In provincia – Vecchi amici

Mentre tornava a casa dal lavoro, a Bruno sembrò di intravedere Gigi in piazza, proprio davanti alla fontana, circondato da un nugolo di persone. Ma non ne era sicuro. E del resto come poteva esserlo? Non si vedevano da dieci anni.
“Certo che se non era lui, era uno che gli assomigliava parecchio”, si disse parcheggiando la macchina sotto al palazzo in cui abitava.
A cena ne aveva parlato alla moglie, e le aveva chiesto un parere.
«E io che ne so», gli aveva risposto la donna con schiettezza, alzando le spalle robuste.
Il giorno seguente venne fugato ogni dubbio. Gigi in persona si presentò all’agenzia di assicurazioni dove lavorava Bruno, di fronte al Forte Sangallo. Indossava dei pantaloncini di un rosso sgargiante e una camicia di lino bianca. Ai piedi portava delle infradito e in testa addirittura un cappello di paglia. Bruno invece era come sempre ingessato nel suo vestito grigio.
«Ma allora ieri in piazza eri veramente te!», esclamò Bruno scattando dalla sedia e abbracciando con entusiasmo il vecchio amico.
«Eh già…», rispose Gigi.
«Quando sei arrivato?», gli domandò Bruno staccandosi.
«Ieri mattina. Ho chiesto in giro che fine avevi fatto ed eccomi qua», spiegò Gigi.
«Io che fine ho fatto? Tu piuttosto… Sono dieci anni che non ti fai vedere…».
«Lo sai, s’era messa male…», sussurrò Gigi accendendosi una sigaretta.
Dieci anni prima Gigi era scappato in Thailandia perché doveva parecchi soldi a un pezzo grosso, in seguito a un investimento sbagliato. Ma ora quel pezzo grosso era morto e lui era potuto tornare nella sua Nettuno, dove era nato e cresciuto.
Bruno, uno dei suoi più cari amici d’infanzia, lo invitò a cena a casa, ma Gigi declinò l’invito, spiegando che aveva già un appuntamento.
«Facciamo così. M’hanno detto che a via Carlo Cattaneo hanno aperto un locale molto carino. Vediamoci lì dopo cena, per le undici, ok?», propose in alternativa Gigi.
Dopo un attimo di esitazione, Bruno assentì.
Quando, tornato a casa, l’assicuratore informò la moglie che dopo cena sarebbe uscito con Gigi – sì, era proprio lui -, la donna storse la bocca. Era la prima volta che in otto anni di matrimonio succedeva una cosa del genere. La moglie assunse un’aria offesa che, Bruno lo sapeva, avrebbe mantenuto per un’intera settimana.
Mentre in macchina si dirigeva verso il locale, Bruno provava sensazioni contrastanti. Da una parte era felice di trascorrere del tempo con l’amico ritrovato, dall’altra si sentiva in colpa per aver lasciato la moglie da sola a casa. Quest’interiore atmosfera conflittuale lo accompagnò fino a quando varcò la soglia del locale di via Carlo Cattaneo. Gigi era già lì, e se la rideva al bancone col proprietario, un giovane di una trentina d’anni.
«Buonasera», disse bruno dando una pacca sulla spalla all’amico.
«Oh, ecco Brunetto!», esclamò Gigi.
I due si accomodarono a un tavolo nel cortiletto interno del locale, sotto a una vecchia vite rigogliosa. Era un martedì d’inizio luglio, e non c’era molta gente.
«Allora, che vi porto?», domandò il proprietario del locale ai due nuovi clienti.
«Per me un mojito. Un bel mojito fresco», rispose prontamente Gigi.
Bruno, che non era più avvezzo agli alcolici, chiese se avessero qualcosa di analcolico.
«Cedrata, gazzosa, chinotto, aranciata», elencò d’un fiato il giovane.
«Una cedrata, grazie», decise Bruno.
«Ma quale cedrata! Porta un mojito pure a lui», s’intromise Gigi.
Bruno provò a opporsi, ma senza successo, e qualche minuto dopo il proprietario del locale tornò con due mojito belli freschi.
«Alla nostra, Brunè», disse Gigi schiantando il proprio bicchiere contro quello dell’amico. E lo fece con tanta energia, che qualche goccia schizzò sul tavolo.
«Allora, che si dice a Nettuno?», domandò Gigi a Bruno dopo aver bevuto un lungo sorso del cocktail.
«Mah… Ti dirò… Non è cambiato granché in dieci anni. A parte quella buca assurda», rispose Bruno bevendo con cautela un sorsettino.
«Che cazzo di storia… È stata una delle prime che mi hanno raccontato appena sono arrivato. In Thailandia non sarebbero stati così stupidi. E ti dirò di più, caro mio. Se Nettuno fosse in Thailandia, a quest’ora sarebbe un paradiso. Non ci sarebbe ‘sto mortorio, ma la vita, la vita vera».
«Ti confesso che a me piace di più così», disse Bruno a bassa voce, vergognandosi subito dopo di quella frase da paesano.
