata.
Tom ci guardava senza dire niente. La sua coscienza critica ha dei limiti ben definiti e non si spinge mai al di là di moduli prestabiliti, prefabbricati, un po’ come le frasi italiane di Yasir. Se ti spingi oltre questi moduli allora non dice più nulla. Ti ascolta ma in silenzio, ponendosi forse tra sé delle domande e cui non darà mai risposte.
– E poi siamo già arrivati a trent’anni, non ci resta ancora molto da vivere, dai, – aggiunge Elvis tra il serio e il faceto, con un ghigno mezzo ironico e mezzo malvagio, battendomi una mano sulla spalla.
– Vero, mai il problema è quando a trent’anni te ne senti novanta, – dico sorridendo.
– Ti senti davvero novant’anni? – mi domanda Tom.
– Anno più anno meno, – rispondo accendendomi la sigaretta preparata già da parecchi minuti.
– Fammi capire. Non hai mai lavorato in vita tua e ti senti già così vecchio? – domanda Tom e qualcosa dentro mi ha fatto male ascoltando quelle parole, ma male davvero, non solo metaforicamente ma fisicamente.
– Il lavoro non c’entra un cazzo. Porca puttana Tom, non esiste solo il lavoro, e te lo dice uno che lavora da quando ha quattordici anni. Tenta di andare oltre ogni tanto, cazzo, sei abbastanza intelligente per farlo, – mi difende Elvis, alterandosi sul serio.
Tom ha ragione ma è stato ingiusto con me. Non è vero che non ho mai lavorato. Per un anno ho fatto il cameriere e a casa sono io a prendermi cura del giardino. Taglio l’erba, poto la siepe, annaffio le piante. Per tre anni di seguito ho fatto l’orto e l’inverno sistemo dieci quintali di legna a settimana. Quando mamma va a lavoro faccio tutto io: stendo i panni, li ritiro, li piego, cucino e lavo i piatti, lavo anche il pavimento se necessario. Ho scritto centinaia di articoli, un articolo per ogni libro letto, e una decina di libri che, d’accordo, non sono stati accettati da nessuna casa editrice, ma io li ho scritti, passando interi giorni e intere notti chino sulla scrivania stritolando la penna fino a farmi male. Ho due lauree e alla Sapienza le lauree mica te le regalano. Ho scritto due tesi e ho dovuto studiare decine e decine di volumi. Leggere, sottolineare, riassumere, ripetere a voce alta. Ma Tom ha ragione, è così che funziona: se nessuno ti paga non è lavoro. Potrei fare il barista o il cameriere come dice sempre lui ed è sicuramente questo che mi ritroverò a fare per tutta la vita, d’accordo, ma ora mi manca proprio l’energia necessaria per poter iniziare a lavorare con uno stipendio. Come posso lavorare se non ho più il sonno? Dopo mesi e mesi senza sonno è tutto più difficile e spero per voi che non lo dobbiate provare mai. Se riuscissi a dormire una o due ore a notte sarebbe già qualcosa, ma così è proprio difficile, credetemi. Vado a due allora e sono sempre stanco. Come posso iniziare a lavorare sul serio? E quale ristoratore mi assumerebbe dopo avermi guardato in faccia? Ho una faccia distrutta e non solo lo vedo ma lo sento. A volte provo a ravvivarla strofinandomela con forza con entrambe le mani ma non serve a niente. Resta sempre la stessa, la faccia della disperazione.
– Non sono contento di questa situazione, Tom. Non sono contento di essere diventato un parassita. Ogni cosa che mangio a casa mi sembra di non meritarla, mi sembra di rubarla ai miei genitori, – dico con l’ultimo filo di voce che mi è rimasto, guardando a terra, vergognandomi.
I miei genitori… Cavolo, io non ho chiesto loro di nascere e non li perdonerò mai di avermi messo al mondo senza domandarsi se lo volessi oppure no. Io non volevo nascere!
Mi avvicino alla finestra, la spalanco e grido alla campagna, con tutto il fiato che ho in corpo: – Io non volevo nascere!
Ogni genitore è in debito con il proprio figlio. Io non mi prenderò mai una responsabilità di questo tipo.
Dopo le mie ultime parole è calato sul nostro tavolo un silenzio tombale. Un silenzio che nessuno di noi poteva spezzare. Era giunta l’ora di tornare a casa. Paghiamo la birra e ce ne andiamo.
– Non ti buttare via, – mi dice Tom prima di salire in macchina e svanire nella notte, abbracciandomi. – Vedrai, troverai un buon lavoro, una donna e cambierà tutto, – mi rassicura in tono paterno. Mi limito a sorridere.
– Non prendertela, certe cose Tom non le può capire, – mi dice Elvis dopo che Tom se n’è andato.
– No che non me la prendo, perché dovrei farlo? Lui può dirmi tutto ciò che vuole e non mi offendo. Secondo la sua logica elementare è tutto giusto e non è affatto sicuro che sia lui ad avere torto e noi ad avere ragione, – rispondo calciando lontano un sassolino.
– È tutto così semplice per lui. A volte lo invidio, – sospira Elvis.
– Anch’io.
– Fausto, voglio confessarti una cosa. Sto pensando di andarmene da qui per un po’, per qualche mese. È un periodaccio anche per me. A casa litigo spesso con i miei e queste cazzo di pasticche non mi aiutano, mi rendono suscettibile, nervoso, a volte addirittura paranoico.
– Dove vorresti andare?
– Stavo pensando al Marocco.
– E l’università? Ti manca poco ormai, sarebbe un peccato.
– Devo capire un po’ di cose. Sì, a trent’anni devo cambiare aria e capire un po’ di cose. Come posso diventare medico se sono il primo a mettere in dubbio questa medicina? È tutto sbagliato, Fausto.
– Lo so e ti capisco. Ma prima diventa medico e poi si vedrà. Concludi questo percorso e poi cambia aria.
– Forse hai ragione.
– Hai fatto tanti sacrifici per studiare medicina e mi dispiacerebbe se tu mandassi tutto a puttane a un passo dal traguardo. Sarebbe un’ingiustizia. Lo devi a te stesso, innanzitutto a te stesso.
– Forse hai ragione. Ora vado, che domani devo prendere il treno delle sette e mezza. Tu fatti le analisi, non mi piacciono i tuoi occhi, così gialli.
Prima di andarsene anche Elvis mi ha abbracciato. Ho pensato di fare due passi ma ero troppo stanco. Tom con le sue chiacchiere mi aveva svuotato. Così sono tornato a casa e mi sono buttato bocconi sul letto senza neppure cambiarmi. Immerso nell’oscurità fissavo un punto nel buio e non pensavo a niente. Sentivo solo tutto il peso della mia squallida esistenza, che mi schiacciava come un masso ma senza uccidermi, purtroppo.
Io non ho mai chiesto a nessuno di nascere e se ci fosse la possibilità di rinascere neanche sprecherei fiato, mi limiterei a fare di no con la testa lasciandomi andare nel nulla.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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