In provincia – Lo scherzo

La stazione di notte è uno dei luoghi più inquietanti di tutta Nettuno. Quei treni immobili, che giacciono sui binari come giganteschi vermi di lamiera più morti che addormentati, quell’illuminazione scarsa, quell’architettura urbana e quell’arredamento essenziale, creano un’atmosfera sinistra, angosciante, da film zombie. Eppure c’è sempre qualche senzatetto che, temprato dalla disperazione, vi si rifugia.
Quella maledetta notte tra il 31 gennaio e il 1 febbraio, era accampato su una delle panchine di marmo tutte scarabocchiate, tutte sfregiate, che si trovano nell’atrio, Navtej, un indiano di trentacinque anni, originario del Punjab. Giunto in Italia da clandestino cinque anni prima, aveva fatto il suo esordio nel mondo del lavoro nero come bracciante. Con il tempo era riuscito a scalare qualche posizione, fino a raggiungere la qualifica di manovale. Viveva a Lavinio, in un appartamento condiviso con altri suoi connazionali. Poi però il lavoro era svanito, così, da un giorno all’altro, e con lui pure il tetto. Da un paio di mesi Navtej era ridotto in quelle condizioni, senza un soldo bucato in tasca.
Quell’infausta notte si gelava. La temperatura era rigida, vicina agli zero gradi, e Navtej, rannicchiato in posizione fetale, batteva i denti. Il giubbotto rattoppato e la coperta consunta, raccattati chissà dove, forse in qualche secchio dell’immondizia sparso per la città, non bastavano a riscaldarlo. E così Navtej era costretto dal freddo a un fastidiosissimo stato di dormiveglia che non recava riposo alle sue membra intirizzite, rattrappite.
Negli stessi istanti, un trio di giovani lasciava l’antico Borgo medievale di Nettuno – questo gioiello storico-artistico stuprato ogni sacrosanta notte dalle decine di locali che contiene in grembo, teatro di risse, accoltellamenti e picconate in testa – e si metteva in macchina. Erano le quattro, e il loro goliardico sabato sera volgeva ormai al termine. Guidava Francesco, il più grande dei tre. Aveva ventinove anni e lavorava in un supermercato della periferia. Affianco a lui c’era Gianluca, un diciannovenne diplomatosi l’anno precedente in ragioneria, peraltro con un voto più che dignitoso, e ora impiegato in un call center di Aprilia. Entrambi erano nettunesi, entrambi guadagnavano tra i 700 e gli 800 euro al mese, che gli garantivano una certa indipendenza economica. Avevano la fedina penale immacolata come il volto di un cherubino, e appartenevano a buone famiglie. A metterli al mondo erano state coppie di onesti lavoratori che si erano giurate eterna fedeltà al cospetto del Padreterno. Insomma, Francesco e Gianluca erano ragazzi normalissimi, almeno fino a quell’assurda notte da Arancia meccanica.
Diverso il caso di Samuele, seduto dietro, al centro, con le mani puntate sui sedili. Aveva solo sedici anni, era un ragazzino, e viveva ad Ardea, con la madre e il patrigno tunisino. Era un giovane vivace, esuberante, troppo per i gusti del patrigno nordafricano, che ricorreva spesso alle mani per punirlo. Basso, più basso della media dei suoi coetanei, e robusto, Samuele era stato bocciato al primo anno delle superiori. Ma il drastico rimedio scolastico, e la conseguente scarica di botte del patrigno, non erano serviti a redimerlo, anzi. A scuola ci entrava ogni morto di papa, preferendo girovagare in sella al suo motorino, con il quale sapeva impennare. E oltre a quella dote da clown, non credeva di possederne altre. Quando sfrecciava per le viuzze del suo quartiere a ridosso del mare in equilibrio su una ruota sola, al rischio di spezzarsi l’osso del collo non ci pensava. Perché quando ti accorgi che tante legnate ti piegano, ma non ti spezzano, ti illudi di essere immortale.
«A regà, io me sto a piscià sotto», disse Samuele ai suoi amici con una smorfia d’insofferenza su quel suo volto rotondo, puntellato qua e là dai brufoli.
«Pur’io», gli fece eco Gianluca.
«E mo se fermamo alla stazione», replicò Francesco.
