In provincia – La fortuna

Come ogni altro pomeriggio, Alessandro raggiunse la casa dell’amico Giovanni in sella alla sua bicicletta blu, e si fermò davanti al cancello sgommando. Una nuvoletta di polvere si alzò dalla strada sterrata, disperdendosi presto nell’aria. I due ragazzini erano come fratelli. Erano stati in classe insieme all’asilo, alla Casa del Sole, dalle suore, dove si erano conosciuti, e ora stavano in classe insieme alle elementari. C’era da scommetterci che avrebbero fatto insieme pure le medie. E forse addirittura pure le superiori.
Senza scendere dalla bicicletta Alessandro suonò il citofono.
«Sì? Chi è?», rispose dall’altra parte la voce squillante di Rosa, la madre di Giovanni.
«Sono io, Alessandro».
«Ciao Ale, ti mando subito Giovanni».
«Grazie».
Dopo qualche istante d’attesa, che Alessandro passò osservando, con il capo inclinato da una parte, una lucertola assopita nel sole, comparve Giovanni, trascinando fuori a fatica la sua bicicletta rossa. Giovanni era bassino, magrolino, tutto il contrario di Alessandro, alto e già ben formato. È strana la natura, spiritosa: Alessandro era destinato a restare per sempre così com’era allora, mentre Giovanni avrebbe spiccato il volo, sfiorando, con grande sorpresa di tutti – tanto più che i suoi genitori erano tutt’altro che giganti -, il metro e novanta.
«Sei pronto?», domandò Alessandro all’amico con un tono di sfida.
«Certo che sono pronto», rispose Giovanni, risoluto, dopo essere balzato sul sellino.
Giovanni abitava in una stretta traversa di via della Liberazione, a un passo dall’ingresso del poligono. I due iniziarono allora a scorrazzare per le vie interne di Cretarossa, quelle meno frequentate dalle macchine, tra palazzi multicolore stracolmi d’estate e semideserti d’inverno. Ovviamente gareggiavano. Se le strade erano piane si lanciavano in volata come consumati velocisti, se invece erano appena appena in salita si staccavano dalla sella e iniziavano a scalare, con tanto di telecronaca, imitando il loro idolo delle due ruote: il pirata Marco Pantani.
Dopo un’ora buona di corse forsennate, di sfide al cardiopalma vinte ora dall’uno ora dall’altro, esausti e tutti sudati, i capelli appiccicati alla fronte e le magliette bagnate, Alessandro e Giovanni decisero di andare a riposarsi in riva al mare. Seduti in panchina su quel piccolo giardinetto che sta sopra la spiaggia libera che separa il Bellavista dai Sette fiori blu, le bici puntate sui cavalletti, i due ragazzini chiacchieravano, mentre attorno a loro si muoveva al rallentatore qualche vecchio sorretto dal bastone. Era aprile, le giornate andavano via via allungandosi e il sole si riscaldava. In spiaggia c’era già qualche temerario che prendeva il sole oppure passeggiava a piedi nudi nell’acqua. Un paio di trattori borbottavano rastrellando la sabbia e disegnandoci sopra linee uniformi.
«Devo farti vedere una cosa», disse Alessandro all’amico tirando fuori dalla tasca della tuta, rattoppata all’altezza del ginocchio con uno smile, una lettera tutta stropicciata.
«Che roba è?», domandò Giovanni incuriosito, afferrando il pezzo di carta.
«Una lettera di Ilaria. Me l’ha data Daniela oggi, prima di uscire da scuola», spiegò Alessandro asciugandosi con una manica della maglietta il sudore sulla fronte.
«E che c’è scritto?», chiese l’amico osservando la lettera piegata in quattro.
«E leggila», lo esortò Alessandro.
Giovanni allora aprì con cautela quel foglio di carta a righe strappato da un quadernone e iniziò la lettura. La calligrafia di Ilaria era ampia e tondeggiante, sinuosa. Qua e là risaltavano piccoli cuoricini rossi. Era la classica lettera d’amore.
«Vuole mettersi con te!», esclamò Giovanni al termine della lettura.
«Già…», sussurrò Alessandro sforzandosi di contenere la soddisfazione.