«Sei sempre il solito, eh? Non sei cambiato d’una virgola, me ne sono accorto subito, appena ti ho visto. Ma se tu fossi stato al mio posto, se tu fossi stato costretto a scappare, a ricominciare da zero in un paese completamente diverso, senza una lira in tasca, senza una conoscenza, avresti cambiato capoccia, ma radicalmente, fidati. Pensa se domani si presentasse a Nettuno un thailandese nella mia stessa situazione. Cosa farebbe? S’ammazzerebbe dopo due giorni. Qui non ci sono possibilità, non ci sono occasioni».
«Ma un thailandese non verrebbe mai a Nettuno».
«E che c’entra? È il principio che è sbagliato. Quelli hanno creato un impero dal nulla. Noi invece abbiamo tutto e ce ne freghiamo. Andiamo avanti per inerzia, ci accontentiamo. Ed è un discorso che riguarda l’Italia intera, non solo Nettuno».
«Qualche mese fa mi è giunta voce che a Bangkok hai aperto un locale».
«Sì, sono già due anni».
«E come va?».
«Come vuoi che vada, Brunè? Alla grande…».
«Ne sono contento. E… ti sei sposato?».
«Ma che sei matto? Lì ho la possibilità di cambiare una ragazza alla settimana, chi me lo fa fare di legarmi per tutta la vita a una donna?».
«Che ne so, Gigi. Era così per dire, a quarant’anni…».
«Ah… Ho superato queste fottute convenzioni da un pezzo, vecchio mio. Quando sarò vecchio e avrò bisogno d’una badante, allora prenderò moglie. Ancora così stai? Forza, butta giù quel mojito, così ne ordiniamo altri due».
Gigi costrinse Bruno a scolarsi il cocktail d’un fiato, poi ne ordinò un altro paio e si accese una sigaretta. Bruno non fumava da otto anni, la moglie lo aveva convinto a smettere poco prima del matrimonio, ma siccome era già un po’ brillo, accettò la sigaretta offertagli dall’amico. E gli sembrò la più buona di tutta la sua vita.
«Te, invece? Ho saputo che ti sei sposato», disse Gigi sputando dalla bocca cerchietti di fumo e ciccando nel portacenere.
«Sono otto anni ormai…», puntualizzò Bruno, assaporando con gusto il tabacco.
«Me cojoni… Complimenti… E chi è la fortunata?», domandò Gigi con sarcasmo.
«Non la conosci, è di Aprilia», rispose Bruno abbassando lo sguardo con imbarazzo. Al ricordo della moglie sentì riaffiorare dentro di sé quel pungente senso di colpa che aveva provato andandosene da casa per vedere l’amico e lasciandola da sola.
«Come vi siete conosciuti? Racconta un po’…», lo esortò Gigi sorridendo.
«L’ho incontrata qualche giorno dopo che te ne sei andato, al mare. Lei stava con delle amiche. Io mi sentii subito attratto dalla sua persona, e trovai addirittura il coraggio di rivolgerle la parola. Forse quel giorno è stato l’unico di tutta la mia vita in cui sono stato coraggioso. E non fu un mio atto di volontà… una mia decisione. Ero come trasportato da una forza misteriosa verso di lei. Ci siamo sposati dopo due anni di fidanzamento», spiegò Bruno, a bassa voce, con un tono dimesso.
«E bravo Brunetto… Me ne sono dovuto andare io perché tirassi fuori le palle con le donne, eh? Avete figli?».
Bruno scosse la testa, e con un lieve sussurro, dopo aver aspirato una profonda boccata di fumo, disse che non potevano averne.
Gigi si pentì di voler essere entrato così nel dettaglio. Il discorso rischiava di prendere una vena malinconica, che non sopportava, e allora decise di riportarlo su di sé. Iniziò così a raccontare degli innumerevoli viaggi che aveva fatto in quei dieci anni. Aveva girato mezza Asia. Era stato in tutti i paesi che confinano con la Thailandia: Birmania, Laos, Cambogia, Malesia. Ma si era spinto anche oltre: Vietnam, Indonesia, Singapore, Sri Lanka, Filippine, Nepal, India, Cina… A Bruno, che non si era mai spinto oltre qualche villaggio turistico del nord Africa, quei racconti fecero tornare il sorriso. Ascoltava l’amico con entusiasmo, faceva domande su domande, protendendo il collo in avanti. Gigi gli aveva spalancato una finestra su una parte del mondo che aveva sempre ignorato, e di cui ora scopriva il fascino.
I due amici persero la cognizione del tempo e il senso della misura. Si scolarono altri mojito, accompagnati da parecchie sigarette. Per Gigi tutto questo era la normalità, per Bruno no, ma si sentiva straordinariamente bene. Alle tre del mattino il proprietario del locale li informò che stavano chiudendo. Gigi saldò il conto e i due amici ritrovati uscirono fuori.
«Ma… dimmi un po’… T’è mancata Nettuno in questi dieci anni?», domandò Bruno, biascicando, all’amico.
