Il peso dei legami – Intermezzo – Via Crucis

Prima stazione

Scuola materna alla Casa del Sole, all’angolo di via Firenze. Nella classe di suor Rita, la più alta e magra. Occhiali dalla montatura leggera sul naso adunco, dantesco. Vive ancora? Avrebbe voluto anche mia sorella con sé, ma mamma scelse per lei la scuola pubblica. Perché per me abbia scelto una scuola privata gestita dalle suore non so. Ogni mattina la preghiera nella cappella buia e fredda dell’istituto. Silenzio al cospetto del grande crocifisso in legno. Ho io mai pregato? Ma può forse pregare un bambino? Oppure a pregare davvero sono solo i bambini? Lasciate che i bambini vengano a me, perché di questi è il regno dei cieli. Le scorribande nella piccola pineta durante la ricreazione. Io che svelo ai miei compagni di classe l’inesistenza di Babbo Natale, perché avevo riconosciuto mio cugino dalle scarpe. Disilluso dall’infanzia. Grossi sacchi pieni di giocattoli sotto la veranda, davanti al portone. I sacrifici di mamma per riunire tutta la famiglia di papà. Finiva sempre con qualche zio ubriaco. Il pranzo nella mensa, poi il riposino in classe, sui banchi. Le serrande abbassate, la penombra innaturale. La schiena già curva e la testa appoggiata sulle braccia incrociate. Sembravo Harry Potter con quel caschetto e quegli occhiali rotondi dalla montatura blu. Li conservo ancora nella loro custodia originale, arancione fosforescente. Come conservo ancora il ciuccio, nel cassetto dei calzini, insieme con il crocifisso della prima comunione. Cimeli privi di valore. Li osservo, li sfioro come se non fossero mai stati miei. Mi ricordano con una crudeltà che rasenta la depravazione tutto il tempo che mi è scivolato addosso. Immagine mobile dell’eternità… Avevo una fidanzata: Elena. Fui Menelao o Paride? Ora Elena è un’artista, dipinge ed espone. Vive in Germania. Il padre, impiegato dell’Enel, anni fa si candidò a sindaco di Nettuno per Rifondazione Comunista. Racimolò una percentuale misera, poi svanì dalla scena politica locale. Di tanto in tanto mi capita di vederla, Elena, quando torna a casa. Ho sempre la tentazione di rivolgerle la parola. Ti ricordi di me? Sono Carlo Ottaviani, all’asilo siamo stati fidanzati. Le corse a perdifiato nella piccola pineta tenendoci per mano. Elena non è cambiata molto, anzi, non è cambiata affatto. Non ho avuto alcuna difficoltà a riconoscerla dopo tanto tempo. I lunghi capelli ricci, come il padre. Il corpo magro, essenziale. Gli occhi curiosi e ridenti. Le labbra sottili. Ti ricordi di me? Sono Carlo Ottaviani, all’asilo… So che ora dipingi. Da sempre desiderio un mio ritratto, sai? E per farci cosa? Non basta uno specchio per sputarsi in faccia?

Seconda stazione

La nascita di Lucia fu il secondo trauma dopo la mia di nascita. Gli occhi strappati dalla luce, le palpebre lacerate per sempre. I polmoni bruciati dall’aria, carbonizzati. Dove mi trovo? M’hanno torto a questa vita con l’inganno, se l’avessi saputo non sarei mai nato. Si nasce piangendo si muore ridendo. Così dovrebbe essere e così per me sarà, perché molto semplicemente, ma non semplicisticamente, il non-essere è meglio che l’essere. Filippo Ottonieri e poi Philipp Mainländer, nato Batz. Dimandato e che nascano gli uomini, rispose per ischerzo: a conoscere quanto sia più spediente il non esser nato. Per ischerzo mica tanto. Il sentimento del Nulla, che risucchia tutto, come un buco nero. La vita è un’insensata parentesi tra due infiniti nulla. Per chi non si uccide la vita è un vizio o un abitudine. Eccetera. L’ultimo profeta dell’umana miseria. Insomma, nata Lucia non ero più solo. Una volta provai a soffocarla, un’altra proposi di metterla in lavatrice invece di farle il bagnetto. Se ne ride ancora oggi, quasi trent’anni dopo. Eppure lei mi adorava, mi cercava, mi bramava. Vedendomi tornare a casa da scuola si agitava tutta in un convulso orgasmo affettivo. Mi chiamava e tendeva le sue braccine spiegazzate verso di me. Io la ignoravo. Qualche settimana fa l’ho sognata di nuovo bambina. Giocavo con lei come non ho mai fatto nella realtà ed estasiato esclamavo: è questa la Lucia che amo! Perdonami. La notte in cui nacque mi deposero nel letto di zia Giuseppina e zio Bernardo. È stato lui a insegnarmi quel modo bizzarro con cui ancora oggi mi allaccio le scarpe, al contrario. Per ischerzare fece esplodere vicino al mio orecchio una busta di carta, di quelle dove si mette il pane. Piansi a dirotto, spaventato. E da allora presi a piangere a ogni boato. I tuoni, le cannonate durante le esercitazioni al poligono militare, i fuochi d’artificio alla festa della Madonna delle Grazie. Costringevo i miei a scappare. Era buono zio Bernardo, ma era pure un alcolizzato. Tutti così. Stroncato dalla cirrosi epatica, a sessant’anni. Quando ancora non abitava vicino a noi, in campagna, ma giù a Nettuno, partiva con la sua Vespa verde tutti i giorni, qualunque fosse il tempo, per venirmi a trovare. Tutti i giorni. Buono, sì, ma quel vizio maledetto. Quando mi allaccio le scarpe alle volte mi ricordo di lui. Quando scoppiano i fuochi d’artificio mai. Non ho più paura.

Terza stazione

Ogni estate passavamo almeno un mese in Sicilia da nonno Peppe e nonna Anna, i genitori di mia madre. Abitavano in un’enorme casa di pietra, in collina, nella provincia di Enna. Quella camera al primo piano, con il grande armadio bianco che occupava tutta la parete di fronte al letto, dove mi sistemavano ogni volta, mi metteva una paura fottuta. Impiegavo intere mezzore per addormentarmi. Ne vedevo di tutti i tipi, di tutte le forme e di tutti i colori. Poi però era bello svegliarsi all’alba con lo scampanellio del gregge di pecore che passava sulla strada seminando migliaia di piccoli escrementi sferici simili alle olive. Dopo la colazione correvamo da nonno, che lavorava la terra. Coltivava di tutto. Abbeverava i suoi gioielli vegetali – proprio così li chiamava, gioielli – grazie a una sorgente naturale dalla quale l’acqua sgorgava sempre fresca, anche quando il sole bruciava implacabile, accompagnato dal canto monotono e inesauribile delle cicale invisibili. L’acqua si raccoglieva in una grande vasca di pietra pullulante di libellule, la gebbia. Una volta ci cascai dentro. La melma fino alle ginocchia. Non avevo mai provato prima una sensazione di disgusto così forte. La stessa sensazione che provo ogni giorno davanti alla televisione: siamo sporcizia. I miei nonni materni si erano trasferiti in Germania in cerca di fortuna, come molti. Mamma è nata lì, in un paese impronunciabile vicino a Stoccarda. Nonno Peppe aveva trovato lavoro alla fabbrica della Mercedes. Nonna Anna invece è nata a Buenos Aires. Loro cittadini del mondo, io nel mondo ovunque a disagio. In giardino, tra un fico d’india e l’altro, un’edicola di pietra lavica proveniente dall’Etna conteneva una piccola Madonna vestita d’azzurro. Morto nonno Peppe per un tumore ai polmoni, quasi vent’anni fa, non siamo più andati in Sicilia. Hanno venduto tutto, e nonna Anna si è stabilita definitivamente a Nettuno, ma vorrà essere seppellita giù, accanto al marito. È un suo diritto e dovremo rispettarlo. Non so da quanti anni mette da parte i soldi per il suo funerale, il trasporto e tutto il resto. Una quota fissa dalla pensione misera: la tassa della morte. Se continua così avanzerà qualcosa pure per noi. Novantenne in forma smagliante: vive da sola, fa tutto da sola. Io sono un verme nelle mani di Dio, mi ha detto un giorno. E noi ancora qui a farci domande. Masturbazione intellettuale fin quando saremo completamente ciechi. Oh Dio veglia sui tuoi vermi e dona loro una morte serena, magari nel sonno. Chiudere gli occhi e non aprirli più. Nessun dolore. So già che non comprenderò le lacrime di mia madre alla morte della sua di madre. So già che invidierò nonna Anna alla sua morte. E sarà forse proprio l’invidia a donarmi quell’espressione di costernazione di cui tutti mi chiederanno conto.