«Che fortuna… Ilaria è proprio bella…», commentò laconico Giovanni restituendo il preziosissimo foglio all’amico.
«Ilaria è la più bella», puntualizzò Alessandro, che di Ilaria era cotto. Quelle parole della bambina gli avevano regalato una gioia immensa. Era pronto a tutto per lei.
«Devi essere proprio felice», disse Giovanni puntando lo sguardo addosso all’amico.
Alessandro avrebbe voluto rispondergli che quello era il giorno più bello della sua vita, ma si trattenne. Non voleva fare la figura del pappamolla.
«Sì…», si limitò a rispondere con un’aria di sufficienza.
«Ma te l’aspettavi?», gli domandò poi Giovanni.
«Sì…», rispose, ancora una volta evasivo, Alessandro. In realtà no che non se l’aspettava. Pensava di non essere all’altezza di Ilaria, e moltissima della sua felicità derivava proprio dalla sorpresa.
«Ah… beato te…», concluse il piccolo Giovanni sospirando. Anche lui era innamorato, ma della maestra Ersilia, l’avvenente insegnante d’inglese che veniva tutti i giorni da Priverno e indossava abiti succinti. Nel suo caso la distanza era davvero incolmabile, e proprio da questa impossibilità derivava la sua indolenza. Alessandro, in qualità di migliore amico, era a conoscenza della passione dell’amico per la maestra, ma quando Giovanni gliene parlava si limitava ad ascoltare. Non sapeva cosa dirgli, cosa consigliargli. Da una parte temeva che convincere l’amico a lasciar perdere potesse distruggere quell’illusione – e quando un’illusione va in pezzi le persone cambiano, spesso in peggio -, dall’altra temeva invece che esortarlo a fare qualcosa di concreto potesse metterlo in ridicolo. Così, con il suo ostinato silenzio, contribuiva a lasciare le cose come stavano, e Giovannino si limitava a sospirare di tanto in tanto mentre ammirava la maestra Ersilia muoversi in classe. Prima o poi anche lui avrebbe trovato la sua Ilaria, e tutto sarebbe cambiato.
«Devo farti vedere un’altra cosa», disse Alessandro all’amico per cambiare discorso e distrarlo un po’.
«Cosa?», domandò Giovanni, e la rinnovata curiosità gli spazzò via dal volto quell’aria afflitta.
Piegato da un lato, Alessandro tirò fuori dalla tasca una figurina.
«Guarda un po’ che ho trovato…», annunciò tutto sorridente ed eccitato porgendo l’immagine all’amico.
«Ma è… è la figurina di Ronaldo!», esclamò Giovanni afferrando con avidità la figurina del campione brasiliano.
«L’ho trovata ieri, ma non mi fidavo a portarla a scuola oggi», spiegò Alessandro mentre l’amico contemplava estasiato la sacra immagine.
«Sei l’unico ad avercela… Non l’avevo mai vista…», sussurrò Giovanni senza staccare gli occhi dalla figurina. Era ipnotizzato.
«Proprio così… A scuola non l’ha trovata nessun altro», gli fece eco Alessandro, orgoglioso.
«Certo che sei proprio un ragazzino fortunato tu. La lettera d’amore di Ilaria, la figurina di Ronaldo… Le maestre che fanno sempre vedere i tuoi quaderni a tutti», disse Giovanni sfoderando di nuovo quel suo tono di voce afflitto, rassegnato, che sapeva di sconfitta e mortificazione.
Quelle parole giunsero ad Alessandro pungenti come un rimprovero, o peggio, come un’accusa. Si sentì in colpa nei confronti di Giovanni. Lui aveva tutto, l’amico invece non aveva niente. Niente di ciò che desiderava. La maestra Ersilia era destinata a restare per sempre un sogno, l’album di figurine per sempre incompleto, i quadernoni per sempre disordinati e ignorati.
Mentre Giovanni contemplava l’immagine stretta in un angolo tra il pollice e l’indice, come fosse un’icona religiosa alla quale il fedele si rivolge per la preghiera, per una grazia, Alessandro meditava su come reagire alle parole dell’amico. Se ne restarono così, in silenzio, per un paio di minuti.
