In provincia – La partenza

Quando annunciai che erano usciti i risultati dell’esame di stato, la tensione si fece palpabile. Era già luglio – ero stato l’ultimo a sostenere la prova orale, alle otto di un deserto sabato mattina – e io, mia sorella, mio padre e mia madre stavamo cenando, fuori in veranda. Iniziava a scurire, e a rinfrescare, finalmente, dopo tante ore d’afa.
«Allora?», mi domandò mia madre in modo brusco, altero, dopo qualche istante di silenzio. Mi stava di fronte.
«Sessanta», risposi con un tono di voce secco, spavaldo, ma senza guardarla negli occhi, afferrando qualcosa a caso dal piatto e gettandomela in bocca.
La scrutai di sottecchi. Ebbe un moto d’impazienza, ma non replicò nulla. Era delusa. Ai due capi della tavola, mio padre e mia sorella non dissero niente. Gliene fui grato.
Mia madre era delusa, delusa e arrabbiata. La capivo, ma non condividevo, non potevo condividere i suoi stessi sentimenti. L’importante per me era che fosse finita. Ed era finalmente finita, dopo cinque anni tortuosi, difficili. D’accordo, avevo preso il minimo, sessanta su cento, ma che si aspettava di più? Come poteva aspettarsi di più? Facevo il liceo scientifico ed ero stato ammesso con tre, e sottolineo tre, a matematica. Tre su dieci, capite bene… Per telefono poco prima mi avevano detto che la professoressa di matematica si era impuntata.
«Va bene non bocciarlo, ma non più di sessanta». I miei amici giuravano che avesse detto proprio così.
È che a me la matematica non piaceva proprio. Dentro quel groviglio di numeri e di formule mi ci perdevo come Dante dentro la selva. La matematica non era la mia attitudine, e se nel primo semestre mi ero sforzato di raggiungere quantomeno una stiracchiata sufficienza, nel secondo avevo mollato tutto. Molto semplicemente, non la studiavo più. La matematica era una materia troppo arida per il mio temperamento artistico. Io andavo bene, anzi, benissimo nelle discipline umanistiche: italiano, storia, filosofia. Avevo tre splendidi otto ed ero apprezzato dalle rispettive professoresse. A tal punto che nell’ultimo consiglio di classe – me l’aveva riferito Marta, la rappresentante -, all’ipotesi di bocciatura ventilata dalla professoressa di matematica, le insegnanti di italiano e di storia e filosofia si erano opposte con decisione.
Tutto questo mia madre non lo capiva, ma io sì, ed ero felice che ora tutto fosse finito. Che non ci fosse più l’angoscia di un compito in classe, oppure di un brutto voto da comunicare a casa con il capo inutilmente cosparso di cenere. A me il sessanta non interessava, e se ci pensavo neppure mi dispiaceva, anzi, mi stava simpatico.
Dopo cena uscii con gli amici. Come ogni sera. Dopo che anche questo dente, anche quest’ultimo, fastidiosissimo dente era stato tolto, potevo finalmente godermi la mia prima estate da uomo libero. I giorni li passavo tutti uguali. Stavo al mare dall’alba al tramonto. Poi, dopo cena, uscivo e rientravo a casa verso le due, le tre al massimo, passando quelle ore al Borgo, a bere birra. Non solo birra in realtà. Quasi ogni notte tornavo a casa sbronzo, ma riuscivo sempre a svegliarmi presto, non più tardi delle nove. Non volevo che mia madre mi rinfacciasse nulla.