Quarta stazione

Alle scuole elementari ero un piccolo genio: i quaderni mostrati ai bambini delle altre classi, un eccellente dopo l’altro. Un omino di successo, insomma. E oltre che nello studio anche nell’amore. In quinta sono riuscito nell’impresa di conquistare Ilaria, la più bella della scuola. Voleva persino baciarmi. Me. Mi aspettava in classe durante la ricreazione, dietro l’armadio, ma stavo giocando a pallone, e non potevo proprio smettere di prendere a calci quella sfera ricavata da un intero quaderno appallottolato e tenuto insieme da un’altrettanto intera bobina di scotch per pacchi, quello marrone. La prima di un’interminabile sequela d’occasioni perdute che si protrae fino ad oggi. Il rimpianto rende aulici. Ogni pomeriggio dopo la scuola andavo a casa di Lele. In sella alle nostre biciclette scorrazzavamo per le vie di Cretarossa imitando il nostro idolo su due ruote: il pirata Marco Pantani. Quando mostrai a Lele la lettera in cui Ilaria mi chiedeva di fidanzarmi con lei, ci rimase male. Io avevo tutto e lui niente. Era innamorato della nostra insegnante di inglese, la maestra Ersilia, che ogni giorno veniva da Priverno e indossava abiti succinti: pantaloni di pelle attillati e neri come la notte. E neri come la notte erano i lunghi capelli lisci. Seno prosperoso. Il sospiro di Lele mi trafisse come un’accusa. Mi sentivo in colpa. Per ripulirmi la coscienza gli regalai l’introvabile figurina di Ronaldo, il primo, quello vero, il fenomeno. Non ho mai reso una persona così felice come in quel giorno. Era primavera, e qualche temerario prendeva già il sole a torso nudo in quel lembo di spiaggia libera tra il Lido Bellavista e I sette fiori blu. Era l’anno in cui il Giro d’Italia, per la prima volta nella sua storia, faceva tappa a Nettuno. Inoltre, prima della fine del campionato contavamo di andare a vedere la prima partita della nostra Lazio all’Olimpico. Sognavamo di vedere Pantani e di conquistarne l’autografo. Lo intravvedemmo appena sulla linea del traguardo, proprio davanti al comune. Gridammo il suo nome con tutto il fiato che avevamo in gola, tesi tra l’entusiasmo e la disperazione, ma non si voltò. E avvicinarlo per l’autografo fu impossibile. Io allora avevo tutto mentre Lele non aveva niente, ma grazie a me quell’anno riuscì a finire l’album di figurine Panini, mentre la mia casella numero 119 è rimasta per sempre vuota. Quell’album lo conservo ancora, gelosamente peraltro, come una preziosa reliquia. Il primo campionato del nuovo millennio, il secondo scudetto nella storia della Lazio. Con Lele lo festeggiammo allo stadio: il cuore in gola, l’attesa infinita, la gioia improvvisa. Io avevo tutto e lui niente… È incredibile come siano cambiate le cose nel corso degli anni. Un confronto tra noi due oggi risulterebbe impietoso. Io sono restato fermo a quel pomeriggio d’inizio primavera, Lele invece è andato avanti. Sapevo fin troppo bene che non avrei mai più trovato la figurina di Ronaldo. E quando Lele la appiccicò, con attenzione chirurgica, sulla casella numero 119 del suo album, fui trafitto dal rimorso. Mi consolai pensando a Ilaria, dalla quale mi separai per sempre alla fine della scuola. Non l’ho mai più rivista. Deve essere diventata una donna bellissima. Deve aver fatto perdere la testa a molti uomini, chissà. Ero un omino di successo. Un omino lo sono rimasto, il successo deve essere morto con Marco Pantani.

Quinta stazione

Quello delle scuole medie fu un periodo buio. Scuola Ennio Visca in via dell’Olmata, in pieno centro di Nettuno. Ogni mattina mamma mi lasciava all’incrocio di via Santa Maria e via Cavour e me ne andavo a piedi. Al ritorno prendevo l’autobus. Maledetto sviluppo precoce. Avevo già la barba e suscitavo stupore e orrore. In molti ridevano di me. Un giorno inviai Lele come messo amoroso da Giulia, la procace Giulia, di cui mi ero invaghito. Questa fu la sua risposta, accompagnata da una sonora risata:
– Ma chi, la scimmia?
Del resto Giulia faceva parte dell’élite studentesca, mentre io appartenevo alla classe degli sfigati. Lele faceva la spola tra questi due mondi inconciliabili. Sapeva adattarsi bene nell’uno e nell’altro. Camaleontico. Alle medie conobbi Toni, l’unica nota lieta perché in lui trovai un altro amico sincero. Gli altri iniziavano a uscire, in sella ai loro luccicanti motorini. Iniziavano a baciare. Io pensavo solo allo studio e al pallone, e fu proprio grazie al pallone se non affondai del tutto. Il problema dei precoci è che si esauriscono presto. E infatti sono rimasto così com’ero allora. Alle elementari ero il più alto di tutti dopo Lele, lungo come la Quaresima già alla nascita. Oggi sono il più basso. Se avessi dieci centimetri, solo dieci centimetri in più conquisterei il mondo. Balle. Cesare, Napoleone, Leopardi, Riina. Ma l’altezza è mezza bellezza. Che brutto periodo quello delle scuole medie. Almeno agli esami uscì la traccia sulla globalizzazione, alla quale avevo lavorato già durante l’anno. Il voto massimo: ottimo. Anche Lele e Toni. Indimenticabili le professoresse. Severissima la Segneri, di italiano e storia. Piccola, corti capelli biondo cenere. Un concentrato di cattiveria. Adorava infierire sugli intelletti deboli. Sadica. Li faceva sentire delle nullità, senza alcuna pietà. Pedagogicamente sbagliato? Forse, ma gustoso. Una volta domandò all’ottuso Colucci, il bullo ripetente, l’anno della scoperta dell’America.
– 1942, – rispose il disgraziato.
– Bravo, Simone, bravo, si vede che hai studiato, – gli disse la Segneri sorridendo.
Colucci arrossì dalla testa ai piedi e si fece piccolo piccolo per la gioia. Stava toccando con mano la prima sufficienza della sua vita in storia. Un’illusione. La Segneri prima ti rendeva felice e poi ti abbatteva.
– Ignorante! Braccia rubate alla terra! 1492 e non 1942, idiota!
Io dentro di me godevo. Il bullo finalmente umiliato, schiacciato come un verme. Oh Dio veglia sui tuoi vermi. Altra professoressa indimenticabile la Policarpo, quella di matematica. Fumava almeno tre pacchetti di sigarette al giorno. Puzzava di fumo già alle otto di mattina. Denti sfatti, pelle grigiastra. Una ciminiera vivente. Ìcchese tale che ìcchese. Poi la Marcantonio, professoressa di inglese. Calabrese piuttosto.
È alle scuole medie che ho imparato che la vita è tutta una dura cosa. E non ci fu bisogno di nessuna professoressa.

