In provincia – I mistici

Franco Baio

Franco Baio s’era bruciato il cervello a forza di drogarsi. Quei pochi denti neri che gli erano rimasti in bocca erano tutti smangiucchiati, come se li divorasse lui stesso quando aveva fame. Non ricorreva più alla droga da anni, ora beveva soltanto, ma la frittata ormai era bella che fatta. Eccetto il suo corpo sfatto – un groviglio d’ossa ricoperto da pellaccia dura – non aveva niente. Dormiva dove capitava. Sbraitava in continuazione, sembrava sempre incazzato col mondo intero. Sul volto, ricoperto da una barba incolta nerogrigia, aveva sempre stampata un’espressione furiosa. Bestemmiava il Padreterno come non ci fosse un domani, e con un’intensità tale che pareva c’avesse creduto davvero, un giorno lontano, a Dio. Però un lavoro ce l’aveva. Si fa per dire. Faceva il guardiano al cantiere navale che sta dentro al porto turistico di Nettuno. Qui una mattina lo videro imbruttire una barca a vela.
«’Sta fija de ‘na mignotta… Che cazzo te guardi, eh? Te do ‘na capocciata te sfonno, porcoddio…», gridava imbestialito all’imbarcazione che subiva impassibile gli improperi. E proprio l’altezzosa indifferenza della barca lo faceva infuriare ancora di più. Alle sue spalle gli operai e qualche pescatore si sganasciavano dalle risate. Lo incitavano a colpire.
«E mo, mo… Mo je rompo er culo a ‘sta puttana», rispondeva lui sputando dappertutto schizzi di saliva infetta.
Un altro giorno invece, lo vidi accampato alla stazione. Scendevo insieme a una turba di pendolari grigi e penzolanti, tutti indolenziti, dal treno più affollato della giornata, quello che parte da Roma Termini alle 17.42 e arriva a Nettuno, capolinea, alle 18.53.
«E mo rompeteme li cojoni!», ci gridò Franco Baio infilandosi sotto le coperte.
Mi fece ridere di gusto. Lui, un barbone senza niente, viveva molto meglio di noi pendolari miserabili, depressi, frustrati, costretti ad alzarsi alle cinque della mattina per tirare a campare. E per cosa? Per una vita perfettamente allineata a quei fottuti canoni borghesi cui ci legano contro la nostra volontà da quando siamo bambini (la chiamano educazione loro… io la chiamo servitù). Ma tra noi “normali”, o presunti tali, e un Franco Baio qualunque non c’è differenza. Tra un’esistenza passata sotto ai ponti a soffrire la fame e una passata invece sotto un tetto a ingozzarsi come maiali non c’è differenza. La sostanza non cambia. Alla fine l’esito è sempre e solo quello: la morte. E infatti Franco Baio morì da un giorno all’altro, così, senza infastidire nessuno, senza sceneggiate né isterismi.

Gnappetta

«Gnappetta stava carico de sordi, poi s’è magnato tutto», mi spiegò mio padre quando gli chiesi se conosceva Gnappetta, la prima volta che l’avevo visto, da ragazzino.
Gnappetta lo chiamavano così perché era basso, piccoletto. Era sempre, perennemente ubriaco, come se ci fosse nato, e piegato su un fianco. Non camminava, si trascinava. Il suo era il volto dell’ubriachezza. Gnappetta era la personificazione dell’alcolismo. Nella fisionomia e nello stile di vita. Il suo letto era una panchina di marmo a Piazza del Mercato. Girovagava per Nettuno importunando chiunque incontrasse, senza distinzione, e ogni sera era oggetto di scherno della gioventù più maligna. Chissà quante volte s’era scolato mezzo litro di piscio, con voluttà peraltro, scambiando quello schifo puzzolente per una birra offerta da qualche magnanimo.
Una volta c’hanno pure provato a raddrizzarlo. Un vecchio amico d’infanzia se l’era portato a casa e l’aveva rimesso a nuovo, pulito e vestito. Gli ha regalato un tetto, un letto e tre pasti sani al giorno. Ricordo ch’era sotto Natale, e che la notizia aveva fatto così tanto scalpore da finire persino sul giornale locale, dove campeggiava la bella foto di Gnappetta sbarbato, pettinato, profumato, sorridente, con indosso una camicia bianca e una giacca blu nuove di zecca. Ma il ghigno alcolico in faccia ce l’aveva sempre. Era solo leggermente attutito. E infatti non durò neppure un mese. Lo ritrovammo di nuovo su quella panchina a Piazza del Mercato, ubriaco lercio, sdraiato immobile come un morto.
Una sera stavo fuori a un locale con due amici. Si chiacchierava, si beveva e si fumava (cos’altro volete che si faccia la sera in provincia?). Ci raggiunse Gnappetta, piegato su un fianco, come al solito. Sembrava un tronco che a forza d’essere colpito dal vento assume una nuova posizione. Ci chiese una sigaretta. Tirai fuori dalla tasca il pacchetto appena comprato al distributore e gliela diedi. Non mi ringraziò. E neppure se ne andò, anzi, s’appoggiò comodamente col braccio sulla spalla d’uno dei miei due amici. Grazie al cielo puzzava meno del solito. Si vede che il pomeriggio s’era fatto il bagno a mare, e che era riuscito ancora a non pisciarsi addosso. Sennò chi l’avrebbe sopportata la sua vicinanza.
Iniziò a raccontarci una sua vecchia storia, di quand’era stato a New York. Biascicava. Si riempiva lo stomaco di parole, che divorava come se tentasse di placare la fame che lo tormentava.
«Aò, compà! A Gnu Jorke… da qua a Marco D., venti dollari!».
Noi ridevamo divertiti e chiedevamo spiegazioni, ma Gnappetta, ostinato, non faceva altro che ripetere, come un disco rotto: «Da qua a Marco D., venti dollari!».
Dopo buoni dieci minuti riuscimmo a decifrare quel messaggio criptico, quelle parole così ermetiche manco avessimo sott’occhio una poesia di Quasimodo o di Gatto. Gnappetta intendeva dire che a New York un tassista, per un tratto di strada dal punto in cui ci trovavamo al locale di Marco D., duecento metri circa, gli aveva chiesto la bellezza di venti dollari. A questo punto, incuriositi, gli domandammo cosa avesse fatto. Allora Gnappetta fece un rabbioso gesto dell’ombrello, bestemmiò San Rocco e, non contento, temendo di non aver reso bene l’idea di quel momento storico che, chissà come e perché, non era stato inghiottito dall’oblio dell’alcolismo, enfatizzò teatralmente il tutto mollando una bella pizza in faccia al mio amico che fino a un attimo prima gli era servito da appoggio. Quindi si fece accendere la sigaretta, che gli tremolava tra quelle sue labbra sottili ed emaciate, e se ne andò, confondendosi tra la folla di gente di Piazza del Mercato.