Nelle ore passate al Borgo, i tre avevano bevuto come cosacchi, e le loro vesciche sature imploravano pietà. In realtà non avevano solo bevuto, ma anche fumato, una decina d’euro di hashish acquistati dallo spacciatore di fiducia, un writer che a scuola stava in classe con Gianluca. Nonostante la temperatura polare, non sentivano freddo. L’alcol gli aveva riscaldato il sangue, e Francesco girava addirittura con il costoso giubbotto aperto.
Parcheggiata la macchina proprio davanti all’ingresso della stazione, i tre varcarono la soglia di quel cancello inspiegabilmente aperto 24 ore su 24, stringendo ognuno tra le labbra la propria sigaretta. Come i cani battezzarono un angolo, più buio degli altri, e in un attimo generarono una grossa pozza di piscio fumante, dalla quale esalava un acre miasma.
«A regà, annamo a rompe er cazzo a quer barbone», propose Samuele, sussurrando e indicando con un cenno del capo Navtej.
«A Samuè, io c’ho sonno, e me tocca pure riportatte a casa», si oppose Francesco, sbadigliando e richiudendo la lampo.
«E daje Francè, ‘n attimo, che ce vo’. Mica dovemo sta qua fino a domani mattina», provò a persuaderlo il ragazzino, che sentiva di avere ancora tanta energia dentro di sé e non voleva sprecarla.
Francesco non era convinto. Lo attendeva una bella traversata da Nettuno ad Ardea, era tardi e voleva sbarazzarsi al più presto di quel peso. Fu decisivo il parere favorevole di Gianluca, che appoggiò l’iniziativa di Samuele.
«Due contro uno: è la democrazia, baby», disse con sarcasmo il ragioniere impiegato al call center, ridacchiando e dando una pacca sulla spalla al più grande.
«Allora. Avvicinamose piano, zitti zitti, poi, quanno je stamo a un passo je famo bu e lo famo zompà. Sai che ride’…», illustrò il piano Samuele, tutto infervorato.
Navtej nel frattempo aveva percepito qualcosa. Aveva sentito gli schizzi di orina sul muro e le voci dei giovani, ma confusamente, scambiando tutto per un sogno.
I tre simpatici burloni si avvicinarono al senzatetto in punta di piedi, facendosi segno l’un l’altro, col dito indice sulla bocca, di non fiatare.
«Bu!», gridarono all’unisono nelle orecchie di Navtej, che scattò in piedi come una molla.
I giovani scoppiarono a ridere, piegati in due, mentre a Navtej il cuore era schizzato in gola. Osservava i tre sganasciarsi dalle risate e tremava, non più per il freddo, ma per l’improvviso spavento.
«Ah, ah, ah! Hai visto che zompo ha fatto? Pareva ‘na cavalletta», urlava Samuele strofinandosi gli occhi lucidi.
«Aò! Ma che te sei cacato sotto?», domandò poi a Navtej, simulando con la bocca il suono di una scorreggia.
«Me sa proprio de sì, guarda che cazzo de faccia che c’ha!», gli rispose Gianluca, sforzandosi di reprimere le risate.
A forza di ridere, Francesco non aveva più fiato, voleva dire qualcosa, ma per quanto si sforzasse non ci riusciva, e allora si limitava a indicare il senzatetto con il palmo della mano.
Navtej, che non capiva quello che gli dicevano, dopo aver smaltito un po’ di paura, iniziò a inveire nella sua lingua contro i giovani, accompagnando alle parole ampi gesti delle braccia.
I tre cambiarono di colpo espressione. Sui loro volti arrossati dall’alcol e dalle risate svanì l’allegria, sostituta da un ghigno rabbioso. Si guardarono negli occhi l’un l’altro e saltarono addosso al disgraziato. Navtej provò a divincolarsi, ma non ci riuscì. Il pestaggio durò pochi secondi, interrotto da Francesco, che, autoproclamatosi capo branco per anzianità, ordinò agli altri due di farla finita e di svignarsela.
Il senzatetto, riverso a terra, si lamentava. Aveva il volto tumefatto, perdeva sangue dal naso, dalla bocca, e doveva avere pure qualche costola sfasciata.
I tre risalirono in macchina baldanzosi, come se avessero fatto sport, e ricominciarono a ridere forte, ognuno esaltandosi del modo in cui aveva colpito il «barbone», come lo chiamavano in continuazione. Quella lurida vigliaccata gli aveva messo addosso una forte adrenalina, amplificata dall’alcol e dalla droga.