La ragazza non ce l’avevo. In quell’anno mi avevano preso a picconate in due: una, Federica, stava in classe con me, mentre l’altra, Alessandra, era un anno più piccola di me e faceva il quarto. L’avevo conosciuta in gita a Berlino. A Federica avevo detto ti amo, ma ora capisco di non averla mai davvero amata. Lei aveva pianto e nient’altro. Ad Alessandra invece non l’ho mai detto, eppure la amavo da morire. È sempre così che vanno le cose. Alessandra era piccola, gracilina, la chiamavano tutti Sandrina. Aveva lunghi capelli biondi, tante lentiggini e due occhietti verdi. Stavamo insieme praticamente tutti i giorni, talvolta fino a notte fonda. Camminavamo tenendoci per mano, ma niente. Le donne non si rendono conto di quanto possano fare male. Ti uccidono. Magari lo fanno in buona fede, senza rendersene conto, ma ti uccidono. Ci siamo schiantati insieme con la macchina, su un incrocio di Lavinio mare, dove abitava – io quell’Alfa non l’ho proprio vista -, ma senza farci niente. Se chiudo gli occhi e mi concentro sento ancora le sue grida di paura al momento dell’impatto. La macchina, la mia prima macchina, una vecchia Peugeot 106 rossa fiammante, fui costretto a buttarla. Era completamente distrutta, perché dopo lo scontro ci siamo spiaccicati contro il semaforo. Se non avessi avuto la cintura di sicurezza, pure il mio corpo sarebbe stato buttato, ma in una fossa. Era stata proprio lei, Alessandra, a consigliarmi di metterla prima di ripartire. Io non volevo. Lei mi convinse. In quell’occasione fu il mio angelo custode.
Per festeggiare il suo diciottesimo compleanno, a mezzanotte mi presentai sotto casa sua. Le feci trovare la torta, comprata nella migliore pasticceria della zona e pagata a peso d’oro, lo spumante, e restammo così, per un paio d’ore, in macchina – quella di mia madre, perché l’incidente era già successo -, a mangiare e bere. Capite? Lei a mezzanotte del suo diciottesimo compleanno non era con le amiche a fare baldoria al Borgo di Nettuno o in spiaggia, ma stava con me. Eppure niente. Niente di niente. Un paio di baci rubati e basta. Un mistero, che per me resterà per sempre tale.
Ogni tanto, in uno di quei giorni estivi calmi e spensierati, mi capitava di pensare all’avvenire, all’università. Dovevo fare una scelta, e il tempo stringeva. Io volevo fare filosofia, la filosofia infatti mi piaceva più di tutte. Mi ingozzavo di pagine e pagine di Nietzsche, Schopenhauer e Kierkegaard, ma a diciannove anni ci si lascia condizionare facilmente. Troppo facilmente. Così alla fine scelsi Scienze politiche, e dall’autunno iniziai a recarmi tutti i giorni a Roma, col treno regionale. Un treno, quello Nettuno – Roma Termini, che non vi dico. Meglio stendere un velo pietoso. Ricordo che da Termini alla città universitaria della Sapienza ci mettevo una vita, camminando pianissimo.
Mi iscrissi a quella facoltà insieme a uno dei miei cinque o sei amici più cari, Marco, lui ammesso all’esame di stato con quattro a matematica e uscito con una manciata di voti più di me, cinque o sei. Fumavamo in continuazione, una sigaretta dopo l’altra, annebbiando gli antri delle aule.
Scienze politiche mi fece schifo da subito. Il voltastomaco fu un effetto immediato. Mi disgustava ascoltare le lezioni di diritto, pubblico e privato, e di economia politica. Attorno alla mia testa fluttuava una spessa coltre di parole indecifrabili come numeri. Ciò che al liceo era stata una sola materia, la matematica, diventava ora un intero corso di laurea. E per fortuna che con me c’era Marco. Si rideva, e poco altro. Studio zero. Ricordo che il momento più esaltante fu quando trovai a terra, in aula, tra i banchi sporchi, cinque euro. Investiti in sigarette ovviamente: Lucky Strike, grazie.
Non durai che un semestre. Me ne andai a gambe levate. Avrei dovuto immaginarlo che si trattava di un compromesso impossibile, ingestibile. Lo comunicai ai miei genitori, spiegai loro che quella facoltà non faceva per me, che era quanto di più lontano esistesse dalle mie attitudini, dalle mie passioni. Dimostrai determinazione, fermezza – uno dei pochissimi casi in tutta la mia vita. C’era in ballo troppo perché anche questa volta lasciassi passare le cose in silenzio. Allora credevo ancora che l’università potesse determinare, in senso favorevole, il futuro di un individuo. Oggi ho capito che dipende solo dal caso, e da nient’altro. I miei genitori mi ascoltarono pazienti, compresero le mie ragioni – erano in parte responsabili del mio primo fallimento accademico, più volte infatti, durante l’estate, mi avevano posto il sanguinoso quesito: ma con la laurea in filosofia che ci fa? – e approvarono la mia decisione di abbandonare Scienze politiche. A settembre avrei iniziato un nuovo corso, in una nuova facoltà, affine ai miei interessi, ma a un patto: da qui a settembre avrei dovuto lavorare. Incassai il colpo a testa bassa. L’idea di lavorare non mi entusiasmava per niente. In diciannove anni avevo lavorato solo tre mesi, ovvero l’estate successiva al terzo anno di liceo, chiuso con due debiti: matematica (manco a dirlo) e fisica. Mia madre, per punizione, mia aveva ficcato nel negozio di casalinghi presso cui era impiegata. Mettevo a posto gli scaffali, rimpiazzavo la merce. Aprivo e ripiegavo cartoni, prezzavo oggetti. Lavoravo durante l’orario di chiusura, appena tre ore al giorno. Quando poi il negozio riapriva, scappavo. Avevo paura dei clienti. Avevo paura della gente. Se qualcuno mi chiedeva un’informazione andavo nel panico, temevo di dire sciocchezze, balbettavo. Oggi quella puerile paura si è trasformata in una nera misantropia. Ne era un germe. All’epoca già lo presagivo. Non poteva finire in un altro modo, e comunque non sono stato mica io a decidere.