Sesta stazione

Delle ventotto estati della mia vita quindici ne ho passate tra gli ombrelloni gialloblu del Lido Bellavista, lo stesso stabilimento dove andava Lele. Lui in prima fila, noi in quarta. Non abbiamo mai navigato nell’oro. Ancora oggi dormo con i calzini ai piedi, retaggio dell’infanzia, quando a casa non avevamo ancora i riscaldamenti e il camino non bastava per questi grandi spazi. Al mare facevamo una sola cosa dalla mattina alla sera, interrompendoci appena un’ora per il pranzo: giocare a pallone. Avevamo una vera e propria squadra, di cui ero il numero dieci e capitano. Capitano lo sono stato in tutte le squadre nei miei dieci anni di carriera con il Nettuno calcio. Nel rettangolo di gioco mi sentivo un leone. A brutto muso contro tutto e tutti, senza paura. E per me il calcio era soprattutto calci all’avversario più che al pallone. Erano belle le sfide in spiaggia contro i bulgari e i romeni, davano e prendevano mazzate senza fiatare, mentre i romanini non facevano altro che piagnucolare. Venivano a Nettuno in vacanza, ma dov’erano l’inverno quando a Nettuno per le strade deserte c’era solo la morte? Una volta ho fatto a botte con uno di loro. Gli ho fracassato il grugno con un cazzotto, ma avrei voluto frantumargli il cranio con una mazza di legno vomitata dal mare. Mi hanno fermato, mi hanno fatto ragionare. Avevo sete del suo sangue. Giocavamo a pallone tutti i giorni tranne uno, il quattordici agosto. Dovevamo organizzare il falò. C’era chi teneva il posto e preparava la buca, chi faceva la spesa, chi raccattava qua e là la legna. Calava la notte e rubavamo le pedane degli stabilimenti, con il rischio di farci massacrare dai guardiani dell’Est grossi come gorilla che giravano tra gli ombrelloni fino all’alba con le loro lampadine tascabili. La notte di ferragosto la costa dalla lega navale al Santuario ero uno spettacolo. Centinaia di falò sparsi. Tra la notte di Valpurga e il girone dantesco, come il quindicesimo episodio dell’Ulisse. Musica tecno al massimo del volume, risse, droghe sintetiche, fiumi d’alcol, pozze di vomito, ubriachi privi dei sensi sparsi sulla spiaggia come cadaveri. Il bagno di mezzanotte illuminati dai bagliori dei fuochi d’artificio, di tutti i fuochi d’artificio di Nettuno e Anzio. Alla ricerca della donna perduta, ma erano tutte accoppiate quella notte, e l’amarezza più che annegata nell’alcol affumicata nella droga. Con Lele compravamo sempre una decina d’euro di marijuana per l’occasione. La fumavamo sugli scogli lasciati liberi dai pescatori. Pesci liberi di sguazzare senza dover temere. Era ferragosto anche per loro, giustamente. All’alba con gli ultimi spiccioli rimasti facevamo colazione al bar e compravamo il Corriere dello Sport, che leggevamo sotto la statua della Madonna nella piazza antistante il Grattacielo. Poi Lele se ne tornava a casa e io restavo solo. Era sempre troppo presto per chiamare i miei e farmi venire a prendere. Per un giorno che potevano dormire di più, poveracci. Aspettavo che scoccassero almeno le undici. Di nuovo a casa, mi buttavo sul letto, sfinito, scricchiolante di sabbia. Giusto un paio d’ore di sonno prima del lauto pranzo e di un nuovo pomeriggio al mare passato a tirare calci alle gambe dell’avversario più che al pallone.

