I taccuini di Tarrou – 87

Ogni volta che, per un motivo o per l’altro, mi trovo a passare del tempo nella folla (accade sempre più di rado), mi rendo conto di come l’isolamento sia ormai diventato la mia condizione naturale, al di fuori della quale mi sento a disagio. Non a caso dopo le immersioni nella moltitudine e il confronto con gli altri, con le loro vite, con le loro idee, la tentazione di scomparire raggiunge picchi d’intensità elevatissimi e devo sforzarmi con tutto me stesso per domarla. Ecco, se il suicidio in rapporto a me stesso, nella solitudine, nella meditazione, nella serenità è una questione puramente morale, una libera e lucida scelta metafisica, in rapporto agli altri, al loro mondo, che non è mai stato né sarà mai il mio (il mio mondo è dentro di me e nei miei libri), diviene un’esigenza istintiva, fisica, alimentata dall’angoscia. Sì, lo confesso, fuori dei miei luoghi, fisici e metafisici, provo disagio e angoscia, e allora, ancor più del ritorno a casa, la morte mi appare come l’unica via di fuga. Solo con le mie certezze, con le mie verità, con i miei spettri sono perfettamente sereno e tranquillo, in pace con me stesso e con il mio destino di esclusione, di solitudine, di incomprensione, mentre a contatto con gli altri sono vittima di un’inquietudine feroce, come se mi sentissi costretto a mettere in discussione tutto, a tradirmi e distruggermi. Nelle tele d’angoscia e di terrore di Munch è rappresentato il mio stato d’animo quando mi trovo in strada, in balia dell’incoscienza, della violenza e della bestialità degli uomini, di cui confesso di avere ancora paura.

Edvard Munch, Sera sul viale Karl Johan
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