Peppe Ciavatta

A Franco Baio era stata la droga a distruggerlo. A Gnappetta l’alcol. A Peppe Ciavatta invece non era accaduto niente di simile. A trent’anni, o giù di lì, scattò qualcosa di misterioso nella sua testa, che da un giorno all’altro lo rese un vagabondo. Era un bell’uomo, conteso da moltissime donne. Ho sentito dire che in gioventù aveva persino posato per qualche fotoromanzo. E tutta la sua bellezza la conservava ancora intatta a sessant’anni suonati, vestito di stracci. Anzi, questa sua veste da barbone ne esaltava il fascino, lo amplificava. Sembrava un attore hollywoodiano che stesse interpretando la parte di un vagabondo, più che un vagabondo vero e proprio.
Alto un metro e novanta, forgiato dagli elementi e abbronzato da quel sole che mai rifuggiva, era straordinario vederlo sdraiato sul bordo del Cavone, col rischio di fare un volo di dieci metri e spiaccicarsi sull’asfalto del porto, oppure incontrarlo mentre passeggiava a torso nudo sul lungomare come se stesse sfilando a Milano su un’illustre passerella durante la settimana della moda. Se mi chiedessero d’immaginare l’Apollo del Belvedere in vecchiaia, beh, io penserei subito a lui. Sarebbe un’associazione spontanea, automatica.
Peppe Ciavatta era per Nettuno e i nettunesi un totem vivente, la coscienza in carne e ossa della città. Eccetto qualche sbarbatello straniero, tutti nutrivano un enorme rispetto per lui, un rispetto devoto, simile a quello riservato alla Madonna delle Grazie. Quando, discreto e dignitoso, s’affacciava sulla soglia di una pizzeria, ecco che subito il proprietario gli si rivolgeva come se fosse il più importante e prezioso dei clienti: «Pizzetta, Peppe?». E lui annuiva quasi vergognandosi di quella necessaria elemosina, senza dire una sola parola. Quando altrettanto discreto e dignitoso si avvicinava a un fumatore con un’educazione e un contegno d’altri tempi chiedendo una sigaretta, ecco che la mano riverente gliene porgeva due. Peppe riusciva a piegare con la sua sola imponente presenza qualunque forma di taccagneria.
Peppe parlava poco, pochissimo, come se in lui fosse ancora intatto il primordiale e autentico senso del linguaggio. Peppe era un oracolo. Poteva capitare che si esprimesse in un modo enigmatico, misterioso, quando, appostato in un angolo del Borgo, iniziava a gridare una serie infinita di «Vai! Vai! Vai! Vai! Vai! Vai! Vai! Vai! Vai! Vai! Vai!», che celavano chissà quale inconoscibile significato. In altre occasioni invece era chiarissimo, e si lanciava in durissime invettive contro l’incontrollato e suicida progresso contemporaneo, insultando con la bava alla bocca le borbottanti automobili che ingolfavano le strade del centro sporcandone i palazzi.
Ricordo che un mattino passeggiavo sotto i portici che costeggiano il Grattacielo leggendo «la Repubblica», diretto in spiaggia. Peppe, bruno come un tronco bruciato, stava sdraiato per terra e si godeva beato il fresco.
«Che dice il giornale?», mi domandò con quella sua voce cavernosa e solenne, quando gli passai affianco.
«Eh… che voi che dice, Peppe…», risposi intimorito.
«Dicono sempre le stesse cazzate», sentenziò lui girandosi dall’altra parte.
Io, che allora ero un ragazzino, me ne andai sorridendo, e compresi che le sue parole erano più vere di quelle gridate ai quattro venti su quel pezzo di carta che mi sporcava le dita d’inchiostro.
“Lui deve aver visto qualcosa che noi non vedremo mai”, pensai buttando «la Repubblica» al primo secchio senza neppure finire di leggerlo.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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