In provincia – Giuseppina

Nettuno non è solo il centro. Non è solo piazza Mazzini, con l’antica fontana dell’omonimo dio e la targa sbiadita che ricorda la rivolta contro i nazi-fascisti. Non è solo il prezioso Borgo, deturpato dalle decine di locali che lo affollano, frequentati dalla peggiore marmaglia della zona. Non è solo il comune, sciolto per mafia nel 2005, e il porto turistico. Non è solo San Giovanni, San Francesco con la pala d’altare di Andrea Sacchi, e il Santuario, dimora di Nostra Signora delle Grazie e delle reliquie della piccola Santa Maria Goretti. Non è solo il Forte Sangallo, nel quale nel 1925 venne stipulata la convenzione di Nettuno tra Italia e Jugoslavia. Non è solo Villa di Bell’Aspetto, che nel 1903 ospitò Gabriele D’Annunzio ed Eleonora Duse. Non è solo il Cimitero Americano, che raccoglie le vittime d’oltreoceano della Seconda guerra mondiale dalla Sicilia a Roma, visitato dai Presidenti George Bush e Bill Clinton, l’uno in occasione del Memorial Day del 1989, l’altro in occasione del 50° anniversario dello sbarco nel 1994. Nettuno è anche la periferia, con i quartieri di San Giacomo, Santa Barbara, Tre Cancelli, Cretarossa e, più oltre, la campagna, l’aperta campagna.
Giuseppina viveva dopo il bosco di Foglino, in una di quelle vie che hanno i nomi delle valli alpine e in cui un tempo era tutta vigna. Aveva settant’anni, da venti era vedova, e abitava da sola in una casa grossa, insieme a un vecchio cane distrutto, un occhio gigantesco fuori dall’orbita e il corpo ricoperto di piaghe disgustose. La povera bestia non abbaiava nemmeno più.
Giuseppina la notte stava sveglia come una sentinella. Aveva paura dei ladri e non ci riusciva a chiudere occhio. Dormiva tre ore dopo pranzo, e basta. La mattina usciva di casa che non erano neppure le sette. Passava a prendere la cugina, coetanea, che abitava nella stessa via, e insieme si mettevano ad aspettare la corriera che le portava giù a Nettuno, in centro.
Le due vecchie riempivano l’attesa parlando di ciò che avevano visto in televisione la sera precedente, oppure commentando la notizia di qualche recente furto avvenuto nella zona.
«Mi fijo m’ha detto che stanotte so’ annati a rubà da coso… da Franceschini», esordiva la cugina, che, abitando con il figlio, delle due era sempre la prima a sapere certe cose.
«Mortacci loro…», ringhiava a denti stretti Giuseppina, domandando poi cosa s’erano fregati.
«Tutto, pure o trattore».
«E difatti stanotte, saranno state le quattro, ho sentito li cani baccaià», ragionava Giuseppina, alla quale non sfuggiva un solo rumore. Grazie al suo udito sopraffino e alle sue veglie notturne, più di una volta era riuscita a sventare delle rapine in casa dei due fratelli che le abitavano affianco.
Poi arrivava la corriera, le due donne si accomodavano ai primi posti e scambiavano qualche parola col conducente, un cinquantenne che sbavava dietro alle ragazzine che accompagnava a scuola, informando pure lui del furto. L’uomo inveiva contro i ladri, sicuramente zingari o rumeni. A detta sua erano sempre loro, «che je potesse pijà ‘n corpo do stanno mo».
Più l’autobus si avvicinava al centro e più si riempiva di ragazzi, quasi tutti diretti ad Anzio, al liceo classico o a quello scientifico, sull’Ardeatina, dove la corriera terminava la sua corsa, proprio davanti alla Madonnina del Bottaccio. Ma le due donne scendevano prima, molto prima, alla stazione di Nettuno, a meno che dovessero ritirare la pensione, e allora si facevano lasciare alla posta di Cretarossa. Innanzitutto se ne andavano al cimitero, a trovare i rispettivi mariti e parenti.
Dalla stazione salivano su per via Cavour e poi svoltavano a destra, in via Santa Maria. Da lì la strada al cimitero era praticamente tutta dritta, un chilometro buono, che le due donne reggevano alla grande. Tra le lapidi se ne stavano un’oretta. Cambiavano l’acqua ai vasi, spuntavano i fiori, spolveravano i marmi e spazzavano per terra. Mica pregavano. Del resto, avete mai visto una donna pregare mentre rassetta casa? E in effetti le tombe dei loro coniugi e dei loro genitori erano per Giuseppina e la cugina dei prolungamenti delle loro case. Magari nel frattempo incontravano qualche commare, con la quale scambiavano quattro chiacchiere. Si parlava quasi sempre di morti.
«Lo conoscevate voi chio munello che s’è morto l’artra sera?», attaccava bottone la commare.
«No», rispondevano all’unisono Giuseppina e la cugina.
«Era de San Giacomo».
«Teneva l’anni de mi’ nipote», diceva Giuseppina.
«Ventiquattr’anni», le faceva eco la cugina scuotendo la testa.
«Ma com’ha fatto?», domandava poi Giuseppina.
«Eh… je piaceva core… La gente che s’è fermata a aiutallo s’è ustionata, perché la maghina ha preso foco», spiegava la commare.
«Me l’hanno detto. E m’hanno detto pure che quanno l’hanno tirato fori ancora parlava», interveniva la cugina.
«Ma stava messo male… C’aveva tutte e due le gambe spezzate e in petto era tutto aperto», puntualizzava la commare con la soddisfazione di chi è a conoscenza dei dettagli, anche quelli più macabri.
«I funerali li fanno domani, ve’?», chiedeva Giuseppina.
«Sì, alla mezza. A Sa’ Rocco», rispondeva, informatissima, la commare.
«Sai che ci starà… Poveracci i genitori…», concludeva la cugina.
Uscite dal cimitero, le due donne riprendevano la via del centro. Se era giovedì facevano un salto al mercato a fare la spesa, sennò compravano ciò di cui avevano bisogno – e ogni giorno avevano bisogno di qualcosa – in qualche negozietto nei dintorni della piazza. Poi all’una riprendevano la corriera e tornavano a casa.
Giuseppina pranzava davanti alla televisione. Si addormentava prima sulla sedia, con la testa penzoloni, e poi si sdraiava a letto. Verso le cinque si alzava, si sciacquava al volo la faccia rugosa e stropicciata, e se era inverno accendeva il camino con qualche pezzo di legno rimediato in giro per la campagna, se invece era estate annaffiava le piante in giardino, inveendo rabbiosa contro quel suo cane distrutto che le gironzolava attorno mugolando.
I giorni di Giuseppina passavano tutti uguali, identici, spiccicati (solo la domenica faceva eccezione, perché la corriera non passava ed era costretta a starsene tutto il giorno a casa). Non se ne curava, perché evidentemente così doveva essere. Fin quando prima o poi sarebbe morta, e allora quel cimitero nel quale passava un’oretta al giorno sarebbe diventata la sua casa, e non solo un prolungamento di essa.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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