In provincia – L’avventura

L’ottuagenario avvocato romano Cesare Borghese, da una vita parcheggiava la sua bella barca al porto turistico di Nettuno, dove inoltre possedeva un lussuoso attico in uno dei palazzi più vecchi del centro. Ogni estate lasciava la bollente Capitale per trasferirsi nella più fresca cittadina tirrenica, senza lesinare scorribande a Ponza, Ventotene, Palmarola, ma solo quando le artrosi gli davano tregua, e più passavano gli anni, più accadeva di rado. Lo accompagnava sempre la fedelissima consorte, Rosa Borghese, di una ventina d’anni più giovane. Una donna straordinariamente provocante, che era ricorsa ai miracoli della chirurgia estetica – la sua religione – praticamente in ogni punto del suo corpo. Ogni volta che compariva nel porto faceva scalpore, e non poteva essere altrimenti.
Era curioso vedere al fianco di quel relitto decrepito e grinzoso, che non camminava più, ma si trascinava con l’aiuto del prezioso bastone di ciliegio ornato da un pomello d’avorio, una simile femmina, tutta sorridente, tutta agghindata, che ostentava maliziosa gli enormi seni di plastica e provocava ogni singolo uomo, senza distinzione di classe, con quel suo sguardo che diceva senza imbarazzo né pudore: «Ti piacerebbe portarmi a letto, eh? Venderesti la tua anima al diavolo pur di possedermi una notte, anche una sola, non è vero?».
«Aò, e quella chi è?», domandò stupefatto e ammirato Marco, il più giovane degli operai del cantiere navale che sta dentro al porto di Nettuno, a un suo ben più esperto collega appena vide incedere tra le barche tintinnanti l’avvenente Rosa.
«Eh… compà…», sospirò l’attempato operaio schiacciando a terra la sigaretta e accendendone subito un’altra. «Quella è la moje dell’avvocato Borghese, che poi sarebbe er vecchio mezzo morto che je sta affianco».
«Ammazza che fregna…», si complimentò il giovane sgranando sempre di più gli occhi.
«’Ndovina ‘n po’ quant’anni c’ha?», gli domandò il collega mettendolo alla prova.
«’Na quarantina», rispose Marco, sicuro di aver fatto centro al primo colpo.
«Deppiù», lo corresse l’esperto operaio.
«Allora ‘na cinquantina», aggiustò il tiro il giovane.
«Deppiù», ripeté il collega.
«Se, vabbè», disse Marco con sufficienza.
«Se vabbè ‘sto cazzo. Compà, quella cagna c’ha l’età mia: sessant’anni», spiegò l’operaio sputando fuori dalla bocca il fumo con disprezzo.
«Ma che cazzo me stai a di!», esclamò il giovane esterrefatto.
«Ma na ‘a vedi ch’è tutta rifatta? Tiè, guarda come stanno su que’e zinne».
«Porca Madò…», sussurrò Marco annuendo e bagnandosi le labbra con la punta della lingua.
«E è pure ‘na mignotta», spiegò il sessantenne.
«Me cojoni, pure…».
«Ennò. S’è scopata mezzo porto s’è scopata».
«E te? Te ‘a sei scopata Guì?», domandò il giovane sogghignando e colpendo il collega con il gomito.
«Fatte li cazzi tua», rispose asciutto l’operaio, per il quale una delle regole fondamentali per campare tranquilli era che i fatti privati restassero privati.
Era la metà di aprile quando Marco vide per la prima volta la moglie dell’avvocato. Cesare Borghese e consorte erano scesi a Nettuno per verificare le condizioni della barca e concordare qualche piccola riparazione. Li accompagnava l’autista, un russo tutto d’un pezzo e di poche parole che si diceva fosse andato a scuola con Putin. Mentre l’avvocato parlottava col capo cantiere e qualche altro operaio dai capelli bianchi, riparandosi dal sole con una mano sulla fronte, Rosa decise di fare un giro su una bella barca a vela parcheggiata sul piazzale di cemento. In quel momento ci stava lavorando Marco, che incontrò lo sguardo dell’avvenente donna e si sentì incenerire.
Rosa fece un rapido giro sulla barca, e poi si avvicinò al giovane col suo passo da pantera.
«Il letto com’è? Comodo?», gli sussurrò all’orecchio sfiorandolo appena con la punta della lingua.