Come me, anche Marco lasciò l’università, lui però per sempre, e andò a lavorare nel cantiere del porto di Nettuno, dallo zio. Avrei potuto fare lo stesso, andando a lavorare nell’officina di mio padre, ma lui non volle. Così mi misi alla ricerca di un impiego. Stampai curriculum vuoti in quantità industriale distribuendoli come volantini pubblicitari a destra e a manca. Con l’avvicinarsi della bella stagione mi recai in tutte le spiagge di Nettuno, proponendomi come spiaggino e barista. «Le faremo sapere», mi rispondevano tutti. Mi rivolsi pure a catene di abbigliamento e di elettronica. Parlai della mia situazione a Luana, una ragazza di sei anni più grande di me conosciuta in una vacanza a Ibiza. A Luana volevo un bene immenso, era la mia sorella maggiore e la vedevo tutti i giorni. Era una donna, una donna vera, lavorava in un centro commerciale e aveva una casa tutta sua, dove andavo spesso a mangiare, oppure a vedere un film. In sua compagnia trascorrevo ore liete. Ora non so neppure che fine abbia fatto, se sia viva o morta. Saranno vent’anni che non la vedo, e va bene così. Rivederla sarebbe troppo doloroso. Non me la posso immaginare invecchiata. Luana era come una sorella e un po’ come la Fata turchina di Pinocchio. Aveva sempre pronta la soluzione. Anche quella volta che le parlai dei miei tentativi di trovare un impiego temporaneo in attesa dell’inizio del nuovo anno accademico.
«Vai a fare l’animatore, no? Di ragazzi come te ne cercano a migliaia. È un’occasione per conoscere gente nuova e vedere altri posti», mi disse con quel suo tono di voce leggero, scanzonato, incurante, che come per magia svelava sempre il lato più semplice delle cose.
Io la ascoltai. Inviai numerose e-mail. Dopo appena un paio di giorni, un’agenzia mi rispose e mi disse di recarmi a Roma il giorno x, in via x, all’ora x per un colloquio. Mi recai all’appuntamento con mezzora di anticipo. Teso, iniziai a passeggiare su e giù, proprio davanti all’ufficio, scrutando i palazzi e fumando nervosamente. Mi trovavo in una via vicina alla stazione Termini, c’era un albergo a quattro stelle pieno di turisti stranieri. All’ora stabilita entrai e mi accomodai a una scrivania bianca sepolta dalle scartoffie, di fronte a un omino calvo che doveva avere più o meno una trentacinquina d’anni. Parlò soprattutto lui, io mi limitai ad ascoltare. Del resto, cosa avrei potuto dirgli di più di quel poco che sapevo?
«Voglio dire… ti ho visto passeggiare qui davanti per mezzora, senza sospettare che fossi tu il Luca C. del colloquio, e adesso eccoci qua. È così che vanno le cose, nella vita non si sa mai», filosofeggiò a un certo punto, guardandomi con intensità dritto negli occhi. Doveva avere una gran considerazione di se stesso.
Ci lasciammo con una stretta di mano. Non mi aveva detto né sì né no, e io non sapevo cosa pensare dell’esito del colloquio, se fosse andato bene o male, oppure una via di mezzo. Lo seppi un paio di giorni dopo, quando mi arrivò un’e-mail con il contratto di lavoro e la destinazione: Marina di Castagneto Carducci, Livorno, Toscana.