«Senti, stavo pensando…», riprese a parlare Alessandro, timidamente, la testa bassa.
«Sì?», domandò Giovanni interrompendo la contemplazione e lanciando uno sguardo obliquo all’amico.
«Stavo pensando che la figurina potresti tenerla tu», terminò tutto d’un fiato Alessandro, continuando a guardare per terra.
«Cooosa?», domandò esterrefatto Giovanni.
«Ma sì, te la regalo. Tanto io sono fortunato e la ritroverò di sicuro», disse Alessandro sforzandosi di far sembrare quel gesto naturale e disinteressato, e non un’elemosina per ripulirsi la coscienza e cancellare il velenoso senso di colpa che lo aveva stretto alla gola.
«Ma sei matto? È introvabile!», si oppose Giovanni, al quale gli occhi brillarono per l’emozione.
«Sono solo leggende. Ce ne sarà almeno un’altra in giro, fidati», replicò Alessandro, recuperando finalmente un’aria spavalda, sicura. Si sentiva più leggero e tranquillo ora.
«Grazie, amico. Da adesso qualunque cosa mi dirai io la farò», promise il piccolo Giovanni, che per la forte emozione stava per mettersi a piangere.
Alessandro non riuscì a sostenere la vista di quegli occhi lucidi, grati, devoti, e si alzò dalla panchina avvicinandosi alla bicicletta.
«C’andiamo a prendere un gelato alle Streghe?», propose all’amico, che stava accarezzando con la punta delle dita la sua figurina di Ronaldo.
«Sì. Ma te lo pago io», rispose Giovanni staccandosi dalla panchina con un salto.
I due ragazzini raggiunsero la gelateria in sella, ma senza andare forte. Del resto era vicina. Presero due coni da un euro e cinquanta, entrambi crema, cioccolato e panna, e si accomodarono sul marciapiede.
«Manca solo un mese al Giro. Io ogni mattina sbarro un giorno dal calendario, e da oggi manca solo un mese», disse Giovanni leccando con gusto il gelato.
«Sì. Papà mi ha detto che metteranno l’arrivo proprio davanti al comune», rispose Alessandro mordendo il cono. Data la sua mole, mangiava molto più in fretta dell’amico gracilino.
«Speriamo di riuscire a vederlo il Pirata…», sospirarono poi all’unisono.
Il prossimo maggio il Giro d’Italia avrebbe fatto tappa a Nettuno per la prima volta nella sua storia. I due ragazzini attendevano quel giorno da mesi con trepidazione. Per loro era come se giocassero una partita del campionato di Serie A al Masin, lo stadio comunale. E poi avevano la possibilità di vedere dal vivo Pantani. In cuor loro speravano non solo di vederlo, ma di riuscire a conquistare anche un suo autografo. Sarebbe stato difficile, ne erano consapevoli, ma ci avrebbero provato.
Terminato il gelato, decisero di tornare a casa di Giovanni. E stavolta ripresero a sfrecciare a gran velocità per le vie interne di Cretarossa. Dopo essersi dissetati con un succo di frutta bello fresco, i due ragazzi si rintanarono in cameretta, tappezzata di poster della Lazio, la squadra per cui entrambi facevano il tifo (prima della fine del campionato avevano in programma di andare a vedere insieme una partita allo stadio Olimpico). Giovanni aprì il cassetto della scrivania e tirò fuori l’album delle figurine. Raggiunta la pagina degli attaccanti dell’Inter, afferrò con prudenza la figurina di Ronaldo. Con la stessa cura maniacale di un chirurgo impegnato in un delicatissimo intervento a cuore aperto, staccò l’immagine e la impresse, adagio, nella casella assegnata al Fenomeno. Alessandro assisteva alla rischiosa operazione mordendosi con forza il labbro inferiore. Sapeva che non avrebbe mai più ritrovato la figurina di Ronaldo, che certi colpi di fortuna capitano una volta sola nella vita, ma a mitigare l’amarezza, il rimpianto, intervenne la piacevole consapevolezza di aver reso felice il suo migliore amico. E dopo questo pensiero ne seguì subito un altro, che contribuì a spazzare via definitivamente ogni dubbio: la proposta di fidanzamento della bella Ilaria.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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