Marco trasalì e non rispose nulla. La lingua a lui gli si era appiccicata al palato. Mentre la sua immaginazione galoppava come una puledra drogata e in mezzo alle gambe avveniva l’apocalisse.
«Che fai, non rispondi, eh?», lo provocò la donna, che sapeva perfettamente del macello che stava accadendo in quegli attimi dentro quella carne fresca e ci godeva.
«È timido il bambino…», disse poi con aria canzonatoria.
Marco accennò un sorrisetto da ebete e scosse piano la testa.
«Facciamo così, caro il mio timidone, vediamoci questa sera, alle undici, all’ingresso del porto. Che ne dici?», propose poi Rosa.
Il giovane, imbambolato, si limitò ad annuire. La donna gli si avvicinò ancora di più e gli diede un buffetto sul sedere, sussurrando: «Voglio proprio provare il letto di questa bella barchetta. Quindi vedi di procurarti le chiavi del cantiere». Disse queste ultime parole con una voce, ma con una voce… che grondava sesso. Ascoltandole, persino un prete avrebbe perso la testa.
Marco era fidanzato da un paio d’anni con una ragazzetta tutta precisina che studiava medicina, ma in quel pomeriggio di trepidante attesa, di attesa feroce, affamata, neppure per un istante venne a turbarlo il pensiero di lei. Era come se di colpo fosse sparita dalla faccia della terra.
Alle undici in punto il giovane fu all’ingresso del porto. Dopo qualche minuto lo accostò la Mercedes dell’avvocato. Il finestrino si abbassò e Marco vide Rosa al volante. Per quel sabato sera aveva dispensato l’autista russo.
«Allora, ce l’hai le chiavi?», domandò la donna.
«S-sì… Eccole…», balbettò il giovane, che si sentiva il cuore in gola e un palo della cuccagna tra le gambe, mostrando il mazzo tintinnante. Essere il nipote del boss del cantiere garantiva bei vantaggi.
«Ah… ma allora ce l’hai la lingua, eh? Tu entra dentro, io parcheggio e ti raggiungo».
Marco si insinuò nel cantiere e dai buchi della rete metallica, alla quale era aggrappato con le dita abbronzate, spiò la donna scendere dall’auto. Era tutta nera. Una cazzo di pantera. I pantaloni di pelle tutti attillati e lucidi esaltavano le linee di quel culo strepitoso, perfezionato dal chirurgo plastico con più maestria di un Michelangelo. Il giubottino, sempre di pelle, tutto stretto, non riusciva a contenere quei due seni enormi, sodi come meloni appena colti.
Non appena furono nello stomaco della barca a vela, la donna, lesta, si infilò nell’alcova, ordinando al giovane di aspettare un momento fuori dalla porta. Marco ascoltava il tintinnare degli alberi sfiorati dal leggero e fresco vento primaverile e respirava piano, come se temesse che qualcuno lo potesse scoprire.
Dopo un paio di minuti la porta dell’alcova si spalancò e il giovane credette di essere morto e aver raggiunto per grazia di Dio il paradiso. Rosa gli stava davanti completamente nuda, come il chirurgo l’aveva ri-fatta. Non aveva altro che le scarpe dal tacco altissimo, e che non avrebbe tolto per nessuna ragione al mondo. Le piaceva fare l’amore calzata, e bucare i materassi. Una mano era puntata sul fianco, l’altra invece era immersa nella chioma di capelli appena mossi e tinti di nero. E tutto quel ben di Dio, pardon, del chirurgo, era illuminato da un argenteo fascio di luce lunare che rendeva il tutto quasi mistico.
Il giovane deglutì forte, come se dovesse ingoiare uno scoglio, dentro di sé bestemmio la Madonna e restò impalato. Sul volto aveva un’espressione ridicola, con quella bocca aperta come i vecchi a un passo dalla morte che non hanno neppure più la forza di tenere in mano una posata e aspettano fiduciosi il cucchiaio della minestrina schifosa dalla badante romena.
«Uffa… Ma perché reagite tutti in questo modo?», domandò la donna infastidita, e per un attimo pensò addirittura di rivestirsi e andare via, ma poi afferrò Marco in mezzo alle gambe trascinandolo dentro di forza.
Spogliandosi il giovane nascose in mezzo ai vestiti il cellulare con la videocamera accesa. Voleva immortalare quella scopata epica. Altrimenti chi ci avrebbe creduto? Nessuno, e forse neppure lui stesso.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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