Settima stazione

E chi se l’aspettava. Chi se l’aspettava che Marta non sarebbe andata via con Federica, ma sarebbe rimasta sola con me, nella mia stanza, sdraiata sul mio letto, accanto a me. Eppure, per la prima e ultima volta nella mia vita, seppi cogliere l’occasione. Avvicinai il mio volto al suo e i nostri sguardi si incontrarono. Non avevo mai guardato una donna in quel modo, e mai in quel modo una donna mi aveva guardato. Sorridemmo entrambi, e fu un sorriso infantile, certo, forse anche sciocco – Dio, non avevamo che sedici anni, anzi, Marta ne aveva ancora quindici -, ma pieno di gioia e di speranza. La luce era spenta, eppure non eravamo al buio, perché la luna era piena e la serranda alzata. Ci baciammo una volta. Poi una seconda, una terza e una quarta, in rapida successione. Avevamo già baciato entrambi – il mio primo bacio l’ho perduto nelle pieghe di una memoria che inizia a sfilacciarsi -, ma non così, con un tale ardore. Spinsi le mani oltre, in regioni del corpo di una donna che prima di allora avevo solo sentito nominare. Le labbra le seguirono, invidiose. Sentivo Marta ansimare, gemere, balbettare parole nell’incomprensibile linguaggio del piacere. Non credevo di possedere un tale potere. Ci fermammo a notte fonda, abbracciati, o meglio, avvinghiati l’uno all’altra, come edera.
– Non credevo di piacerti, – le sussurrai baciandole la fronte madida di sudore.
– E invece mi piaci, – mi rispose Marta con quel suo tono di voce sempre così sicuro, tanto da risultare beffardo a volte.
– Ne sono contento.
– E pensare che quando sono arrivata in classe vostra mi piaceva Toni.
Quella sua confessione mi infastidì, tanto più che Toni era uno dei miei migliori amici. Decisi di cambiare discorso e non dare corda al mio malumore. All’epoca sapevo farlo.
– Sai, è la prima volta che faccio certe cose con una ragazza, – confessai.
– Anche per me è la prima volta, – mi fece eco Marta, e le sue parole mi riempirono di felicità. Ora sapevo di aver lasciato dentro di lei una traccia indelebile. Nella sua memoria con il tempo la mia immagine si sarebbe di certo sbiadita, ma non sarebbe scomparsa. Questo pensiero mi fece sorridere.
– Perché ridi? – mi domandò Marta, sorridendo a sua volta. Era come uno specchio, e per un uomo riflettersi in una donna è la sola cosa che conta, la sola cosa che lo faccia stare davvero bene, in pace con se stesso e con il mondo.
– Perché sono contento di essere il primo -. Stavo per scrivere di essere stato.
Mi baciò.
Restammo dieci minuti buoni senza parlare, accarezzandoci. Fui io a rompere quel silenzio perfetto. Non avevamo bisogno di niente di più di ciò che avevamo.
– Faresti l’amore con me? – le domandai, scioccamente.
– Sì, – mi rispose senza indugio, senza pensarci su neppure un attimo, e quella risposta positiva così immediata mi lasciò di stucco.
– E tu? – mi chiese a sua volta.
– Io… così, senza protezioni… no… – balbettai goffamente.
Era un vero scrupolo di coscienza il mio, ma non solo. Il suo sì, lo confesso, signori giurati e stimati membri della corte, mi fece paura. Attenuanti? Allora non potevo immaginare che avrei rimpianto quell’occasione per tutta la vita. Allora credevo che di simili occasioni con Marta se ne sarebbero presentate a decine, addirittura a centinaia.
A quel mio grande rifiuto Marta reagì con un forte abbraccio. Forse si rese conto di quanto fosse stata avventata. Di certo si accorse della mia paura e della mia onestà. E sono altrettanto certo che in quell’istante, proprio in quell’istante, comprese di non potersi legare a me per troppo tempo. Le donne anche a quindici anni sanno già tutto, mica come noi uomini, che per imparare la lezione dobbiamo sbatterci il grugno infinite volte fino a frantumarcelo.
– Domani non avrò il coraggio di rivolgerti la parola, forse neppure di guardarti, – la avvisai.
– Be’, credo che sia normale, – mi rincuorò Marta accarezzandomi la guancia. Sebbene fosse una pallavolista, o forse proprio per questo, non so, aveva delle mani bellissime. Era la parte del suo corpo che preferivo. Del resto in una donna le mani sono la prima cosa che guardo. Sono stato capace di rompere con una ragazza che mi adorava solo perché si mangiava le unghie.
– Non voglio che ti offendi, per questo te l’ho detto, – spiegai afferrandole la mano e premendomela forte sulle labbra.
– Tanto mi offenderò lo stesso.
– Ma domani sera saremo ancora qui, vero?
– Forse.
Quel suo forse era in realtà un sì, un nuovo sì, lo compresi subito. E fu straordinario addormentarsi accanto a lei con la certezza che a quella incredibile notte ne sarebbe seguita un’altra, almeno un’altra.
L’indomani mattina andai subito da Lele, che doveva essere il mio compagno di stanza, e gli raccontai tutto, nei minimi particolari. Lele beveva con avidità le mie inaspettate parole. Perché non solo tra me e lui, ma in tutto il nostro gruppo io ero il primo a dormire con una donna e a esplorarne così a fondo il corpo. Di nuovo il più precoce. Di nuovo un rapido esaurimento.
– Non ci posso credere… – balbettò Lele al termine del mio racconto, guardandomi con gli occhi spalancati e grattandosi il testone riccioluto.
Quando ci ritrovammo con tutti gli altri, Lele volle togliersi la soddisfazione di essere lui ad annunciare loro il prodigio. Io poi presi la parola per raccontare di nuovo tutto, nel dettaglio. E tutti pendevano dalle mie labbra, tutti mi guardavano increduli, come mi aveva guardato Lele qualche minuto prima. Il mio ego gongolava.
Quel giorno facevamo tappa a Venezia. Non potevo chiedere di trovarmi in una città migliore dopo la mia prima notte passata con una donna. Camminavamo per i canali inondati di luce e brulicanti di gente e con Marta ci lanciavamo sguardi. E quei suoi sguardi sempre accompagnati da sorrisi mi erano necessari e mi provocavano una sensazione strana, mai provata prima e mai più provata dopo: un misto di gioia, soddisfazione, attesa.
Dopo pranzo ci fermammo in piazza San Marco. Defilato dalla classe, me ne stavo seduto in disparte sotto ai portici. Fumavo e osservavo con curiosità la Basilica orientaleggiante.
All’improvviso ebbi come un’epifania: mi resi davvero conto, per la prima volta, di ciò che era accaduto la notte scorsa con Marta. E nella bocca sentii di nuovo il gustoso sapore della sua saliva, sulle dita il suo liquido viscoso, nel naso il suo profumo, negli occhi rividi il suo corpo sinuoso contorcersi, danzare per il piacere.
– E tutto questo è capitato a me… tutto questo è capitato a me, – mi ripetevo con un sussurro, tra un tiro e l’altro.
Non so per quanto tempo me ne restai così, pieno solo di lei. A un certo punto però percepii la sua presenza più forte. Il sole si era oscurato, un corpo mi stava facendo ombra. Alzai la testa e me la ritrovai davanti. Per un momento mi mancò il respiro, il vuoto nello stomaco.
– Non ho resistito alla tentazione, – mi disse sorridendo.
Avrei voluto saltarle addosso, baciarla, ma non mi mossi, limitandomi ad afferrarle la mano.
– Te ne stai sempre da solo a pensare, pensare…
– È che ho imparato da poco e mi alleno in continuazione per non dimenticare come si fa.
– Scemo. A che pensavi?
– Indovina?
– Non lo so, – e invece sì che lo sapeva, ma voleva sentirselo dire. La accontentai.
– Stavo pensando a te, come non ho mai pensato a nessun’altra.
Marta non disse niente, ma mi strinse forte la mano e non avrebbe potuto esprimersi più chiaramente.
Dopo qualche secondo mi voltai verso la classe. Le sue amiche ci guardavano e sorridevano.
– Gli hai parlato di noi? – le domandai.
– E tu? Hai parlato di noi a Lele e agli altri?
– Sì.
– Anch’io.
– Be’, saranno invidiose.
– Da morire… – mi sussurrò Marta, divertita.
– Carlo, stasera pensavamo di andare in discoteca. Ti va di venire?
– Mi va di stare in camera con te.
– La notte è lunga, possiamo fare entrambe le cose.
– Non me ne frega niente della discoteca, – ringhiai e mi alzai di scatto, afferrandola e trascinandola in un angolo, al riparo da occhi indiscreti. La baciai con foga, come se dalla sua bocca dipendesse la mia sopravvivenza.
– Ma sì… chi se ne frega della discoteca, – sussurrò Marta dopo aver ripreso fiato, una sfumatura di rossore serotino sul volto.
– Ottaviani! – risuonò la voce squillante della professoressa di matematica.
– Arrivo! – risposi dopo aver baciato Marta per un’ultima volta.
A Venezia non ci sono più stato, e per scelta. Grazie a Marta di Venezia conservo un ricordo ideale, che sono certo andrebbe in frantumi in un istante se vi tornassi ora, a dodici anni di distanza. Venezia non sarebbe più la città magica teatro del mio primo amore, ma una città lugubre, malsana, malata, appestata, come me l’ha raccontata Thomas Mann.
Sul battello di ritorno me ne stavo vicino a Lele. A poppa, i gomiti appoggiati alla ringhiera, fumavamo Marlboro Light, le mie prime sigarette, perché le fumava mio padre e gliele rubavo di nascosto. Osservavamo il profilo di Venezia allontanarsi ogni metro di più.
– Che città strana… – borbottò Lele come pensando ad alta voce.
– Ci vivresti? – gli domandai.
– Mah… non so.
– Io no. Va bene che siamo nati e cresciuti al mare, ma il fatto di non essere sulla terraferma dopo un po’ mi angoscerebbe. Mi capitava anche da bambino quando andavo in Sicilia. A un certo punto realizzavo di trovarmi su un’isola e allora mi veniva una gran voglia di scappare, attraversare lo stretto e tornare sulla terraferma.
– Ho la sensazione che qualcosa di simile potrebbe capitare anche a me. Cambiando discorso, stavamo pensando di andare in discoteca stasera, visto che domani si riparte.
– Marta verrà in camera nostra anche stasera.
– Ah, ok. Allora mi toccherà dormire un’altra volta da Toni.
– Grazie, Lele, di cuore.
– E di che, al mio posto avresti fatto lo stesso. Piuttosto, prima ho visto che ti avvicinavi a una farmacia. Hai comprato…
– No, – lo interruppi, gettando la cicca in mare, risucchiata dalla schiuma del battello. – Li avrei comprati solo se me lo avesse chiesto lei. C’ho pensato, è vero, ma alla fine ho deciso così. Mica sarà l’ultima occasione, no?
– Lo spero per te.
Doccia, cena e discoteca. Per tutti ma non per me. Ingannai l’attesa guardando la televisione. Quando la accesi stavano mandando la sintesi della partita della Lazio. Me ne ero proprio dimenticato. Inconcepibile per un sedicenne malato di calcio e della sua squadra del cuore. A proposito, Marta tifava Roma ed era questo il suo unico difetto.
Bussarono alla porta e mi precipitai ad aprire.
– Ah, sei tu… – brontolai ritrovandomi davanti Lele.
– Menomale che Marta non è ancora arrivata. Ho dimenticato il portafogli.
Me ne andai sul balcone a fumare una sigaretta. Lele svanì in fretta augurandomi buona fortuna. Non gli risposi. Sono troppo istruito per essere scaramantico ma sono scaramantico.
Bussarono di nuovo, e questa volta era lei. Non mi aspettavo di trovarla così agghindata, visto che la notte scorsa si era presentata in pigiama.
– Vado anch’io in discoteca, ci vediamo dopo, – mi sparò a bruciapelo, senza neppure entrare.
– Ma… come… – balbettai deluso.
– Non fare la lagna. Anzi, ti dico una cosa: cambiati, andiamo insieme, – decise sorridendo. La mia delusione la divertiva. Anny e Roquentin.
– Però oggi avevi detto… – provai a obiettare senza troppa convinzione.
– Be’? Ho cambiato idea. Forza, sistemati.
– E va bene, va bene, mi cambio, ma tu entra nel frattempo. Guarda pure la tv.
– Sbrigati.
Marta si accomodò ingenuamente (fu un’ingenuità volontaria la sua?) sul letto e io mi fiondai su di lei. Non ci muovemmo da lì per tutta la notte. Fu la prima e ultima volta che riuscii a farle cambiare idea.
Come tutte le cose belle Marta svanì presto. Il tempo di un paio di appuntamenti una volta tornati a casa. Mi lasciai andare, completamente, tanto da rischiare la bocciatura. Alla fine me la cavai con due debiti: latino e inglese. Lele, Toni, Rico, Nino e gli altri mi fecero il lavaggio del cervello. Marta la bocciarono in terzo e se ne andò dal liceo scientifico-linguistico Innocenzo XII. Sbocciò altrove, all’istituto professionale Colonna-Gatti, ex ospedale Orsenigo dove morì santa Maria Goretti e fu ricoverato Sergio Corazzini nel disperato tentativo di combattere la tubercolosi con l’aria di mare. L’ho rivista un paio di anni fa, in treno. Ne riconobbi il profumo. Mollai il Doctor Faustus e la rincorsi. Abbiamo fatto tutto il viaggio verso Roma Termini insieme, fianco a fianco, e fu come se non ci fossimo mai persi di vista. L’avevo lasciata ragazza e la ritrovai donna. Mi ero laureato in triennale da pochi giorni e Lele e gli altri mi avevano regalato il viaggio a Parigi, dove non ero ancora mai stato. Marta invece Parigi la conosceva bene e la amava. È sempre stata molto più cosmopolita di me. Ci scambiammo i numeri di telefono, mi avrebbe prestato la sua guida turistica. Le scrissi il giorno dopo:
– Buongiorno, Marta. Quando possiamo vederci?
Questa fu la risposta:
– Scusami Carlo, ma il padre del mio ragazzo ha appena avuto un infarto ed è in gravi condizioni.
Non l’ho più vista né sentita.