A prendere il treno che da Nettuno mi avrebbe portato a Termini, da cui poi avrei preso il treno per Genova, scendendo a Follonica, mi accompagnò Luana. Erano i primi giorni d’estate, e la mattina presto l’aria ancora pungeva. Ci salutammo con un abbraccio, poi, con zaino e valigia, saltai su.
«Chiamami quando arrivi», si raccomandò.
Era presto e avevo sonno, ma non mi addormentai. In quell’ora e un quarto di viaggio pensai molto. Ai miei genitori, a mia sorella, ai miei amici, a Luana, ai miei luoghi. Non li avrei più rivisti per mesi, e questa certezza mi smuoveva sensazioni strane. Era la prima volta in vita mia che mi allontanavo per così tanto tempo da casa. Ero eccitato e il sangue mi ribolliva. Sotto sotto avvertivo una sottile vena di malinconia, ma mi sforzavo di non badarci troppo. E del resto era facile non farci caso, addosso mi sentivo come una febbre, che mi dava più o meno la stessa sensazione di leggerezza e spensieratezza che dà una sbronza.
Il viaggio da Nettuno a Roma Termini non lo dedicai solo alla riflessione. Osservai a lungo il paesaggio che si rincorreva senza sosta al di là del finestrino opaco. Ed era come se vedessi i campi, le case e le fabbriche con altri occhi. In quella circostanza imparai che quando si stanno abbandonando dei luoghi, gli ultimi sguardi ad essi sono sempre i più attenti e meticolosi. Per mesi avevo preso quel treno tutti i giorni, eppure alcuni dettagli li colsi per la prima volta solo il giorno della mia partenza per la Toscana.
Giunto alla stazione Termini, mi trascinai i bagagli in un bar, dove ordinai un caffè che bevvi lentamente, guardandomi attorno. In quella moltitudine di gente indaffarata, tentai di individuare quanti erano nella mia stessa situazione. Quanti cioè lasciavano la propria terra per trasferirsi in un’altra, ignota. Ne individuai un paio, riconoscendoli dallo sguardo. Sui loro volti notai quello stesso sguardo che sentivo sulla mia faccia. Dopo il caffè me ne andai fuori, lato via Marsala, a fumare avidamente la prima sigaretta della giornata. Allora fumavo ogni singola sigaretta con avidità. Oggi, che sono passati vent’anni, le sigarette mi fanno schifo, ma non posso farne a meno. Il fumo per me è diventato qualcosa di naturale, di fisiologico, come mangiare, come pisciare. Ne ho bisogno, altrimenti mi sento morire.
Quello Roma – Follonica fu un viaggio lunghissimo, interminabile, che passai in un vagone vuoto, ascoltando musica e leggendo per la centesima volta I fiori del male di Baudelaire. Indugiai a lungo sulla poesia Il viaggio. Quei versi enormi, ineguagliabili, conclusivi dell’intera raccolta, me li sentivo cuciti addosso, come se li avessi dettati io stesso a Baudelaire.
Quando finalmente scesi a Follonica, innanzitutto fumai una sigaretta, che dopo ore e ore di forzata astinenza, desideravo più di ogni altra cosa. Alla prima ne seguì una seconda, alla seconda una terza, alla terza una quarta, tutte d’un fiato. Spegnevo e accendevo, spegnevo e accendevo, senza vedere né sentire niente attorno a me. Era troppo forte la smania di nicotina.
Presi l’ennesimo treno regionale, lo confrontai con quello Nettuno – Roma Termini e trovai differenze inspiegabili e imbarazzanti. Balzai giù dal vagone alla piccola stazione di Castagneto Carducci-Donoratico. Mi illusi di essere arrivato e fui felice. Respirai profondamente la nuova aria. Era fresca. Infatti diluviava. Mi rifugiai in un bar, presi un panino di plastica, che lì per lì scambiai per l’immagine illustrativa esposta sul bancone, e una birra. Terminato il pasto chiesi al barista la strada per via Milano, dove si trovava il villaggio. Mi rispose che era piuttosto lontana, e che conveniva prendere la corriera, la cui fermata si trovava dietro la chiesa. Ascoltare quel nuovo dialetto mi fece un effetto strano. Sorrisi senza farmi notare, voltando la testa dall’altra parte. Mi sembrava incredibile che due persone potessero capirsi pur parlando lingue così differenti.