«Certo che m’è mancata, Brunè. Le mie radici stanno qua», rispose Gigi allargando le braccia come il Cristo di Rio de Janeiro.
«Adesso… adesso che è morto, puoi tornare a Nettuno», disse Bruno ammiccando.
«Brunè, io da là non mi muovo, ho trovato il paradiso. Ma ora potrò a venirvi a trovare due o tre volte all’anno».
«C’hai ragione… chi te lo fa fare. Qua… qua non c’è niente», concluse Bruno.
I due amici si salutarono con un abbraccio, dicendosi quanto fosse stato bello e piacevole passare insieme qualche ora dopo dieci anni.
“Cazzo… non dovevo bere così tanto… Spero di non beccare qualche posto di blocco”, pensò Bruno, barcollante, avvicinandosi alla macchina lasciata di fronte la chiesa di San Francesco.
Per uscire dal parcheggio diede una bella botta all’auto che gli stava dietro, senza neppure accorgersene.
Tornando a casa, la sua mente annebbiata prese a confrontare la sua vita con quella di Gigi. Non c’era paragone. Quella dell’amico mandava kappaò la sua alla prima ripresa.
“Lui viaggia, viaggia, viaggia… Vede posti incredibili e cambia una ragazza a settimana. Si gode la vita… E io? Una noia mortale… Sempre le stesse cose, le stesse facce, gli stessi posti. Altro che vita… questa è la morte civile”, si diceva Bruno scuotendo la testa, deluso.
Giunto sotto casa, l’assicuratore decise di non salire subito, ma di fumare un’ultima sigaretta appoggiato alla macchina ammaccata. A quell’ora non c’era nessuno in giro. Si sentiva solo il suono delle onde andare e venire senza posa.
Bruno fumava con avidità e osservava con un ghigno il suo appartamento al terzo piano di una palazzina affacciata sul mare. Provava un sentimento di ostilità verso la propria casa, e verso sua moglie, i due totem di quella sua vita grigia, monotona, mortale. Non gli era mai successo in otto anni di matrimonio, di provare sensazioni simili. Era come se quella notte Gigi gli avesse reciso le palpebre con un taglio netto.
«Avessimo almeno un figlio, almeno uno… Un bel maschietto… Macché, manco ‘sta consolazione…», sussurrò a denti stretti, schiacciando la sigaretta a terra con rabbia e disprezzo.
Bruno aprì il portone con cautela. Si sfilò le scarpe e si diresse in camera da letto in punta di piedi. La luce della luna filtrava attraverso le sbarre delle persiane chiuse e gli indicava il cammino. Il condizionatore era acceso e diffondeva una piacevolissima frescura in tutto l’appartamento. Proprio nell’istante in cui varcò la soglia della camera da letto, illudendosi di averla fatta franca, Bruno sentì scattare l’interruttore della luce. Di colpo fu giorno. La moglie gli stava davanti a braccia conserte. Indossava una vestaglia fiorita che le cadeva morbida su quel suo corpo abbondante. Sul volto aveva un’espressione dura, severa, di rimprovero.
«Ti sembra normale? No, dimmi, rientrare alle tre e mezza del mattino, ti sembra normale?», domandò la donna al marito battendo regolarmente la punta del piede destro sul pavimento.
«Io… Gigi… Sri Lanka…», balbettò a stento l’assicuratore scaraventando lo sguardo mortificato a terra. Non si aspettava quell’aggressione.
«Cristo santo quanto puzzi… ma quanto cazzo hai bevuto? E hai pure fumato!», esclamò la donna sgranando gli occhi per la sorpresa. In otto anni di serena vita coniugale, non aveva mai visto suo marito ridotto in un tale stato, ubriaco fradicio, fare le ore piccole.
«Io… scusa…», farfugliò Bruno grattandosi la testa.
«Scusa un cazzo!», gridò la donna, furiosa, colpendo con violenza il marito in pieno volto.
Bruno si portò la mano sulla guancia percossa e sentì gli occhi riempirsi di lacrime. Se avesse potuto sarebbe tornato indietro di qualche ora e non avrebbe accettato l’invito di Gigi. In dieci anni era cambiato tutto.
«Fai un’altra volta uno schifo del genere e ti giuro su Dio che a me non mi vedi più. Miserabile…», ringhiò ancora la donna, puntando il dito indice in faccia al marito umiliato.
«Io… io… non… non succederà più…», borbottò Bruno e una lacrima gli scivolò sulla guancia arrossata, alleviando il bruciore.
«Giura!», ordinò la donna, colpendolo ancora, ma questa volta con meno forza e sulla spalla.
«Te… te lo giuro…», disse Bruno strofinandosi gli occhi.
«E adesso vattene sul divano. Io non ci dormo affianco a un miserabile», concluse la donna con disprezzo, spingendo il marito fuori della camera da letto e sbattendo la porta.
Bruno si mise a sedere per terra, appoggiato alla parete. Con la testa tra le mani, irruppe in un pianto disperato.
“Ma chi me l’ha fatto fare… chi cazzo me l’ha fatto fare…”, pensava maledicendo se stesso.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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