I taccuini di Tarrou – 352

Proust e Joyce

Proust e Joyce raggiungono i due limiti estremi della creazione letteraria.

A livello narrativo sono agli antipodi. Proust è l’autore che, meglio di ogni altro, incarna il concetto di scrittore-creatore: nella Recherche ri-crea il mondo e la vita, sottraendoli alla morte, eternandoli. Fa di se stesso un vero e proprio Dio insomma – per questo motivo, come nota Camus, nella Recherche Dio non è mai nominato, perché non ce n’è bisogno, perché è ovunque e ha nome e cognome: Marcel Proust.

All’opposto Joyce, che nell’Ulisse cancella se stesso, l’autore, Dio, si smaterializza, si disperde nei pensieri dei suoi personaggi, muore in essi, in un trionfo d’impersonalità narrativa senza precedenti. Ciò genera nel lettore un forte senso di straniamento: leggere l’Ulisse è come ascoltare le chiacchiere della gente in strada, a pezzi, a brandelli; non conosciamo chi parla né comprendiamo cosa dice, possiamo solo intuire. Del protagonista-narratore della Recherche, di Marcel, invece, sappiamo tutto: siamo suoi genitori, fratelli, amici, confidenti, amanti, figli. Quello che non sappiamo è ciò che un uomo nasconde anche a se stesso.

Insomma, i due vertici narrativi della letteratura del Novecento sono l’uno l’opposto dell’altro: l’Ulisse è l’anti-Recherche, e viceversa.

Entrambi, in ogni caso, sono dei ribelli: Joyce si ribella a tutto ciò che gli sta intorno, agli oppressori e agli oppressi, ai carnefici e alle vittime, alla tradizione e ai suoi luoghi comuni, ai suoi pregiudizi, nella società come nell’arte, e in un certo senso anche a se stesso; Proust invece si ribella al tempo, alla distruzione, alla morte, in un certo senso anche alla vita – la sua vita non gli basta, deve crearne una nuova, perfetta questa volta, dove nulla vada disperso e distrutto. Mentre Joyce si autodistrugge, lasciando completamente spazio ai suoi personaggi, Proust si eterna, meglio di uno scrittore autore di un’autobiografia.

Joyce è naturalmente predisposto alla rivolta e alla lotta, il suo temperamento è molto simile a quello di Bruno, entrambi sono eretici nell’anima e non conoscono resa, se non quella suprema della morte. Ma in certi momenti si capisce che a Joyce pesa essere venuto al mondo, pesa essere nato, e forse anche per questo motivo nell’Ulisse si afferma cancellandosi completamente dal testo – come Bruno si afferma rifiutando l’abiura e dunque lasciandosi condannare al rogo. In Proust questa disperazione non traspare, non in modo così evidente almeno. Nonostante il pessimismo, la disillusione, la rassegnazione, che attraversano, più o meno sotterraneamente, la Recherche dalla prima all’ultima pagina, in Proust c’è la pura e ineffabile gioia della creazione.

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