Lasciai il bar e sotto la pioggia battente mi diressi alla fermata della corriera. Per fortuna c’era una pensilina. Non so per quanto tempo attesi. Non so quante sigarette fumai. A causa del temporale in giro non c’era un cane. Solamente qualche macchina mi passava davanti di tanto in tanto, tagliando l’acqua accumulata sulla strada. Aspettai così a lungo che persi del tutto la cognizione del tempo. A un certo punto non mi sembrava più di aspettare. I secondi, i minuti e le ore si dilatavano fino a spezzarsi, e mi sembrò di sentirle andare in frantumi come cocci. Non avevano più alcun senso. Proprio quando stavo per appisolarmi, ecco apparire la corriera. Impiegai qualche secondo a ridestare i miei sensi intorpiditi. Afferrai con enorme fatica i bagagli e montai sopra. Mi sentivo invecchiato.
«Salve. Dovrei andare a via Milano», dissi stirandomi la schiena e sbadigliando.
«Va bene», mi rispose il conducente senza degnarmi di uno sguardo.
Pagai il biglietto e mi accomodai in prima fila. La corriera era vuota, come se fosse a disposizione solo per me. Come se qualcuno l’avesse avvisata che un viaggiatore aveva bisogno di lei. Ma doveva essere una corriera pigra, sfaccendata, se ci aveva messo tutto quel tempo.
Durante il tragitto, la cui colonna sonora fu lo stridio dei tergicristalli sui vetri, attraversammo in discesa una folta pineta. In giro c’erano poche macchine. Di pedoni neppure l’ombra.
«Ecco, quella è via Milano», mi disse il conducente arrestando il mezzo e indicando col dito indice un punto a un centinaio di metri di distanza.
Scesi e mi incamminai per via Milano, una stradina allagata che tagliava un’altra pineta, gettando sguardi a destra e a sinistra, in cerca del villaggio. Le mie scarpe di tela si inzupparono in un attimo, e facevano ciak ciak ciak. Sembrava che si lamentassero. Almeno aveva smesso di piovere, e le nuvole andavano pian piano lacerandosi e mostrando qua e là brandelli di un cielo che pareva rinvigorito da tante ore di riposo.
Arrivai al villaggio “Le Dune” dopo un cammino di cinque minuti. Finalmente. C’era voluto un giorno intero di viaggio, era quasi sera. Timoroso, con il cuore che mi batteva all’impazzata, mi insinuai nel cortile, gettando uno sguardo alla piscina circondata di pietre. Sentii una morsa stringermi alla gola: era l’angoscia. Di colpo mi resi conto di tutti i chilometri che mi separavano da casa, e fu terribile. Varcai la soglia della hall con l’atteggiamento remissivo del condannato a morte condotto sul patibolo.
Di raccontare il resto della storia non ho voglia, anche perché il Requiem di Mozart è finito da un pezzo. Del resto, il mio soggiorno alle “Dune” durò appena una settimana, nonostante l’incontro con un amore finalmente corrisposto e la conoscenza di una coppia valdostana che in casa non aveva la televisione e alla figlia di quattro anni dopo cena leggeva l’Odissea. Quello stile di vita assurdo, forsennato non faceva per me. Poi mi stava sul cazzo il capo animatore, un viscido cocainomane malato di sesso, e la nostalgia di casa era troppa, insopportabile. Comunque quell’esperienza, per quanto breve, mi è servita. Mi ha insegnato che non posso allontanarmi da Nettuno. Le mie radici – e le radici tengono in vita un organismo – sono qui, e anche quando me ne vado solo per qualche giorno l’angoscia mi divora. Inoltre mi ha insegnato che non posso amare le donne che mi si concedono, che corrispondono il mio sentimento, ma solo quelle che lo ignorano, che mi ignorano. Per questo motivo sono destinato a restare per sempre solo, e non me ne lamento. La mia vita è questa.
Anche scrivere questo racconto mi è servito. Scrivendo mi sono infatti definitivamente reso conto di una cosa che sospettavo già da molto tempo: nella vita di un uomo le persone sono come oggetti che si perdono.

In provincia , , ,

Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

Precedente In provincia – L’estate Successivo In provincia - L'avventura