In provincia – Acqua

Mi dà fastidio. Sì, mi dà fastidio che mia madre si disperi tanto, e pianga in continuazione. D’accordo, è morto suo padre, ma aveva novant’anni, che diamine. E non ha neppure sofferto. Ieri sera si è addormentato e non si è svegliato più. Magari toccasse a me una fine del genere. Sdraiarsi a letto, chiudere gli occhi, forse addirittura sognare, e non riaprirli più. Non esiste una morte più dolce, serena e conciliante. Non che a me non dispiaccia, sia chiaro, mio nonno era per me un vero e proprio eroe, ma esiste una soglia del dolore che, in determinate circostanze, non dovrebbe essere superata, altrimenti si scivola nell’autocommiserazione, una delle forme più sottili e sgradevoli di egoismo. Ma scusate, chi perde un genitore quando è ancora un bambino, o peggio, un adolescente, cosa dovrebbe fare? Come dovrebbe reagire? Qualcuno obietterà che un individuo più è giovane, più è forte o incosciente, a seconda dei casi, ma non si tratta di questo. Si tratta piuttosto del rapporto, sbagliatissimo secondo il mio punto di vista, che la stragrande maggioranza dell’umanità ha con la morte. Io mi sforzo, mi spremo le meningi fino a farle sanguinare, ma non riesco proprio a capire perché l’uomo consideri la morte un evento così negativo, così terribile. La morte è l’unica vera liberazione dal dolore, o quantomeno da tutti quei piccoli, ma pungenti e velenosi fastidi quotidiani che costellano la vita di un uomo e contribuiscono a renderla ancor più miserevole di quanto già non sia. La morte è consolazione.
D’accordo, il mio è un caso particolare, sono un nichilista, per me l’esistenza non ha un senso né un valore, e da anni ho deciso che morirò suicida, a meno che ovviamente non intervenga prima il caso a porre fine ai miei giorni. Ma sono certo che un approccio diverso alla morte, tappa naturalissima che non ha niente di terribile, anzi, possa rendere la vita una cosa migliore, sicuramente più dignitosa di quanto non sia a queste condizioni. Con la morte dovremmo imparare a conviverci. Se fossi al posto di mia madre, non sarei triste o addolorato per la morte di mio padre, ma felice. Macché, lei è un giorno intero che piange, e piange, e piange… E questo suo pianto ininterrotto mi irrita. Vorrei dirle di smetterla, ma non lo posso fare, perché sono sicuro che si scatenerebbe il putiferio, e non ho assolutamente la voglia di complicare ancora di più le cose, di rendere tutto più penoso.
È mezzanotte, e ho sonno, ma non posso andare a dormire. Più di questi dieci minuti di pausa che mi sono ritagliato sgattaiolando in cameretta, non posso concedermi. C’è da consolare mia madre e perfezionare qualche dettaglio per il funerale di domani. Già mi chiamano. E io intanto penso alla morte, come ogni altro sacrosanto giorno, perché non conosco un pensiero che sia più consolante di questo, e invidio mio nonno.

