I taccuini di Tarrou – 397

Le Confessioni di un’anima bella sono un testo straordinario, reso ancor più straordinario dal contesto letterario nel quale sono inserite. Finalmente Goethe sveste i panni dello scrittore elegante, raffinato, legato alla perfezione della forma e torna all’essenziale. Non c’è una sola parola di troppo nelle Confessioni, non un solo orpello superfluo, non una sola riflessione rettorica. È un trionfo della pura sostanza, del puro essere, libero da ogni sovrastruttura ideologica e morale.

La protagonista delle Confessioni, la canonichessa, è un esempio eccezionale di libertà, indipendenza e individualità. Il suo Dio, al quale si abbandona completamente, è davvero suo, suo e di nessun altro, e il testo rappresenta il massimo trionfo della personalità.

Nell’amore, perché di questo si tratta, sempre, della protagonista per il suo Dio, ovvero, fondamentalmente, per se stessa, trovo la mia idea di amore come sentimento totale e totalizzante, supremo e indissolubile, radicale e inconcepibile. Si tratta dello stesso amore che lega Edoardo e Ottilia, ma, a differenza di Edoardo e Ottilia, l’anima bella ha il coraggio e la forza di viverlo, di infrangere le convenzioni sociali, di scardinare la morale comune pur di viverlo. Ciò che fa anche Wilhelm, almeno all’inizio, seguendo la propria vocazione artistica.

Dopo aver letto le Confessioni, Aurelie muore serena perché finalmente si avvede del proprio tragico errore: essersi autodistrutta per un amore inautentico. Il vero amore è corrisposto, coinvolge e lega indissolubilmente entrambi gli esseri, ma Aurelie, come Werther, come la sconosciuta di Zweig, non lo ha compreso – forse non aveva abbastanza fiducia in se stessa per farlo -, pagando con la vita la sua mirabile, ma vana fedeltà a un sentimento e un legame che non meritavano fede.

È questo il grandioso insegnamento che devo trarre dai miei fallimenti sentimentali. L’ho capito solo ora, leggendo le Confessioni di un’anima bella. Meglio tardi che mai. Forse.

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