I taccuini di Tarrou – 353

Dubliners

Gente di Dublino è una delle migliori rappresentazioni letterarie dell’umana miseria. La paralisi, insieme alla morte il grande tema dell’opera, vera e propria malattia mortale che affligge tutti i personaggi, persino quelli più giovani, estende i propri confini ben al di là della capitale irlandese e diventa condizione universale, che riguarda l’intera umanità. Dublino non è solo Dublino, ma il mondo intero, e i dublinesi non sono solo dublinesi, ma tutti gli uomini. La meschinità morale e spirituale, le insoddisfazioni, le frustrazioni, le sconfitte rappresentate da Joyce riguardano ognuno di noi, ci appartengono e nessuno ha la coscienza così pulita da potersi chiamare fuori, giudicare i derelitti joyciani e dire: io non c’entro. Ci siamo tutti in Gente di Dublino, in un modo o nell’altro, in una forma o nell’altra. La sostanza è quella, immutata nel tempo, perché le condizioni esteriori, i luoghi, le latitudini incidono solo fino a un certo punto: l’essenza umana, purtroppo, non cambia.

Joyce riesce in poche pagine là dove i naturalisti falliscono accumulandone a centinaia, di pagine. È questo l’unico vero realismo, scabro, essenziale, spigoloso. Joyce rappresenta davvero la vita, in tutta la sua banalità, in tutta la sua insignificanza e in tutto il suo dramma, come pochi altri scrittori nella storia della letteratura. Nella vita di un uomo non c’è mai niente di compiuto, di definitivo; procediamo a strappi, tra discorsi lasciati a metà e piccole disfatte quotidiane che ci avvelenano l’esistenza, fino al crollo definitivo, al collasso esistenziale che costituisce il grandioso epilogo di Gente di Dublino.

Siamo paralizzati, e prima di ogni altra cosa dinanzi alla morte, dinanzi a quel sanguinoso destino di distruzione e nulla che non sfuggiremmo neanche se fossimo in grado di muoverci. Anche Don Giovanni, alla fine dei suoi giorni, si ritira in monastero ad attendere la fine.

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