«Stamo in riserva, compà», disse Gianluca a Francesco, accennando alla spia del carburante che si era appena accesa.
«’O so, ‘o so… Tranquillo, che a piedi ‘n te ce lascio…», lo rassicurò il guidatore, accostando al primo distributore.
Mentre Francesco faceva benzina, a Samuele venne il colpo di genio. Con una diabolica naturalezza, troppo diabolica per essere spiegata semplicemente con la stupidità, propose ai due amici un nuovo scherzo da fare al «barbone»: dargli fuoco. Senza pensarci troppo, Francesco e Gianluca approvarono, e con entusiasmo per di più. Avevano superato ogni limite ormai. La loro ragione si era dispersa in luoghi non giurisdizionali, dove non erano rimaste che la violenza e la follia.
In macchina, sotto al sedile, scovarono una bottiglia di Super Tennent’s vuota, che quel piccolo Mefistofele di Samuele si era scolata nel viaggio di andata da Ardea a Nettuno, e la riempirono di carburante.
Quando i tre rientrarono in stazione, si avvicinarono a Navtej adagio, con calma, sorridendo, come se dovessero fargli un’opera di bene, come se dovessero finalmente mettere in pratica quegli insegnamenti di solidarietà e misericordia di cui gli avevano parlato al catechismo, quando erano ancora dei bambini.
Il senzatetto, con uno sforzo sovrumano, era riuscito a mettersi seduto sulla panchina. Dopo tutte quelle botte si sentiva distrutto, peggio che alla fine di una giornata estiva trascorsa nei campi a raccogliere i pomodori sotto il sole, a quaranta gradi. Non appena sentì i passi, Navtej si girò verso destra, vide i suoi aguzzini avvicinarsi e si sentì raggelare. Pensò di scappare, di correre verso il buio dei binari, ma non ne aveva le forze. Tentò di alzarsi dalla panchina, tentò disperatamente di staccarsi dal marmo ghiacciato, ma non ci riuscì. Era come se le innumerevoli percosse si fossero trasformate in altrettante braccia che lo tenevano inchiodato al sedile. Rassegnato, gettò uno sguardo alla bottiglia di birra e gli occhi pesti gli si riempirono di lacrime. Credeva che gliela volessero spaccare in testa, poveraccio. Invece gliela svuotarono addosso e, con un mozzicone di sigaretta, gli diedero fuoco.
Navtej, divorato dalle fiamme, si dimenava a terra come la coda della lucertola dopo che è stata mozzata dal corpo, e gridava, gridava con quanto fiato aveva in gola, come un maiale scannato. Le sue grida spaventose, terribili riempivano la notte gelida, e avrebbero ferito le orecchie di qualunque uomo, fino a farle sanguinare, ma non le orecchie di quei tre giovani inquisitori che, a distanza di sicurezza, si godevano lo spettacolo sghignazzando come iene.
Il più eccitato era Samuele. Provava un godimento sessuale osservando Navtej bruciare, contorcersi e strillare. Vedeva il volto sfigurato del senzatetto assumere i tratti ora del padre, che lo aveva abbandonato quando non sapeva ancora camminare, ora del professore di storia, che quando non sapeva rispondere a una domanda lo ridicolizzava davanti a tutta la classe, ora del patrigno tunisino.
«Bruciate, bastardi, bruciate… Così… sì, così…», sussurrava bagnandosi le labbra con la punta della lingua.
Trovarono Navtej, carbonizzato, che ancora fumava. Ma non era morto, aveva solo perso i sensi. In quel tizzone batteva ancora un cuore, per quanto debolmente.
Ricoverato d’urgenza al Sant’Eugenio di Roma, ricoprirono il suo corpo scuoiato con la pelle di un cadavere, macabro sudario.
«È incredibile il fuoco che ha preso quel ragazzo», fu questo il laconico commento di uno dei chirurghi dell’equipe.
Gli diedero 4 possibilità su 10 di salvarsi, solo 4 su 10, ma ce l’ha fatta, Navtej è sopravvissuto, ha tenuto duro e si è salvato.
Non so che fine abbia fatto, se trascini il suo corpo scorticato sul litorale laziale oppure se sia tornato in India, nel Punjab. So però che per Navtej, quella gelida notte tra il 31 gennaio e il 1 febbraio, sarebbe stato meglio morire.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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