Il peso dei legami – Seconda parte – Voces clamantes in deserto

Dell’origano non c’è traccia. La scamorza è stato facile rintracciarla – nel banco frigo, vicino al latte -, mentre dell’origano non c’è traccia. Carlo, inviato dalla madre, sono dieci minuti che gira a vuoto nel supermercato. Ma perché non chiede informazioni ai commessi, vi chiederete. Perché Carlo è entrato in quella preoccupante fase in cui relazionarsi con un suo simile, anche per la cosa più insignificante, è un’impresa enorme, che richiede uno sforzo sovrumano, erculeo, e per di più suscita imbarazzo. Per questo motivo si trascina per i corridoi, scruta tra gli scaffali. Senza nessun risultato. Possibile che in questo supermercato non abbiano un angolo dedicato alle spezie? Inverosimile, anche se si tratta di un supermercato di periferia. È Carlo a fare cilecca, a mancare il bersaglio. Aguzza lo sguardo, scruta, ma può forse fidarsi del suo sguardo, di quel suo sguardo spento, smorto, che arranca sulla pagina e più che afferrare le parole si lascia trascinare in una spirale di umorismo paradossale?
La scamorza, fresca e non affumicata, secondo gli ordini, che stringe nel pugno non si intiepidisce, ma resta gelida. Perché gelido è Carlo, gelido come un morto. Si trascina per i corridoi, esasperato. Ma in questa condizione di vana ricerca potrebbe trascorrere l’eternità. Se ciò che raccontano i preti fosse vero, tutto sommato sarebbe un buon affare, non trovate?
Perché… perché si affannano in questo modo? Non li comprenderò mai. Eppure ho voluto essere come loro. Ho fallito. Non ho chiesto altro che di essere conforme a loro, ma hanno respinto la mia domanda. Sono troppo presente a me stesso, so troppe cose per poter essere come loro. Dal peso dei legami mi sono lasciato schiacciare. Questo stesso peso ho tentato di accrescerlo, affinché la sepoltura fosse ancor più sicura. Invano. E dopo il fallimento il vuoto mi sembra ancora più vuoto, il Nulla ancora più Nulla e dovrei smettere di chiamarlo perché appiccicargli un nome non ha senso. Nominarlo è una forma di resistenza che non mi appartiene più, e che forse non mi è mai appartenuta. In esso precipito e tanto basta. Precipitare in esso quando si ha ancora un corpo: triste, macabra ironia. Soprattutto macabra. Come quel prete nero che saliva le scale nella sala umanistica della Biblioteca Nazionale a due a due. Là dove tentavo di dare forma intelligibile a ciò che è inintelligibile per definizione: esso. Nero nel lungo abito e nel colore della pelle. Di bianco aveva solo il colletto e i denti. Marroni le palme delle mani. Lo guardavo come si guarda un simbolo inquietante. Crede di sapere, lui. Ma allora cosa ci sta a fare curvo sui libri? Se avessi avuto solo un briciolo di fede, anche solo un briciolo, un sospetto, avrei studiato teologia. Sarei diventato un grande teologo. Due facce della stessa medaglia: la sostanza non cambia. Ho tentato scioccamente di urtare molte delle migliaia di meteore che mi sono passate accanto durante la mia orbita. Non ci sono riuscito. Ho sempre commesso qualche macroscopico errore di calcolo che mi ha negato il contatto. Del resto in matematica non sono mai stato bravo. Ma sono mai stato bravo in qualcosa? Non sono neppure capace di scovare un barattolo di origano in un supermercato. Potrei chiedere, sì, ma è così complicata la loro lingua. Terzo corridoio, in fondo a destra. Ma non esiste nessun fondo e nessuna destra, nessuna superficie e nessuna sinistra. Non abbiamo prospettiva né profondità. Siamo sagome di cartone trascinate e strappate dal vento.
Carlo si porta una mano alla faccia e la strofina, come un lavavetri impalato a un semaforo strofina il parabrezza di un’auto senza che nessuno glielo abbia chiesto. Gli passa accanto e lo sfiora una donna che borbotta tra sé:
– Che cavolo preparo per cena?
Tutta questa sterminata quantità di cibo mi infastidisce. Più delle persone che si muovono in essa. A cosa diavolo serve? Produrre, produrre, produrre in sovrabbondanza per sfamare miliardi di stomaci che non chiedono altro di essere sfamati. Ma c’è qualcosa, una sola cosa, che in loro abbia senso? È forse chiedere troppo. Che abbia almeno valore? Una cosa sola. Non la trovo. Neppure la fame. Che differenza c’è tra loro e i loro polli ingozzati negli allevamenti intensivi? Petti smisurati, osceni, immondi. E che differenza c’è tra loro e i loro pesci cui somministrano antibiotici preventivi? Quando gli antibiotici non avranno più nessun effetto? Ma cosa me ne frega. Io allora sarò polvere, e da un pezzo. Procreate e sfamate i vostri pargoli, ma senza curarvi del loro avvenire. Ma se non ve ne curate voi, posso forse curarmene io? Il miglior padre è quello che non ha messo al mondo figli. Il miglior scrittore è quello che non ha versato una sola stilla d’inchiostro. Il miglior oratore è il muto e via di questo passo all’infinito. Ho messo in discussione tutto ciò che loro hanno costruito in millenni. Tutto. E non solo ho messo in discussione, ma ho distrutto. La Storia non può niente contro l’uomo che se ne frega. Contro l’uomo che vede le crepe e le sfrutta per abbattere l’immenso edificio. Ho affondato la punta velenosa del mio piccone negli interstizi che si illudevano fossero invisibili ed è crollato tutto. Più in fretta di quanto immaginassi peraltro. Ed è bastata una forza modesta come la mia. Basta sempre quando si sa dove colpire. Ora mi ritrovo solo davanti a questo sterminato cumulo di macerie che mai nessuno smaltirà. Sono stato un terremoto. E dopo tanta distruzione come ho potuto pretendere di essere ammesso nell’umano consorzio? Pretendevo di ricevere la mia tessera d’iscrizione a questa lega di birbanti e di malvagi. Sono stato uno sciocco. Loro riconoscono i loro distruttori, al primo sguardo. Hanno un fiuto sopraffino per questo. Ed è già molto se tollerano la mia presenza tra di loro. Ma sono io a non tollerare più la mia presenza. È una sprezzante dimostrazione di superiorità la loro grazia. È solo per questo che non danno inizio a un processo che susciterebbe clamore ai quattro angoli del mondo e scandalo e indignazione unanimi contro di me. Cosa accadrebbe se mi arrampicassi sulla cassa e gridassi loro tutta l’insignificanza e l’insensatezza della vita? Verrei neutralizzato all’istante dalla guardia giurata che impedisce di entrare nel supermercato con gli zaini, e rinchiuso in qualche struttura. Un ospedale psichiatrico? Già immagino la diagnosi: esaurimento nervoso, depressione. Bla bla bla. Siamo nell’epoca in cui i profeti vengono ritenuti folli e i folli ritenuti profeti. Ma i folli ritenuti profeti oltreché falsi profeti sono pure falsi folli. Hanno tutti uno scopo ben preciso: rimpinguare le proprie tasche.