Ottava stazione

E all’inizio non fu Lettere ma Scienze Politiche. Mi lasciai condizionare. Durai appena un semestre, un fallimento annunciato. CVD. Economia politica, diritto pubblico e privato, statistica. Sì, come no. Fu allora che tentai la fuga. Animatore turistico. Richiesta, colloquio, destinazione, in quattro e quattr’otto. Mi spedirono a Marina di Castagneto Carducci e quel Carducci finale mi ispirò sensazioni positive. Fu un Odissea per arrivarci. Quella stessa Odissea che la coppia valdostana senza televisore leggeva ogni sera alla figlia di tre, quattro anni al massimo. È così che si cresce un figlio. È così che lo crescerei io se cedessi anche a questo compromesso. Solito treno regionale Nettuno – Roma Termini, poi interregionale Roma Termini – Genova, infine Follonica – Castagneto Carducci. Pioveva che Dio la mandava. Doveva essersi ubriacato di birra quel giorno. I piedi affondati nell’acqua fino alle caviglie trascinando due valigie pesanti. Lamentosi ciac, ciac, ciac. Dovevo stare fuori sei mesi durai sei giorni. Presentai le dimissioni nonostante Irene. Finalmente una donna disposta ad amarmi e io la abbandonai. Un uomo ha sempre un’Itaca ma non sempre una Penelope verso cui fare ritorno. Irene mi scrisse una lettera d’addio, con una citazione finale tratta dal copione di uno spettacolo per bambini. Non la ricordo, ma terminava così: ma solo per chi saprà metterci le mani. Io le mani non le ho mai sapute mettere in nessun posto salvo rare eccezioni. E l’eccezione conferma sempre la regola, sempre. La chiamavo paglietta perché aveva i capelli del colore e della consistenza della paglia. Credeva di non sapere e di non potere più amare. Nascondeva un dramma e lo rivelavano i suoi occhi, ma non ebbi il tempo di scoprirlo, non volli averlo. Reatina: ogni t era una d. Mi prendevo gioco di lei, ma le ho voluto bene davvero. Tornato a casa, ci sentimmo per un po’, tornai persino a trovarla un paio di settimane dopo. Ospite del suo letto nel quale, sciocco o giusto ancora non so, mi infilavo ogni sera con i jeans addosso. Non ho mai profanato donne se non già pluriprofanate e vendute. Le ho sempre comprate. Che poi si comprano sempre anche se non sono in vendita, è solo un’illusione. Parole di un filosofo di strada. Mi chiamò una volta e non le risposi, mi chiamò una seconda volta e non le risposi, poi non mi chiamò più. È così che si fa, senza drammi né isterismi, senza sceneggiate. Tanto non serve a niente se dall’altra parte hai a che fare con un ramo secco strappato dal vento buono solo per essere bruciato. Che poi la fiamma ha vita breve e neppure riscalda. Fu la prima Irene. Quasi dieci anni dopo ce ne fu una seconda. Troppo scaltra per cedere alle mie lusinghe. Per nulla spaesata in questo mondo. Delusa sì, forse, ma non fino a questo punto. Delusa sì, forse, ma non disillusa. Irene prima e Irene seconda. Due regine di questo regno desolato e desolante che è il mio cuore. Questa me la potevo risparmiare. Romanticismo a basso costo. Romanticismo kitsch di cattivo gusto, grossolano, pacchiano, da romanzetto rosa, da soap opera. Eh, ma capita che dopo una vita intera passata a studiare l’Ulisse all’improvviso ci si appassioni a Beautiful. Il primo effetto collaterale dello studio è il cannibalismo neuronale.

Nona stazione

E finalmente fu Lettere. Primo esame Antropologia culturale, professoressa Cecchi. Esame scritto e orale, voto: 25. Un inizio tutto sommato incoraggiante. La mia prima bocciatura, incredibile ma vero, fu all’esame di Letteratura italiana. Dante, Boccaccio e Petrarca, le tre corone. Parafrasi di tutta la Commedia aperta a caso dal professor Montini. Inciampai su «tosto». Sarà stato l’odore forte del sigaro fumante nello studio stracolmo di scartoffie. Lo passai al secondo tentativo, quando mi toccò in sorte la parafrasi non più della Commedia, ma del Decameron.
Un uomo solo ha due alternative: o diviene pietra o si innamora di ogni donna esteticamente accettabile che attraversa il suo campo visivo. Non so quante donne ho amato all’università, e tra le più significative c’è stata una professoressa. Il mio fu un amore platonico, s’intende. Compresi Lele vent’anni dopo. Greta Milani, docente di lingua e letteratura tedesca. Inoltre poetessa. Le domandai una copia della sua ultima raccolta di versi, intitolata Flussi. Me la donò e vi aggiunse, con inchiostro nero: «5.10.2011 La poesia è un alfabeto spesso marino (liquido) ventoso (invisibile)». Fu la mia relatrice in triennale e correlatrice in magistrale. Una volta le scrissi una e-mail in cui sostenevo che il viandante di Friedrich dopo aver scoperto l’infinito vi si sarebbe gettato, perché non aveva più nessun motivo per vivere. Mi rispose garbatamente, dolcemente che non la pensava come me, che anzi quella scoperta avrebbe accresciuto di senso la sua vita, infondendogli nuovo e rigenerante valore. È stata un faro nella mia lunga e tortuosa carriera universitaria, e non la ringrazierò mai abbastanza. Tra le altre, tante cose, grazie a lei ho scoperto Kleist.
Capitolo colleghe: innanzitutto Alice. Avevamo la stessa passione viscerale per la letteratura. Non dimenticherò mai quella mattina in cui mi donò Knulp di Hermann Hesse.
– Ieri stavo sistemando la mia camera e ho trovato questo. Ho pensato subito a te. Tieni, credo che possa piacerti.
L’unico libro che abbia mai ricevuto in dono da una donna. Io ne ho seminati molti, ma senza mai raccogliere nulla. Tutti investimenti a fondo perduto. È la storia della mia vita: divulgatore di cultura mai retribuito, neppure simbolicamente, e vallo a dire ai miei. C’era una grande sintonia, eppure non mi spinsi oltre. Il motivo lo ignoro. Fonti attendibili mesi fa mi hanno parlato di un’Alice sposata residente in Svizzera.
L’altra fu Erica. Mutamento di scena, dalla razionalista città universitaria all’idilliaca Villa Mirafiori. La conobbi alle lezioni di lettorato inglese della professoressa Ferretti. Erica faceva la modella, modella curvy: una gigantessa di centottantuno centimetri, quindici in più del sottoscritto. Eppure sembrava starci, ma forse cercava solo devozione. Ce ne stavamo seduti su una panchina solitaria nel parco della villa, in cima a una collinetta. Era una ridente mattina di primavera, tutta luci, colori e cinguettii. Adesso o mai più, mi dissi. Lei era solita accarezzarmi la testa, conosceva il mio punto debole. Iniziai a baciarle le mani, mani dalle dita lunghissime, e la scalai fin sul collo. Aveva il corpo del colore e della perfezione di una statua greca, impressionante. La baciavo e lei non si ritraeva. Pregustando l’insperato trionfo, che avrebbe consegnato il mio nome all’immortalità, puntai al bersaglio grosso: due labbra carnose, leggermente schiuse per il piacere. Ma si voltò dall’altra parte. Non mi persi d’animo. Ricominciai dal basso, dalle mani, e poi su per quelle braccia marmoree lunghe come autostrade. Di nuoco il collo flessuoso e un nuovo assalto alla carnosa roccaforte. Guerresche grida d’incitamento, ma niente da fare. Stavolta scattò addirittura in piedi.
– Perché devi rovinare tutto?
Una Caporetto senza precedenti. Me ne andai a testa bassa, senza dire una parola. Eppure nei giorni successivi non mollai la presa. Mi invitò a pranzo a casa sua, in zona Casal Bertone. Ci scolammo una bottiglia di vino rosso, rubata di nascosto dalla cantina di mio padre. Dopo il pranzo ci sdraiammo sul letto. Le mie mani conobbero il suo ventre levigato, ma era ancora troppo vivo il ricordo della clamorosa disfatta perché potessi tentare un nuovo assalto alle inaccessibili labbra. Eppure… sull’autobus di ritorno, diretto alla stazione Roma Tiburtina, fui vicinissimo al miracolo. Il nostri nasi si sfiorarono, ancora un centimetro e… ma le squillò il cellulare. Non era destino. A tanto così. Erica partiva per una sfilata a Milano, e mi chiese di consigliarle un libro che le allietasse il viaggio. Proposi Il mondo come volontà e rappresentazione. Ovviamente lo pagai io.

