In provincia – La zingara

A soli venticinque anni, Andrea aveva un curriculum da puttaniere davvero invidiabile. Si era fatto le ossa, ancora minorenne, con le schiave nigeriane, che a via delle Grugnole, nel bosco di Foglino, vendono i loro sfatti corpi d’ebano per una miseria (con una di loro, in una fredda mattina di gennaio, aveva persino perso la verginità). Poi, una volta presa la patente, era passato alle romene e alle albanesi che ogni notte ornano come fiorellini consunti i cigli della Nettunense. Infine era giunto alle sudamericane e alle italiane che ricevono in appartamento, senza disdegnare, di tanto in tanto, una capatina a qualche centro massaggi cinese, magari in quelle occasioni in cui non aveva a disposizione la necessaria liquidità per usufruire delle grazie di una professionista “casalinga”.
Da un paio di mesi Andrea però non ricorreva alla prostituzione. E non perché avesse finalmente trovato una ragazza, ma perché da un paio di mesi aveva una nuova fantasia sessuale che non riusciva ad appagare: farsi una zingara. La smania dei transessuali, prontamente assecondata, era svanita, sostituita da questa. Il giovane si sentiva ribollire il sangue, lo sentiva scoppiettare come scoppietta la lava nelle viscere di un vulcano, ogni volta che incrociava un’avvenente gitana olivastra dai denti d’oro, ma non sapeva cosa fare, come comportarsi. In fondo le zingare lo intimorivano. Aveva paura che con quel loro atteggiamento grossolano, incurante e sprezzante di tutto e di tutti, potessero imbarazzarlo, o peggio, umiliarlo.
L’occasione giusta si presentò in un primo pomeriggio di fine giugno. Andrea era appena tornato a Nettuno da Roma, dove si recava quasi tutti i giorni per perfezionare la tesi su Philipp Mainländer [1], che avrebbe discusso alla metà di luglio, laureandosi così Dottore in Filosofia. Non appena scese dal vagone, vide a qualche metro di distanza una zingara sgattaiolare su quello stesso treno, che sarebbe ripartito in direzione della Capitale tra una decina di minuti. Eccitato e al tempo stesso ansioso, si lanciò al suo inseguimento. Voleva comprarsi anche quella donna. La scovò un paio di vagoni più avanti, seduta a metà del piano superiore. Non era niente male, persino meglio di come se l’era immaginata. A occhio e croce, doveva avere una trentacinquina d’anni. Aveva lunghi capelli castani raccolti in una treccia unta che le cadeva sul petto. Indossava una canottiera bianca, macchiata qua e là, e la consueta gonna comoda che le arrivava alle caviglie, dello stesso colore. Il bianco esaltava la sua carnagione scura.
Andrea si avvicinò alla donna adagio, e dopo essersi accertato che oltre a loro due sul vagone non c’era nessun altro, le porse qualche spicciolo, così, tanto per sondare il terreno, per capire se c’erano i margini per un affondo oppure se bisognava battere in ritirata.
«Tieni. Sei bellissima…», le sussurrò con voce tremante. La sua eccitazione era al culmine, e l’ormone impazzito, saltellante qua e là come una scimmia irrequieta rinchiusa in gabbia, lo rendeva cerimonioso. Le sarebbe saltato addosso. Se la sarebbe divorata lì, sul vagone vuoto, senza lasciare neppure le briciole.
La zingara afferrò le monete e sorrise lusingata, mostrando due file di denti d’oro che brillavano alla luce del sole.
«Vieni, siediti», disse la donna ad Andrea, che le si accomodò di fronte.
Dalla pelle olivastra della zingara proveniva un odore forte, acre, di sudore rappreso. Si era sfilata le ciabatte consumate, e ci aveva poggiato sopra i piedi abbronzati, leggermente gonfi a causa del primo caldo estivo.
«Dove abiti?», domandò la gitana al giovane guardandolo dritto in faccia con quei suoi occhi neri profondi come pozzi.
«Lontano da qui…», rispose Andrea con un filo di voce.
La zingara gli mise una mano sul ginocchio scoperto – il giovane indossava infatti dei bermuda -, e Andrea in risposta si piegò in avanti infilando le dita sotto la lunga gonna e iniziando ad accarezzarle il polpaccio. Sentiva la ricrescita dei peli pungergli i polpastrelli.
«Se mi dai altri soldi, per mangiare, noi possiamo…», propose la zingara ammiccando.
Il giovane non resistette a quello sguardo così convincente, che trasudava lascivia, e afferrò il portafoglio, tirandone fuori una banconota da venti euro. La mostrò alla gitana, che di scatto, più per avarizia che per fame, protese la mano destra per afferrarla e farla sua. Ma Andrea fu più lesto della donna. L’eccitazione non gli aveva inibito i riflessi. Così ritrasse il denaro e lo fece sparire in una tasca dei pantaloni corti.
«Se li vuoi, vieni con me», disse poi alla zingara bagnandosi le labbra con la punta della lingua umida.
Senza pensarci più di tanto, la gitana annuì. Andrea doveva piacerle, altrimenti per lui non sarebbe stato così semplice. Ed evidentemente anche la donna aveva voglia di divertirsi un po’.
Il giovane scese dal vagone e si incamminò a passo svelto in direzione dei binari morti, quelli che stanno alla fine e non vengono mai utilizzati, se non da qualche scaltro pendolare che li attraversa per accorciare la strada. La donna aspettò qualche secondo, giusto per mettere tra sé e l’amante una distanza di sicurezza – aveva tatto -, poi si infilò le ciabatte e scese dal treno. Avrebbe preso quello dell’ora dopo.
Sotto al cavalcavia Andrea si voltò e vide che la zingara lo seguiva mangiandosi le unghie. Il sole picchiava forte, ma il giovane neppure lo sentiva il caldo, tanto grande era la sua eccitazione. Aveva eletto nido d’amore un piccolo edificio che stava proprio in mezzo ai binari morti, ed era utilizzato da qualche vagabondo come ricovero, ma solo la notte, di giorno non c’era mai nessuno.
All’ingresso della baracca piena di sporcizia (bottiglie di birra, cartoni di vino dozzinale, indumenti strappati, scarpe bucate) e circondata di papaveri inclinati dal vento leggero, il giovane si voltò di nuovo verso la gitana, le fece un rapido cenno con il capo, e poi entrò dentro. Appoggiato alla parete di schiena, la mano destra che frugava sbarazzina dentro le mutande, pregustava l’imminente piacere. Aveva l’acquolina in bocca.
Quando poi anche la zingara varcò la soglia del piccolo edificio dismesso, le saltò addosso come un gatto salta addosso a una lucertola. Le strappò di dosso la canottiera e si avventò su quel seno cadente, rigato dalle smagliature, manco fosse un neonato. La gitana rideva, rideva, un po’ per il solletico che le causava quella lingua errante sulle sue mammelle prosciugate e sui suoi capezzoli turgidi, un po’ per l’ebbrezza.
E anche questa era fatta. Anche questa brama sessuale era stata saziata. Ora Andrea poteva tranquillamente tornare a fare visita alle prostitute sudamericane e italiane che ricevevano in appartamento. Almeno fino a quando una nuova perversione non gli avrebbe spappolato il cervello.

NOTE

[1] Philipp Mainländer (1841-1876), filosofo tedesco autore della Filosofia della Redenzione, che Theodor Lessing definì «forse il più radicale sistema pessimistico noto in tutta la letteratura filosofica mondiale». Assertore del suicidio come redenzione dell’esistenza, si impiccò utilizzando le copie fresche di stampa della sua opera come piedistallo.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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