Ci sono giorni in cui mi sveglio mortalmente stanco. Si tratta di una stanchezza spirituale (la stessa della Pentesilea di Kleist quando grida: «La mia anima è spossata a morte!») che, complice un incubo, si trasmette al corpo, lo contagia, appesantendolo. I giorni che nascono all’insegna di questa mortale spossatezza psicofisica sono particolarmente bui, in essi il vuoto si fa ancora più consistente del solito, visibile, tangibile e io mi domando che ci faccio qui, perché sono ancora qui, su questa povera terra che si ritrae dentro di me, mobile buco nero: mi sento in colpa per essere ancora vivo. La mia condizione di sopravvissuto alla catastrofe della consapevolezza, mi appare come un vile tradimento verso me stesso e il mio pensiero.