Decima stazione

Una storia incredibile. Me ne stavo seduto con Lele, Nino e Rico nel solito locale in via Carlo Cattaneo, sorseggiando birra. All’improvviso mi sento uno sguardo femminile addosso. Sì? Avvenga che può? A qualche tavolo di distanza, una donna dai lunghi capelli biondi raccolti in una coda, guarda proprio me. Ricambio lo sguardo. Addirittura ci sorridiamo. Va avanti così per tutta la serata. Finché lei si alza e se ne va, sorridendomi per un’ultima volta. Non dico niente a nessuno, me lo tengo per me. Si tratterà di un semplice episodio, chi la rivedrà più. Del resto, non l’ho mai vista prima. Macché. Un paio di sere dopo si ripresenta la stessa situazione. Lei mi guarda, io la guardo, ci sorridiamo. Stavolta ne parlo. Mi esortano ad andare da lei. Servita su un piatto d’argento. Una donna mica può mentire così spudoratamente. A che scopo? Forse assomiglio solo a un suo fratello morto quando lei era ancora bambina. O forse a suo padre. Tremo dall’agitazione. Che fare? Attendere l’attimo buono. E l’attimo buono arriva. Si alza. La sua amica va in bagno mentre lei esce fuori, sola. Mi lancio al suo inseguimento. Cammino a lunghi passi e rischio un arresto cardiaco. Non sono mai stato così intraprendente. Ma quegli sguardi e quei sorrisi reiterati non possono mentire, a detta di tutti, il parere è stato unanime. Il precedente della bruna gigantessa non mi sovviene. Finalmente la raggiungo.
– Scusami, ma non riesco proprio a staccarti gli occhi di dosso, – le dico con una fermezza inattesa, mentre sento le guance avvampare.
– Oddio… – sussurra lei imbarazzata, scaraventando lo sguardo a terra.
È più grande di me di almeno un paio d’anni, e da qualche parola afferrata dentro al locale credo che sia madre. Nessun problema, da troppo tempo dura il digiuno. Altro che quaranta giorni e quaranta notti, e nessun diavolo a tentarmi.
Mi presento:
– Piacere, Carlo.
– Piacere, Patrizia.
La prima Patrizia della mia vita. Ci stringiamo la mano e fisso un appuntamento.
– Domani sera, alle dieci, alle grotte di Nerone. Ti aspetto…
– Va bene.
Va bene? Oh santi numi. Le auguro la buonanotte e torno dentro.
– Va bene?
– Sì, va bene.
– Ma sei proprio sicuro?
– Sicurissimo.
– Sei un eroe.
Raggiungo le grotte di Nerone con qualche minuto di anticipo. Sotto la statua dell’incendiario, inganno l’attesa fumano una sigaretta dopo l’altra. Il tempo sembra non passare mai. Le lancette dell’orologio sembrano incollate.
Finalmente le dieci. Poi le dieci e cinque, e dieci, e un quarto, e venti, e venticinque, e mezza, e trentacinque, e quaranta, e le undici meno un quarto, e meno dieci, e meno cinque e infine le undici. Di Patrizia neanche l’ombra, a meno che non si sia trasformata, per qualche assurda ragione, nella statua di Nerone. Attendo così, immobile come uno stoccafisso, fino all’una. Fumo due pacchetti di sigarette, mentre sento l’umido penetrarmi nelle ossa e infradiciarle. Me ne vado così come ero venuto: solo. Con addosso una voglia di scomparire che non potete neanche immaginare. Avevano mentito quegli sguardi e quei sorrisi. Avevano mentito, spudoratamente. Quando lo raccontai ci fu un moto di stupore generale, unanime come il consenso iniziale. Ci penso e mi stupisco ancora oggi. Lo scrupolo di coscienza di una madre? O il ricordo di un fratello perduto nell’infanzia? All’ipotesi della crudeltà gratuita mi rifiuto anche solo di pensare. Un pezzo di me è ancora lì che aspetta, sotto la statua di Nerone.

Undicesima stazione

Quel maledetto esame di lingua e letteratura latina. Bocciato per l’ennesima volta un paio di giorni dopo la patrizia delusione. Una settimana da dimenticare. Una delle tante. Aut-aut di mia madre: la prossima è l’ultima possibilità. Appello il 9 giugno ed entro il 12 consegna della documentazione per la domanda di laurea. Altrimenti kaputt al terzo anno fuori corso e a lavorare con mio padre. Me l’avesse imposto prima. In programma l’intera Pro Caelio di Cicerone, più alcuni passi di vari altri autori, lettura e traduzione. Ricorso alla nobile arte della mnemotecnica. Alla cattedra di Giordano Bruno. Imparai l’intera orazione a memoria. Quel 9 giugno attesi il mio turno sulle scale esterne d’emergenza del terzo piano della facoltà di lettere e filosofia. L’ultima occasione. Durante l’attesa pianificavo voli icarici in caso di un eventuale esito negativo.
– Dunque, Ottaviani, partiamo da Sallustio.
– Ma come Sallustio, io ho preparato la Pro Caelio.
– Ma in programma, se non sbaglio, e non credo di sbagliare, c’è anche Sallustio.
– Sì, ma…
E via un’avversativa dopo l’altra, fin quando la professoressa Berti mi concesse, grazie al cielo, di iniziare e terminare con l’orazione di Cicerone. Voto finale: 26. L’ultimo esame meglio del primo. Finalmente, dopo sei anni accademici, era finita. Il 14 luglio, alla bellezza di quaranta gradi, discussi a Villa Mirafiori la mia tesi di laurea. La discussione era prevista alle 15, ero lì dalle 9. Ero andato da solo, in treno, per l’ennesima volta. Ho passato la mattina sdraiato su una panchina, a fumare. Poi alle 14 mi raggiunsero i miei, Lucia, Lele, Nino e Rico. Ci furono momenti d’alta tensione con il presidente della commissione, il professor Ponzi, docente di letteratura tedesca. Peccato che non conoscesse Kleist. Ma l’ho messo in ridicolo davanti a tutti. La Milani dovette fermarmi perché l’umiliazione non fosse eccessiva. Io: il primo Ottaviani laureato.