All’improvviso Carlo ha un’illuminazione. Nel bel mezzo di tanta pochezza – bel si fa per dire, ovviamente – potremmo addirittura definirla una vera e propria epifania. Si batte la mano sull’ampia fronte e si strappa con forza da quel maelstrom nel quale stava sprofondando.
Il bancone degli affettati! Perché non mi sono spinto fino al bancone degli affettati ma ho girato a vuoto per ore e ore – ore?! – tra gli scaffali?
Carlo marcia a spron battuto verso il bancone degli affettati. Incrocia una commessa, una bella ragazza bruna dal volto pieno e sorridente, e la ferma.
– Chiedo scusa, un’informazione. Le spezie si trovano davanti al bancone degli affettati, proprio davanti al bancone degli affettati, vero? – domanda alla giovane con esaltazione.
– Sì… – risponde interdetta la commessa.
– Grazie. Stavo diventando pazzo. Sono ore che giro a vuoto, – le dice Carlo riprendendo subito dopo la sua marcia trionfale.
Davanti allo stretto e lungo scaffale delle spezie, Carlo prova una sottile gioia. Ecce origano! Afferrato il piccolo barattolo, si dirige verso la cassa. Paga e finalmente esce dal supermercato. Attraversa la strada e si infila in macchina. Pioviggina. A Carlo viene un’idea: dare un’occhiata al mare. Con questo tempo deve essere agitato. Dal supermercato il mare è distante poche centinaia di metri. Decide di lasciare la macchina lì e muoversi a piedi. Procede lentamente, poi però inizia ad accelerare, in modo progressivo, un passo dopo l’altro, fin quando, con sua grande sorpresa, si ritrova a correre. E, direttamente proporzionale alla frequenza dei suoi passi, la pioggia aumenta. Carlo corre e ora diluvia. E c’è qualcosa di bello nel correre a perdifiato sotto la pioggia battente e inzupparsi fino alle mutande: una straordinaria sensazione di libertà. Carlo lo sa, lo sente, e sorride. Si sente leggero. Le gambe gli prudono, come se, sopra di esse, avesse un formichiere. Non correva da anni. E non pensa a niente, finalmente, gode solo della sua leggerezza.
Carlo intravede il mare, gli si avvicina a grandi falcate, divora in pochi secondi la ripida discesa che porta alla spiaggia, con il rischio di schiantarsi a terra, ma è troppo leggero per cadere. Le piume e le foglie non cadono, fluttuano. Giunto a riva si ferma, e di colpo cessa anche la pioggia. Piegato in due per lo sforzo, Carlo respira a fatica. Si lascia cadere, in ginocchio. Le gocce d’acqua, miste alle gocce di sudore, scivolano sul suo volto e precipitano sulla sabbia bagnata. Con le mani rosse per lo sforzo appoggiate sulle cosce sottili, prosciugate, sconvolte da quella corsa insensata, Carlo osserva il mare. Non è affatto agitato, ma calmo, perfettamente calmo. Un immenso pavimento nero, e guardandolo così è facile illudersi di poterci camminare sopra.
Carlo sente una voce femminile chiamarlo alle sue spalle, rimproverarlo, ma con dolcezza.
– Carlo! Carlo! Ma dove vai? Ma che fai? Guardalo, si è buttato per terra. Alzati, che così ti sporchi i pantaloni nuovi, li rovini subito!
– Mi alzo, mamma, sì, ora mi alzo, – risponde Carlo tra un respiro profondo e l’altro, sorridendo.
– Carlo Ottaviani, che non ti vengano in mente strane idee. Sarai tu a seppellire me e non il contrario. Giuramelo, – gli ordina la voce, e questa volta con un tono perentorio, autoritario.
– Mamma, io non ti ho chiesto di nascere, – prova a difendersi Carlo, di nuovo serio, tentando di sfuggire a quel giuramento di cui sa e teme le conseguenze.
– Ma io ti chiedo di vivere, – ribatte la voce, sommessamente, pregandolo.
– Mamma, non ho la forza per trascinare certi pesi, e lo sai bene, – le sussurra Carlo.
– Ed è qui che ti sbagli. È qui che, nonostante l’erudizione e le due lauree, ti sei sempre sbagliato. Noi non abbiamo peso, siamo solo voci.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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