In provincia – In disgrazia

«È il primo Natale che passo senza locale», mi disse Massimetto con un tono di voce malinconico, mentre fuori allo Spleen Cafè aspettavo i miei amici che erano andati a prendere da bere. Era il giorno di Santo Stefano e il freddo pungeva, nonostante maglioni e cappotti ti entrava dentro come uno spillo. Le stradine di Nettuno erano illuminate da tante lucette intermittenti sospese per aria.
Fino a qualche mese prima Massimetto, quasi quarant’anni, una bambina di cinque e una ex moglie, era il proprietario del più famoso locale della zona: l’Exodus. Poi, non so perché, era caduto in disgrazia. Si era ritrovato col culo per terra, senza lavoro e senza un soldo. Ora non passava più le sue serate dietro a un bancone affollato, miscelando cocktail a ritmo di musica reggae, ma nella piazzetta dello Spleen Cafè, in compagnia del suo chihuahua, attaccando bottone con chiunque incontrasse. Quella sera toccò a me. Era stato costretto a tornare a vivere dai suoi genitori, che grazie alla pensione gli permettevano di tirare avanti.
«E menomale… menomale che ci stanno mi’ madre e mi’ padre. Armeno ‘n letto ce l’ho. Poi m’allungano quarche lira pe’ le sigarette, pel regalo alla regazzina…».
Non si vergognava di raccontare la sua triste storia. E ad ascoltarla mi si stringeva il cuore. Mi faceva una pena… poveraccio.
«Ma a quarant’anni chi voi che te prende a lavorà? Me so fatto er giro de tutti i locali de Anzio e de Nettuno, e tutti m’hanno detto: “Come no, Massimè, se c’è bisogno te chiamamo”».
Massimetto parlava, parlava, ogni tanto richiamava il cane che si allontanava e poi ricominciava. Forse si sfogava, non lo so. Io mi limitavo ad annuire e sospirare. Che cavolo potevo dirgli?
«Te invece che fai nella vita?», mi domandò dopo avermi fatto il quadro della situazione.
«Studio», risposi, e una nuvoletta di fumo, per il freddo, mi uscì dalla bocca.
«E che studi de bello?».
«Giurisprudenza».
«Ah… voi fa’ l’avvocato…».
«È una possibilità».
Poi mi salutò scusandosi per il disturbo ed entrò nello Spleen Cafè a prendersi una birra. Affogava le sue tristezze nell’alcol, perché i genitori gli davano qualche spicciolo pure per passare la serata. Come si fa con gli adolescenti.
Massimetto sapeva davvero cosa significava passare dalle stelle alle stalle, cosa significava cadere nel fango e non riuscire a rialzarsi. Lo sapeva sulla propria pelle. Fino all’estate precedente andava tutto alla grande, poi era bastato uno schiocco delle dita per mandare tutto a puttane. Tutto era finito nel cesso. E avevano pure scaricato. Nei mesi successivi a quel Santo Stefano in cui parlai per la prima volta con lui, Massimetto non riuscì a trovare un lavoro. Ma non si abbatté e se ne inventò uno. Rimediò un traballante banchetto di legno e si mise a fare i cocktail in un vicoletto che sbucava su Piazza del Mercato, sotto casa. Senza autorizzazione, senza niente. La prima volta che lo vidi mi prese una cosa allo stomaco. Cazzo, faceva troppa pena. Non era possibile che uno come lui si fosse ridotto a un tale stato. Nessuno aveva il coraggio di dirgli qualcosa. I vigili lo conoscevano bene e non gli rompevano i coglioni, chiudevano tutti e due gli occhi facendo finta di niente. Del resto, non è che lavorasse molto. Anzi, non lavorava affatto. Eccetto un paio di amici che si sedevano lì con lui e gli facevano compagnia, tutti gli altri si vergognavano di prendere da bere in una circostanza simile, in un banchetto di legno imboscato all’ombra di un vicolo.
Eppure, se guardavi la faccia di Massimetto, lui rideva sempre. Si vedeva che dentro di sé coltivava ancora una speranza. Una speranza di riscatto, di risalita.
Una notte, era autunno e ormai il banchetto abusivo l’aveva lasciato perdere, Massimetto scivolò sulle scale di casa, batté la testa e ci restò secco, sul colpo. Così, di punto in bianco, all’improvviso, ancora una volta. La mattina seguente la madre, insospettita dalla sua assenza, lo chiamò. Sentì il cellulare squillare sulle scale, aprì la porta e… vabbè, potete immaginare da soli.
Quando mio fratello mi disse che Massimetto era morto, il modo in cui era morto, pensai istintivamente che non poteva finire in nessun’altra maniera. Un epilogo del genere era prevedibile, era già scritto. Non che io creda nella fatalità, non si tratta di questo. È che un uomo sfigato, così sfigato, non può che morire cadendo dalle scale a un passo dalla soglia di casa. E la quantità di alcol presente nel suo corpo non c’entra un cazzo, come invece sostennero le malelingue, sempre pronte a screditarti, a gettarti fango addosso, come se vivessero solo per questo.
Al funerale di Massimetto mi hanno detto che c’era tanta gente, che la chiesa di San Giovanni era strapiena. E di tutta quella folla di persone affrante, ipocrite (le esequie di un morto attirano gli ipocriti come il miele le api), solo un paio non si erano vergognate di andare a prendere un mojito nel suo triste e squallido banchetto nascosto in un vicolo buio.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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