Dodicesima stazione

Parigi blindata. La visitammo nel mezzo delle mattanze di Charlie Hebdo e del Bataclan. Appartamento open space a due passi da Place de la République. Io, Lele, Nino e Rico, i soliti. Mattutina indigestione di madeleine non meno pesanti perché prive di ricordi. Pompidou, Orsay. Capolavori artistici alternati a capolavori femminili.
– Me le farei tutte -. Potere dell’arte.
Otto ore di Louvre. Non dimenticherò mai il lamento di Nino nel corridoio dei Maestri italiani, dove passai mezzora a contemplare la Madonna del Diadema blu di Raffaello:
– Ragazzi, vi prego, andiamocene, che se vedo un altro quadro vomito.
Gli asiatici sono una piaga. Glieli ficcherei su per il culo quei loro fottuti cellulari. Mica guardano, fanno foto. E ti impediscono di vedere. Ammassati attorno alla Venere di Milo come formiche. Formiche infestanti. Nella sala della Gioconda la cosa meno bella è proprio la Gioconda. Ne hanno fatto pop art. Ma guardatevi attorno cazzo, c’è Tiziano!
Le puttane sfatte di Montmartre.
– Italiani!
Si vede dalla faccia. Popolo di santi, puttanieri e navigatori. I poeti sono estinti da un pezzo. Quel cazzotto a un occhio del Sacro Cuore. Indigestione di bianco. Sulla scalinata ad ammirare Parigi dall’alto. Si impone quella metallica siringa della Tour Eiffel. Gigantesco parafulmine tra le creazioni più brutte della storia del genere umano. Orribile a vedersi e ancor più a scalarsi. File chilometriche per ascendere a piedi figuriamoci in ascensore.
– Fanculo, ho fame -. Strapotere dello stomaco.
Cimitero Di Montparnasse, 1 ottobre 2015, ore 15 circa.
Indisturbato il sole brilla mentre il vento freddo accarezza le lapidi. Oscillano le chiome dei tigli conficcati ai lati dei viali. Come uno spettro stretto nel cappotto mi aggiro tra le tombe. Osservo, scruto, cerco. Penso a Bobok, sorrido. Mi indicano il punto. È là. Mi siedo su uno scalino. In questo angolo del camposanto la luce del sole non giunge. Almeno non a quest’ora. Leggo e rileggo il nome inciso come una ferita cicatrizzata nel mezzo della lapide: Charles Baudelaire. Vorrei piangere ma resisto. Lo so, Maestro, lo so che se Tu potessi vedermi in questo momento mi biasimeresti.
– Cosa diavolo fai? Vivi, perdio! Vivi! Ubriacati! Scrivi! Seduci! Che senso ha piagnucolare su un cumolo di ossa fradice? È da sciocchi. Ah, se avessi io la tua vita…
Ma so anche che la mia devozione, in fondo, ti lusingherebbe. Non è questo che volevi, che cercavi, a secoli di distanza?
Ceri consumati, squagliati, appiccicati. Sassi e biglietti sparsi. Ne prendo uno, lo apro, lo leggo. È scritto in francese e lo richiudo, lo ripongo. Ne scovo un altro, in un vaso, sulla terra umida, tra i ramoscelli di una pianta di Fiori del Male. Lo prendo, lo apro, lo leggo. È scritto in italiano. Grafia tondeggiante, sinuosa, morbida: donna. Scrivono come i loro corpi. Scrivono e si ritraggono, nude.
«11 settembre
Ce l’ho fatta, sono riuscita a venire a trovarti.
È emozionante essere qui, con te, saperti qui pur essendo tu solo spoglie, ormai polvere.
La tua anima, quella dov’è?
Questa città ne è piena, basta sapere dove cercare. In ogni cosa c’è un po’ di te, della tua bellezza, del tuo ardore.
Mi hai ispirata sempre molto e continuerai a farlo, lo so.
A te dedico questo pensiero, grande, immenso Maestro.
Spero tu stia riposando in pace. Spero che la tua anima così bella, abbia trovato pace.
Ciao Charles»
Ripiego il biglietto qua e là bucherellato, ingiallito agli angoli e me lo ficco in tasca. Riprendo a camminare tra i morti io stesso morto ma non ancora sepolto. Non fa differenza.
Musée de l’Orangerie, nella sala di Chaïm Soutine, sempre 1 ottobre 2015, ma 17.30 circa.
Mugugni… Angoscia, schiaffi, sputi. Viene voglia di inginocchiarsi e bestemmiare e gridare e strapparsi i capelli e vomitare. Grumi di colore rappreso spingono per uscire fuori, per strapparsi dalla tela e schizzare sui nostri schifiltosi grugni borghesi. Benigno sostiene che non si possa più parlare di borghesia, ma si sbaglia e di grosso. Borghesia 3.0 e l’assistente della professoressa di storia in sede d’esame ne convenne con me. Vorrei prendere a schiaffi i presenti, tutti, come Soutine prende a schiaffi me. Ancora mugugni… La puzza che esala da quell’enorme carcassa giallorossa di bue squartata appesta la sala. I petali dei gladioli sono grosse e grasse gocce di sangue appese, ciondolanti che stanno per precipitare a terra e al momento dell’impatto schizzeranno dappertutto. Come schizzano dappertutto le cervella dopo che ci si è sparati un colpo di pistola in testa – anche se si è un Uomo-Dio – e come schizza dappertutto lo sperma quando abbiamo le palle piene. Vorrei colpire queste maledette tele con calci e pugni, lacerarle, annientarle, ma sono loro a colpire me. Soutine mi prende per il culo, ride. Il delirio corre lungo le pareti come un pazzo che sfugge nudo alla camicia di forza e compie atti osceni. È un girotondo velocissimo, un tritacarne. Non so nemmeno se ciò che scrivo abbia una logica, ma chi se ne frega perché tanto la vita non ammette la logica (la logica è certo incrollabile, ma non resiste a un uomo che vuole vivere), ma solo l’angoscia e la morte e la distruzione e il Nulla assoluto. Soutine lo sa e lo grida. Lo grida dritto in faccia a me e gli schizzi della saliva velenosa mi finiscono negli occhi che bruciano, spalancandoli totalmente. Sputi che recidono le palpebre. Mi guardo attorno e sudo. La fronte è madida. I peli delle ascelle faticano a contenere i litri di sudore che sgorgano come piscio. Siamo bestie immonde. Potrei ammazzare qualcuno qui e ora conficcandogli la penna in gola. Tracheotomia gratuita. Potrei ammazzare me. Tutte le case sono inclinate e pericolanti. Tabernacoli dell’insignificanza e della vacuità. Vaffanculo Chaïm. Potrei impazzire qui dentro. Le tue tele sono autostrade che conducono dritte alla follia. È crudele rappresentare la vita per quella che è: angoscia, insensatezza, morte. Crudele, sì, ma prenderci per il culo lo è ancora di più. Nelle loro carcasse le nostre carcasse. Mi cacciano con dieci minuti d’anticipo. Vaffanculo anche a voi francesine in tailleur, porco Dio.
Parigi ti svuota, ti succhia le energie, gigantesco vampiro di granito. Torni a casa sfinito. Tornai a casa febbricitante, e deluso.

Tredicesima stazione

Alla magistrale tutta un’altra storia. Percorso netto in due anni pari pari. Irene seconda, impegnata con un avvocato eppure pronta ad assecondare i miei istinti funerei. Passammo un intero pomeriggio al cimitero del Verano, in cerca della tomba di Ungaretti. La scovai io per primo.
– Sai perché nei cimiteri si piantano proprio i cipressi? – le domandai.
– No.
– Perché le loro radici si sviluppano in verticale e non infastidiscono i morti.
Il suolo scivoloso come una pista di pattinaggio. Nei cimiteri ci sono angoli che non si asciugano mai, neppure l’estate, quando la terra brucia. Il Verano casca a pezzi, e per questo è ancora più bello. Fascino decadente. Mi insinuai in un tumulo sotterraneo, il cancelletto era aperto. A terra giacevano pezzi di intonaco. Crolli conseguenza dei recenti terremoti. La invitai a seguirmi ed ebbi la sensazione che se l’avesse fatto sarebbe stata mia, ma non discese gli scalini.
– Carlo, la morte mi spaventa, – mi confessò guardandomi con angoscia dall’alto verso il basso.
– La morte è un bene, Irene, se non addirittura l’unico bene, e il beneficio del dubbio è una forma d’educazione. Guardati intorno. Solo qui siamo tutti perfettamente uguali: Liberté Égalité Fraternité. È qui che trovi realizzate tutte le utopie della storia del genere umano. In ogni caso, mi farò cremare. È la mia ultima parola e la porte con me nel portafogli. Non si sa mai, volesse il caso…
– Cosa?
– Niente, Irene, niente. O meglio il niente.
Ma io mi domando: può una donna…? Non più di un momento, nevvero?
– Guarda un po’ qui, – e mi indicò la tomba di tale Irene Richter. Il marito morto in guerra, la seconda mondiale, il figlio in un incidente stradale sulla Pontina.
Irene era – è, non credo le sia successo nulla di grave – un’ex fumatrice. Smise da un giorno all’altro. Dicono tutti così.
– Conosci Jan Nepomucen Potocki? – le domandai.
– Mai sentito.
Attenzione, solo questi due argomenti – cipressi e Potocki – mi permettevano di considerarmi un pelo più dotto di lei. Non ho mai conosciuto una donna così intelligente e sapiente. Ma amare una donna intelligente è un piacere da pederasta, parola del Maestro.
– Discendente di un’illustre famiglia polacca, contemporaneo di grandi avvenimenti, cui talvolta prese parte direttamente, il conte Jan Nepomucem Potocki ebbe fama d’eccentrico ed erudito. Salì in pallone con l’aeronauta Blanchard, fu il primo ad annotare il linguaggio dei principi circassi durante le loro riunioni liturgiche. Frequentò i salotti parigini d’avanguardia a poi si legò ai Giacobini. Fondò una stamperia e si dichiarò contrario alla monarchia ereditaria, salvo poi comporre una farsa in cui ridicolizza con sopraffina crudeltà i democratici. Viaggiò dal Marocco fino ai confini della Mongolia. Combatté contro i Russi e divenne consigliere privato dello zar Alessandro I. Fu tra i fondatori dell’archeologia slava e scrisse un romanzo, in lingua francese, intitolato Manoscritto trovato a Saragozza. Opera tra le più singolari dell’inizio del XIX secolo, rappresenta un prezioso anello di quella catena di narrativa che, partendo dalle Mille e una notte, arriva alle sfrenate fantasie di Hoffmann e alla letteratura onirica del nostro tempo. Nel Manoscritto si snodano storie di fantasmi incapsulate l’una nell’altra come scatole cinesi, o matrioske. Lo si potrebbe definire un decamerone nero, che tuttavia si distacca dal decorativismo esteriore e gratuito dell’orrido romantico per raggiungere l’allucinante suggestione dei grandi simboli indecifrabili. In esso si ritrovano tutti gli elementi del romanticismo nero, banditi e zingare, forche e cabalisti, caverne misteriose e locande malfamate, amori scabrosi, incestuosi e apparizioni diaboliche; ma al lettore attento non sfugge come tutto questo armamentario tradizionale soggiaccia all’ambivalenza di fondo dell’autore, che, da un lato, sente l’attrazione del magico e anche del macabro, dall’altro il bisogno illuministico di liberarsene. In questa tensione intima, una forza visionaria, che crea figure e favole che ci toccano profondamente, si apre la strada in mezzo a situazioni, spesso di puro stampo libertino. Ebbene, nel 1812 Potocki si ritirò nel suo castello di Uladowka, in Podolia, da cui non esce se non per lavorare nella biblioteca di Krzemieniec. Evidentemente nevrastenico, in preda a frequenti depressioni, come se non bastasse è tormentato da dolorosissime nevralgie. Un giorno stacca la palla d’argento che sormonta il coperchio della sua teiera. Inizia a limarla, giorno dopo giorno, fin quando ha le giuste dimensioni per poter essere introdotta nella canna della pistola. Un lavoro minuzioso, certosino, che termina il 20 novembre 1815. Potocki fa benedire la palla-proiettile dal cappellano del castello e si spappola le cervella. Noi fumatori siamo proprio come il conte Jan Nepomucem Potocki.
Irene seconda concordò con me.
Fu lei, con mio grande stupore, a propormi una visita nella cripta ossario all’interno della chiesa di Santa Maria Immacolata in via Veneto. Ossa di quattromila frati cappuccini tra il 1528 e il 1870. La visitammo in un giorno di pioggia. Eravamo soli. Ci accolse il motto: «Quello che voi siete noi eravamo; quello che noi siamo voi sarete».
Lei, in piedi, la testa leggermente piegata da una parte, osserva le migliaia d’ossa che le si parano dinanzi. Lui, alle sue spalle, osserva lei. Si avvicina, adagio, senza far rumore, e le cinge la vita con entrambe le braccia. Nella cripta il suono della pioggia scrosciante giunge attutito, appena percepibile.
– In tanto nulla, tu sei l’idea che avrebbe potuto salvarmi la vita, – sussurra lui all’orecchio di lei.
Allora lei si volta, senza sciogliere l’abbraccio, e fissa con uno sguardo dolente lui, che intanto naufraga negli enormi occhi di lei, che del ceruleo della nascita conservano il ricordo in un cerchio sottilissimo visibile solo a chi, come lui, ne è a conoscenza.
Sembra che lei lo voglia baciare. Lui non ha mai desiderato niente con tanto ardore come le labbra di lei in questo momento. I nasi si sfiorano, le bocche indugiano, indecise.
– Non posso… – sussurra infine lei, con un filo di voce fragile come cristallo.
– Lo so, – risponde lui, sorridendo.
Allora lei gli getta le braccia intorno al collo, nascondendo il volto sulla spalla di lui, che si inebria del profumo delicato che emanano i lunghi capelli di lei.
– Io… – balbetta lui, indeciso se terminare o meno la frase, – io… fino alla fine dei miei giorni vivrò dell’attimo in cui tu hai avuto la tentazione di corrispondere il mio amore.
Dopo queste parole, dette tutte d’un fiato, lei si stacca da lui, retrocede di un passo e lo guarda con un’espressione interrogativa e al tempo stesso preoccupata. Le labbra le tremano, vorrebbe replicare qualcosa, vorrebbe difendersi e contraddire lui, dirgli che questa tentazione non l’ha mai avuta, ma non ci riesce. È come se avesse di colpo disimparato a parlare. Non può fare altro che scuotere la testa. In gola, invece che le parole, sente affiorare il pianto. Allora fugge via da lui, via da quella cripta piena d’ossa, trattenendo a stento le lacrime. Lui resta lì, immobile, il capo chino, morto anch’egli tra tanti morti.
– Carlo?

