I taccuini di Tarrou – 406

È la possibilità del suicidio a ricondurre l’arpista alla ragione e alla salute:

«la possibilità di por fine di colpo e per sempre ai miei terribili patimenti mi diede la forza di sopportarli».

Dunque anche il suicidio è ricondotto a una dimensione positiva, luminosa, benefica, salutare; è motivo di rinascita e vita. In tal senso, il Meister è la più perfetta, organica, completa espressione artistica del pensiero di Goethe, della sua visione del mondo e della vita. Ogni aspetto oscuro, inquietante e distruttivo dell’esistenza umana è sconfitto e trionfa incontrastata la luce. La vita vince la morte. Nel Meister si rispecchia davvero tutto Goethe, interamente, come scrive Hesse.

La via intrapresa dall’arpista dopo la guarigione attraverso-la-morte, viene definita, coerentemente con la visione goethiana, «giusta», perché è la via della misura, che riconduce al «consorzio civile». La dismisura invece, alla quale si era completamente abbandonato l’arpista dopo la fuga dal monastero, conduce necessariamente l’individuo ala solitudine, alla disperazione e alla distruzione di sé.

Certo, alla fine del Meister l’arpista si uccide davvero, ma il suo suicidio si configura come una sorta di sacrificio che permette a Wilhelm e Natalie di unirsi. È proprio durante la presunta malattia di Felix infatti, causata indirettamente dal miserabile arpista, che Natalie fa il voto di sposare Wilhelm. Il suicidio dell’arpista conclude nel modo ideale l’opera, nel modo più perfetto e compiuto. Dalle asine al regno. Dal teatro al mondo e all’amore. L’arte è relegata alla sfera dilettantistica.

È razionalmente, diciamo pure umanamente inconcepibile il percorso di formazione tracciato da Goethe nel Meister, dagli errori alla verità, dalla contemplazione all’attività, dall’astrattezza e l’idealità alla concretezza e alla realtà, alla vita, all’amore. È inscritto in un contesto ideale che non corrisponde affatto alla realtà, alla vita. Il mondo del Meister non è il nostro mondo, non è il mondo dell’uomo, non lo è mai stato e non lo sarà mai. Quello dei Fratelli Karamazov è il nostro mondo.

Anche per questo motivo nella ricerca delle asine sono rimasto intrappolato e mi sono distrutto. Il mondo dell’uomo non sono mai stato capace di accettarlo, anzi, è proprio sulla rivolta contro di esso che ho fondato la mia esistenza, perfettamente consapevole dei rischi mortali ai quali andavo incontro. È nelle opere drammatiche e disperate di Kleist – Pentesilea su tutte – la mia natura, non in quelle pacifiche e misurate di Goethe, eccezion fatta per il Werther, naturalmente.

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