***

Questo pomeriggio c’è stato il funerale. Di tanti suoni, uno me lo sento ancora nelle orecchie: il ronzio del trapano che ha chiuso per sempre la bara, quella lunga bara di rovere con Cristo crocifisso sopra. Vanitas vanitatum et omnia vanitas. A che scopo?
Dopo averla sigillata, i becchini hanno caricato la cassa sul carro funebre. Allora è iniziata la parte più sgradevole e umiliante di tutta questa storia: il corteo dalla casa di mio nonno alla chiesa. Da via Talenti, una stradina che sta alle spalle della posta centrale, a San Giovanni, la più vecchia delle chiese di Nettuno, dentro al Borgo. Un tratto breve, ma penoso. Quelle strade bloccate per causa nostra, quegli occhi numerosi puntati addosso, degli automobilisti spazientiti, dei negozianti e dei passanti curiosi. C’era chi si segnava, e chi invece faceva gli scongiuri. Piovigginava, e l’odore dell’asfalto bagnato pungeva le narici. Accanto a mia madre, subito dietro al carro funebre, camminavo a testa bassa. Datemi pure del miserabile – tanto lo siamo tutti, indistintamente -, ma io in quegli attimi provavo vergogna. Una vergogna che mi rodeva nel profondo. Procedevo adagio, anche se avrei voluto correre, fissando l’asfalto reso scivoloso e profumato dalla pioggia, guardandomi attorno di tanto in tanto, ma di sottecchi, sperando di non incontrare nessuno che mi riconoscesse. Sarebbe stato troppo penoso incrociare in una simile circostanza lo sguardo di un mio coetaneo.
Che bisogno c’era di quella sfilata? Io queste cose non le capirò mai. Non si dovrebbe fare così tanto rumore, non ci si dovrebbe esporre in pubblico. Non è dignitoso. Dovremmo essere tutti più sobri.
In chiesa poi, la mia irritazione è giunta al culmine. Il trionfo dell’ipocrisia… Ipocrite le parole del prete. Ipocrite le facce dei presenti, contenti sotto sotto di partecipare esclusivamente in qualità di spettatori. Durante la funzione mi voltavo, e sui loro volti falsamente affranti scorgevo una soddisfazione maligna, che gli derivava dal non essere nei panni di mio nonno o di mia madre. I peggiori di tutti erano i vecchi. Fissavano la cassa da morto e lo loro facce raggrinzite, macabre sembravano tagliate da un ghigno che diceva: «Eh, mio caro Mimmo… tu hai stirato le zampe, mentre io sono ancora vivo…». Ipocrite quelle note strimpellate dalla chitarra. Gliel’avrei spaccata in testa a quel fottuto musicista. Ipocrite infine quelle condoglianze a mia madre, a mio padre, a me e a mia sorella. Fuori dispensavo sorrisi e ringraziamenti, mentre dentro covavo un odio feroce. Per un attimo ho avuto la tentazione di salire sull’altare, ma di salirci proprio sopra, coi piedi, e lacerare le palpebre di quegli ipocriti. Avrebbero attribuito quel colpo di testa al forte shock per la morte di mio nonno.
«Povero ragazzo… Era così legato al nonno…», avrebbero commentato scuotendo le loro testoline onniscienti.
Meglio lasciar perdere.
Al cimitero fortunatamente ci siamo andati in macchina, perché diluviava. L’estate è proprio finita, e ne sono felice. Le giornate si accorciano, le cicale finalmente la smettono con quel loro canto funebre, le temperature si abbassano – ah, si torna a respirare – e già mi sembra di sentire nel naso l’odore consolante dei primi camini accesi.
Durante la tumulazione mio padre ha discusso con uno dei becchini. Stava per mettergli le mani addosso, e mi sono dovuto mettere in mezzo per fermarlo. Quel parassita della morte, proprio mentre la bara veniva infilata nel fornelletto, dove da anni giace già mia nonna, se la rideva al cellulare. Dopo un paio di sguardi furiosi, da cane da combattimento, mio padre non c’ha visto più e l’ha preso per il bavero. Se non fossi intervenuto io, che avevo fiutato il pericolo, lo avrebbe massacrato. Negli occhi del becchino ho visto il terrore. Del resto mio padre era grosso il triplo, e con quelle sue mani enormi, da meccanico, lo avrebbe spappolato.
Proprio mentre la tomba stava per chiudersi del tutto, mia madre ha lanciato dentro un pacchetto di sigarette pieno, sigillato. Nonno era un fumatore accanito, irriducibile, e qualche giorno fa, quasi sentisse la fine vicina, quasi avesse il presagio della sua morte imminente, ci aveva detto che gli sarebbe piaciuto portarsi con sé nella tomba un pacchetto di Marlboro rosse, le sue sigarette preferite, per non restare senza. Mamma aveva riso di gusto. Tutti avevamo riso di gusto. Io questa mattina mi sono ricordato di quelle parole. Allora sono andato dal tabaccaio sotto casa, ho comprato il pacchetto e l’ho dato a mamma. Lei mi ha abbracciato e ho sentito una sua lacrima cadermi sulla spalla. In quell’istante ho capito quanto per lei fosse importante suo padre, e quanto forse io sia stato ingiusto e spocchioso, sì, soprattutto spocchioso, a pensare e scrivere quelle cose ieri.
Terminata la sepoltura, non sono andato subito a casa con i miei genitori. Sono rimasto una mezzoretta al cimitero, passeggiando tra le lapidi lavate dalla pioggia. Mi sentivo un po’ come Gabriel Conroy nel racconto I morti di Joyce. Anche la mia inutile persona, protetta dall’ombrello nero, si dissolveva a poco a poco in una dimensione incolore, impalpabile, e con me tutto questo mondo solido, nel quale quegli innumerevoli morti da cui ero circondato, avevano vissuto, o perlomeno avevano creduto di vivere.
Non ho mai desiderato tanto la morte come in quella mezzora tra quelle tombe sterminate battute dall’acqua.
Finalmente tutto è finito. Sono le due di notte e io mi sento stanco. Sono andati tutti a letto: mia sorella, mio padre, mia madre, che è crollata. Sento il vento fischiare e la pioggia battente infrangersi contro le mura. Dicono che sarà una perturbazione lunga e violenta. Lo spero. Come spero che mamma superi in fretta questo trauma, e che le fonti delle sue lacrime si siano prosciugate questa sera. Magari lascerà fare le sue veci alle nuvole.
Ma ora basta scrivere, basta cianciare. Questa notte posso addormentarmi nel modo che più mi piace, e che aspettavo da mesi: cullato dalla pioggia.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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