– Carlo?
– Cosa?
– Che hai?
– Niente, solo una fantasia.
Da qualche parte devo aver scritto di trovarmi a mio agio solo a casa. Rettifico: a casa, nei cimiteri e nelle cripte ossario.

Quattordicesima stazione

Noi Ottaviani siamo come i Karamazov. La forza terragna degli Ottaviani. Tutti uguali: grandi bevitori e fumatori. Tutti lavoratori manuali: meccanici, muratori, falegnami, idraulici, elettricisti. Io, l’eccezione: il primo Ottaviani laureato. Da dove sono uscito? Da chi ho ripreso? Ma i vizi sono quelli degli Ottaviani. Il cognome è quello, il sangue è quello. Una famiglia all’antica: dieci figli, sei maschi e quattro femmine. Tra la prima e l’ultimo un quarto di secolo di differenza. La prima, zia Giuseppina, come una seconda madre. Morti i genitori – nonno Tiberio non l’ho mai conosciuto, mentre di nonna Amalia conservo un vago ricordo, quasi una suggestione – tra molti si sono guastati i rapporti. Altro che fratelli, nemici. Accade nelle famiglie numerose. Litigi, musi lunghi, anni e anni senza vedersi né parlarsi. Caino e Abele. Con la maggior parte dei miei zii, quasi con tutti in realtà, non ho rapporti, non li ho mai avuti. I miei cugini li riconosco a stento. Stesso nome, stesso sangue, ma sconosciuti. La famiglia… Tutte vite al limite. Quest’anno, e proprio nel giorno del compleanno di mio padre, è morto il primo dei dieci Ottaviani, a causa di un tumore al cervello, che lo ha divorato nel giro di un paio di mesi. Per la prima volta dopo anni e anni tutti riuniti, nella camera mortuaria dell’ospedale che non a caso si chiama Riuniti Anzio-Nettuno. Siamo destinati tutti a nascere portodanzesi. Di zio Vincenzo, il defunto, non so molto, se non che il giorno della mia nascita fu costretto a scappare di casa a piedi per venirmi a vedere. Ero bellissimo, lo dicono tutti. Crescendo mi sono guastato, ma il mio momento di gloria l’ho avuto. C’era la ressa in corsia per ammirarmi. Mi chiamavano l’attore. La moglie di zio Vincenzo invece, zia Teresa, la chiamano strega, a causa della sua proverbiale cattiveria. Eppure dopo la morte del marito sembrava diversa, gentile, affabile. Sembrava essersi riappacificata con tutti. Un’illusione. Qualche giorno dopo la sepoltura scagliò il suo anatema: vi trascinerà tutti con sé nella tomba. Nelle vene sangue e odio. Il funerale fu celebrato nella chiesa di san Giovanni, a due passi dalla casa dov’erano cresciuti tutti insieme, stipati come conigli. Al termine del servizio funebre mi avvicinai alla strega e le feci le condoglianze. Poi mi voltai verso sua figlia, ovvero mio cugina, ma non mi riconobbe. Mi domandò chi fossi. Carlo, tuo cugino, le risposi imbarazzato. Certe cose non le capirò mai. Per la prima volta vidi mio padre piangere, a dirotto, come un bambino. Volle a tutti i costi che il fratello indossasse un suo vestito. Ma non imparano la lezione ed è questo che più mi infastidisce. Continueranno a ignorarsi, a sparlarsi alle spalle, e si ritroveranno di nuovo tutti insieme quando la morte busserà alla porta di un altro di loro. E nel frattempo continueranno a spappolarsi il fegato e a incenerirsi i polmoni. Ma non dovrei utilizzare la terza bensì la prima persona plurale. Mia madre dice sempre di aver perso le speranze con loro, e in effetti mi domando spesso dove abbia trovato il coraggio e la forza di sposare un Ottaviani. Doveva amare mio padre follemente. In ogni caso, dai miei genitori, tra i tanti insegnamenti, ne ho avuto uno che reputo il più importante: non sposarti e non avere figli. Me lo ricordano ogni volta che nei loro sguardi vedo balenare un’ombra di disgusto per una parola o un gesto dell’altro. Noi Ottaviani siamo così, la nostra maledetta forza terragna. Il corpo prima di tutto, sempre. Non ho il loro fisico robusto, non ho la loro veemenza, ma ho il loro nome e i loro vizi. Come posso permettermi di biasimarli se sono come loro? Vi trascinerà tutti con sé nella tomba. In quella dove sono sepolti nonno Tiberio e nonna Amalia non c’è più spazio, così dalla terra si è passati ai fornelletti a mezz’aria. Umiliati fino alla fine. Un buchetto angusto, umido. Poco più di una fessura. Io nella mia vita come uno scarafaggio non ho fatto altro che cercare fessure. Ma il mio cadavere non finirà in una fessura. Voglio essere cremato e lo porto scritto nel portafogli. Cenere, è giusto così. Ma, prima del mio turno, quanti Ottaviani vedrò seppellire ancora? Getto uno sguardo all’avvenire e non vedo che lutti. Tenebre tutt’intorno. Che l’anatema si realizzi è matematico, un dato di fatto, ma quando? Il tempo è relativo, tra un’ora o tra dieci anni cosa cambia? Una dose di dolori non indifferente in meno. Mi sono impantanato e non c’è nessuno che giunga in mio soccorso e mi aiuti a liberarmi. Devo fare tutto da solo. E allora basta, basta così. Carlo, Carlo Ottaviani.

L’uomo è un cimitero di ricordi.
La vita è una croce, le donne i chiodi.

Il peso dei legami , , , ,

Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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